GNOSIS 4/2009
APPENDICE NUOVI PROCESSI COSTITUENTI A CONFRONTO |
Angelo RINELLA |
Il potere costituente: aspetti di teoria generale. Le origini La qualificazione oggettiva e soggettiva dell’autorità che decide sulla instaurazione di una nuova Costituzione viene generalmente espressa con la formula linguistica “potere costituente”. L’uso di tale espressione si fa risalire al periodo della Rivoluzione francese, quando si affrontò il problema della nascita di un nuovo ordinamento radicalmente diverso da quello previsto dalla Costituzione monarchica. La teorizzazione di questo concetto è da attribuirsi all’abate Sieyès, il quale – nel suo noto scritto Qu’est-ce que le tiers-état (1) – affermava che «non è a dei notabili che si deve far ricorso, è alla stessa nazione. Se noi manchiamo di una Costituzione se ne deve fare una; la nazione sola ha il diritto di farla». Il ricorso alla nazione teorizzato dall’abate, tuttavia, doveva esprimersi attraverso la rappresentanza della nazione, della quale dovevano essere protagonisti soggetti svincolati da qualunque tipo di collegamento con poteri già statuiti (2) . Ed è proprio questo il nucleo fondamentale della teoria di Sieyès dalla quale si ricava l’idea classica «del potere costituente come grande legislatore collettivo» (3) : la separazione tra pouvoir costituant e pouvoirs constitués (4) . Creare una distinzione tra poteri costituenti e costituiti significava riconoscere la preminenza della nazione e la tutela dei diritti dell’uomo che risultavano così protetti verso l’onnipotenza del legislatore. Le origini di tale teoria vanno ricercate nel giusnaturalismo moderno, divenuto dominante alla vigilia della Rivoluzione francese. Non a caso il Sieyès fa esplicito riferimento, nell’opera in precedenza citata, al diritto naturale inteso come unica regola vincolante la nazione nello stato di natura. La Rivoluzione francese associa l’esercizio del potere costituente alla «immagine forte di un’originaria unità politica sovrana capace di volere, denominata popolo o nazione» (5) . Al popolo deve essere riconosciuto, come ad un soggetto umano, il potere di disporre della formazione dell’ordine politico sociale. In tale ambito, tuttavia, la teoria del potere costituente incontra subito alcune difficoltà; in primo luogo in relazione alla individuazione precisa del rapporto tra potere costituente e rappresentanza: se il primo è per definizione illimitato ed assoluto, non può essere imprigionato nell’alveo di una forma di mandato fiduciario. «Non più un ordine divino del mondo e della natura determina il fondamento e la coesione stabilita dell’ordine politico-sociale, ma gli uomini di volontà propria e per propria decisione sovrana prendono in mano il loro destino e lo stesso ordine del mondo» (6) . In secondo luogo, anche da un punto di vista eminentemente pratico, emerge immediatamente una commistione tra potere costituente e potere costituito difficilmente sanabile in quanto connessa alla necessità di convocare gli Stati generali che, secondo l’abate, erano stati erroneamente riuniti secondo le procedure ordinarie: in tal modo finendo per confondere il potere costituente con il potere legislativo costituito (7) . La necessità di far ritornare al popolo il pieno possesso del potere costituente, del quale esso è l’effettivo titolare, induce il Sieyès a considerare necessaria una ratificazione popolare della Costituzione. Le resistenze a tale genere di previsione mostrano quale sia stata, in definitiva, l’eredità lasciata dall’esperienza rivoluzionaria francese in tema di potere costituente. Un’idea forte e al tempo stesso temuta in quanto espressione dell’illimitato potere del popolo sovrano. È pur vero che in Francia venne importato qualche elemento tratto dall’esperienza della precedente Rivoluzione americana, come l’elezione dei membri della Convenzione – successivamente al 10 agosto 1792 – per redigere una nuova Costituzione e sottometterla alla ratifica popolare. Tuttavia è stato sottolineato il differente modo di manifestarsi che ebbe il potere costituente in America, in quanto «strumento di fissazione di regole fondamentali capaci di vincolare i poteri costituiti proprio perché provenienti da un potere che questi precede e determina» (8) . Siamo di fronte a due accezioni diverse del concetto di potere costituente; accezioni che accompagneranno l’evoluzione delle costituzioni moderne: da una parte, quello di un potere di “indirizzo fondamentale” nell’individuazione e determinazione storica dei valori e dei principi che danno vita alle istituzioni politiche (secondo il portato della Rivoluzione francese); questa accezione viene codificata espressamente nell’art. 28 della Costituzione francese del 24 giugno 1793: «Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e modificare la sua Costituzione». Dall’altra, la fissazione di una norma fondamentale di garanzia senza la quale i poteri costituiti non avrebbero essi stessi legittimazione (il rinvio all’esperienza americana è evidente). Il potere costituente di fronte alle idee liberali dello Stato di diritto Il periodo ottocentesco dello Stato liberale di diritto segna un momento di crisi del concetto di potere costituente. Il “terribile potere” di rivoluzionaria memoria viene accantonato in quanto, così concepito, diffonde i germi di una intollerabile instabilità causata da quell’immagine rivoluzionaria della forza del popolo sovrano, padrone del proprio destino istituzionale. Ed è così che, nel Paese già teatro della rivoluzione, durante il periodo che va dal 1814 al 1830, viene negata la stessa esistenza del potere costituente, facendo risalire il testo costituzionale alla divina provvidenza e non ad una supposta sovranità della nazione. Sosteneva il Guizot, negando la dottrina del Sieyès, che «se si pretende che nel seno della società esistano o debbano esistere due poteri… l’uno costituzionale e l’altro costituente, si dice una cosa insensata, piena di pericolo e fatale». Per il Thiers «il potere costituente è esistito in molte epoche della nostra storia, esso non esiste più» (9) . Risale a questo periodo un’impostazione che riconduce il potere costituente in capo al monarca e che poggia su due piloni assai instabili: in primo luogo poiché non si poteva pensare che il monarca fosse titolare dello stesso potere costituente attribuito al popolo in epoca rivoluzionaria; la sua posizione di dominio, infatti, si fondava su argomenti giustificativi assai diversi. In secondo luogo, perché il monarca «la cui posizione riposa su una istituzione di conformazione giuridica, cioè sulla monarchia con una determinata legge di successione al trono, non può egli stesso essere concepito come fondamento originario e fonte, come l’informe-formatore dell’ordine politico-sociale che si configura nella Costituzione» (10) . La giustificazione di un potere costituente in capo al monarca era possibile solo nell’ambito di una legittimazione divina dell’ordine terreno nel quale il Re appariva come il rappresentante dell’onnipotente volontà divina. Sta di fatto che l’assimilazione del potere costituente ad un concetto di dispotismo democratico informa tutto il pensiero liberale ottocentesco. Soprattutto perché venivano posti in immediato contatto gli individui e lo Stato: cosa che faceva ritenere l’uomo in grado di modificare a piacimento il proprio regime politico solo attraverso la predisposizione di norme. L’eccezionale forza del legislatore rivoluzionario è il motivo per cui, in questo periodo, ritrova spazio la logica del bilanciamento dei poteri. Su di essa si svilupperanno le monarchie costituzionali europee della prima metà dell’800, ove emergerà «un ideale regolativo di tipo compositivo e compromissorio, che, come tale, rifuggiva dalla individuazione di ogni suprema potestas ed insieme rifiutava proprio il potere costituente quale scelta fondamentale per il certo sistema di valori» (11) . La mancanza di una scelta di tipo costituente, indirizzata verso l’individuazione di un percorso da seguire nella predisposizione delle fondamentali linee d’azione dei poteri pubblici sulla base delle ragioni del diritto, sarà il motivo principale del rifiuto ottocentesco al potere costituente. Banco di prova di tali teorie è proprio l’Italia, ove la “concessione” dello Statuto Albertino offre un terreno di tensione teorica per molti studiosi. Tra essi spicca l’Orlando, che si sforza di elaborare una dimostrazione dell’assunto in base al quale i poteri pubblici non derivano dal basso, da una scelta di tipo costituente realizzata attraverso l’opera del temuto legislatore rivoluzionario. Diversamente – secondo l’Autore – essi «si formano su base storica, raggiungendo gradualmente un assetto equilibrato, senza consentire ad alcuna suprema potestas di emergere, di arrogarsi speciali potestà normative». In questa ottica di ragionamento è facile giungere a considerare le libertà non come valori e principi scelti nell’esercizio del potere costituente ma come risultato di una corretta applicazione della legge. Un potere sovrano, in questa concezione positivistica, non può esistere perché solo ove non «si dà sovrano vi può essere garanzia giuridica della libertà» (12) . In una prospettiva giuspositivistica si pone anche il Santi Romano, che nega l’esistenza di un potere di carattere costituente in quanto tutti i poteri pubblici sono necessariamente e pienamente statali, cosicché lo stesso potere costituente, se vuole assumere rilevanza giuridica, finisce per coincidere con il potere legislativo. «Tutte le volte che di potere costituente si parla – sostiene il Santi Romano – si potrebbe, con maggiore proprietà di linguaggio e minore pericolo d’incorrere in equivoci, sostituire tale espressione con l’altra di potere legislativo straordinario. L’unica differenza difatti che intercede tra siffatto potere e quello cui si dà senz’altro il nome di legislativo, consiste negli organi diversi che li esercitano» (13) . La considerazione di Santi Romano parte dal presupposto che si possa stabilire una bipartizione del concetto di potere costituente: da un lato, quando con quella espressione ci si riferisce a momenti in cui «ogni mutamento ha luogo per opera di un popolo»; dall’altro, «di potere costituente può parlarsi allorquando, prima che un ordinamento sia distrutto, e coi modi e nelle forme da questo prescelte, vi si introducano delle modificazioni più o meno sostanziali o anche lo si sostituisce con un altro affatto nuovo» (14) . Il primo esempio, secondo Santi Romano, è un procedimento di fatto, non di diritto, che produrrà sì conseguenze giuridiche ma che comunque deve considerarsi fuori del diritto. Siccome non giustificate in norme prestabilite, le azioni rivoluzionarie – di per sé estranee al diritto – potranno avere efficacia solo a posteriori, qualora dovessero avere buon fine; in caso di fallimento, invece, «gli atti compiuti da chi si attribuiva la qualità di potere costituente si considerano non solo privi di efficacia ma anche contrari al diritto». Il contributo della dottrina del ’900 alla “giustificazione” del potere costituente Nella dottrina giuridica del ’900 vari sono stati i contributi volti a sviluppare nuove teorie del potere costituente (15) . Secondo un orientamento di tipo “bipartito”, sarebbe opportuno distinguere da una parte l’azione di un gruppo promotore, il quale riesce ad imporsi come potere effettivo, con propri programmi e ideologie; dall’altra, il successivo consenso per adesione in qualche modo manifestato da parte del popolo. Ora, secondo il Mortati il suddetto gruppo trainante andrebbe individuato in un insieme di forze organizzate le quali, avendo definito l’indirizzo fondamentale da dare all’ordinamento, ambiscono a fare di questo la base della stessa Costituzione. Non il popolo o la nazione, ma un insieme di forze differenziate che competono in uno spazio dominato dalla politica senza porsi necessariamente in antitesi con il diritto. Per l’Autore «ogni Stato necessariamente sorge per opera di un potere costituente, indipendentemente dai modi e dalle forme del concretarsi di questo. In altri termini, in qualsiasi formazione statale è dato rintracciare un momento creativo, caratterizzato da un atto di decisione… Una scomposizione della decisione stessa in due momenti successivi relativi, rispettivamente, alla volontà di far sorgere lo Stato e a quella di esprimergli certe caratteristiche» (16) . In linea con questo orientamento sembra la definizione che Fioravanti offre in ordine al concetto di potere costituente, e cioè «il frutto di un faticoso compromesso tra diritto e politica… in cui un complesso di forze sociali e politiche organizzate riesce a prevalere in modo sufficientemente stabile e definito, in modo tale da imporre scelte strategiche di fondo, da tradurre sul piano normativo costituzionale» (17) . Ancora nel senso di negare l’opera prescrittiva di una volontà superiore, Kelsen ravvisa il fondamento di validità di un ordinamento costituzionale nel procedimento di produzione del diritto positivo. Secondo questa notissima impostazione teorica, esiste una norma presupposta, una norma fondamentale che «istituisce la fattispecie tipica per la produzione del diritto» (18) . Sulla base di tale assunto Kelsen giunge a negare validità ad un ordinamento costituzionale che si sia attuato attraverso una rivoluzione ove, con tale termine, lo studioso intende «ogni modificazione costituzionale illegittima, cioè eseguita non conformemente alle disposizioni della Costituzione ovvero la sostituzione di una Costituzione con un’altra» (19) . In questo panorama spicca, differenziandosi, la costruzione teorica di un altro grande studioso, Carl Schmitt, che riprende il concetto di potere costituente come potere popolare riferendolo tuttavia ad una decisione totale ed esistenziale assunta dal popolo stesso. Il fondamento dell’ordinamento giuridico costituzionale non trova più il suo proprio e puro riconoscimento nella norma fondamentale in sé, ma nel riconoscimento della forza ed autorità del potere costituente su cui si basa la legittimità della Costituzione. Tale legittimazione si radica nella nuova Costituzione – anche se ottenuta in maniera rivoluzionaria – perché deriva da una “decisione politica fondamentale”: conseguentemente il fondamento di un ordinamento giuridico-costituzionale trova il massimo grado di riconoscimento nell’atto di riconoscimento di una decisione politica (20) . In definitiva, nella prospettiva schmittiana, il potere costituente esprime una capacità ordinatrice del popolo, la quale si manifesta attraverso una decisione politica istituente e fondamentale, che non riconosce né giudici, né leggi, né tantomeno limiti di sorta. Di fronte a queste diverse concettualizzazioni, sembra tuttavia possibile cogliere una matrice unitaria: e cioè, che il potere costituente è un potere di fatto che trova la sua legittimazione in sé stesso; in altre parole, esso non è un potere legale (in quanto per sua stessa natura non può essere conforme all’ordinamento vigente ed è pertanto antigiuridico); è tuttavia un potere legittimo, in quanto affonda le sue radici in una “legge superiore”. Non deve perdersi di vista, naturalmente, il fatto che le idee di fondo del costituzionalismo giustificano l’ordinamento costituzionale sulla base della teoria del contratto sociale e del principio della sovranità popolare: il potere costituente, preordinato all’instaurazione di una Costituzione, spetta dunque al popolo (21) . Sul piano strettamente giuridico, l’antigiuridicità del potere costituente non trova una soluzione; resta la sua formale ingiustificabilità. Appartiene al patrimonio genetico del costituzionalismo quel connubio tra potere costituente e diritti inviolabili del popolo che conferisce all’idea stessa di Costituzione un’identità forte. Non si deve dimenticare, infatti, che il potere costituente nella tradizione delle costituzioni americane e francesi recava in sé l’affermazione di principi giusnaturalistici: un potere volto ad affermare i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Ora, seguendo la linea di pensiero di una recente dottrina, lo stesso modello contemporaneo di Costituzione resta forgiato sui diritti fondamentali dell’uomo (22) . Se dunque l’esercizio del potere costituente è per sua naturale propensione destinato a incidere sui diritti fondamentali dell’uomo e se, allo stesso tempo, esso si caratterizza per la sua assoluta libertà da ogni vincolo, formale e sostanziale, è legittimo domandarsi se possa oggi concepirsi l’idea di un potere costituente potenzialmente capace di «negare ciò che il costituzionalismo contemporaneo ha affermato» (23) . Secondo questo orientamento, il potere costituente sembrerebbe essere esaurito, almeno con riferimento agli ordinamenti coerenti con i principi del costituzionalismo, proprio perché non appare possibile incidere su un’area (quella dei diritti dell’uomo) «che nessuno può pretendere di occupare ed esercitare a suo nome». Si accoglie, in questo modo, una concezione del potere costituente come fondamentale principio giuridico «in forma di comandamento negativo di diritto» (24) , finalizzato a creare uno sbarramento contro le minacce potenziali per i diritti naturali e inviolabili che potrebbero determinarsi, qualora quello stesso potere, dovesse essere risvegliato. L’“ondata” costituente di fine ’900 Sul finire degli anni ’80, si assiste a un processo di riassestamento degli equilibri politici su scala internazionale in seguito alla dissoluzione dell’URSS; ad una transizione dal modello socialista al modello liberale di molti dei Paesi satelliti della ex Unione sovietica; al venir meno delle condizioni di “guerra fredda” tra blocco occidentale e orientale. In questa fase storica, le ripercussioni sul piano degli assetti costituzionali sono notevoli. Nell’arco di tempo di poco più di un decennio si assiste a una «ondata di democratizzazione» (25) di portata planetaria. Prevale la scelta a favore del modello costituzionale di matrice liberale; gli istituti classici della democrazia occidentale trovano la loro consacrazione nei testi costituzionali: sia nei casi di innovazione della carta costituzionale; sia nei casi in cui si ritorni ad una Costituzione precedentemente vigente, rimasta sospesa durante il regime autoritario che ora si rimuove. Dal punto di vista degli studi di Diritto costituzionale, l’epoca che si considera rappresenta un terreno di enorme interesse: non solo per i fenomeni giuridico-istituzionali che si manifestano, ma anche per le particolari condizioni politico-internazionali che fanno da contesto. Certamente, l’avvento di nuove costituzioni ripropone, per gli studiosi, la questione del potere costituente. Le varie condizioni nelle quali i nuovi testi costituzionali prendono forma non sempre consentono di individuare nettamente quelle manifestazioni della volontà popolare che la tradizione qualifica come “potere costituente” e che esprimono quel potere originario del popolo di scegliere, libero da vincoli, il fondamento della convivenza civile. La determinazione dell’esatta portata costituzionale del processo di transizione va dunque riferita alle singole esperienze. Nella prospettiva d’insieme, emergono tuttavia alcuni fattori che vanno messi in risalto. In primo luogo, frequentemente si assiste ad una vera e propria transizione da una forma di Stato ad un’altra. Questo tipo di transizioni incidono, ovviamente, sull’assetto dei diritti e delle libertà fondamentali in quanto chiamano in causa proprio quella relazione che esiste tra autorità e libertà, tra governanti e governati, che è propria del concetto di forma di Stato. Indipendentemente dalle forme che il processo di transizione assume, ricorrono le condizioni per intravedere l’esercizio di un potere costituente. In secondo luogo, appartengono con una certa sicurezza alle manifestazioni costituenti quei casi nei quali si costituiscono nuovi soggetti di Diritto internazionale. Si pensi allo smembramento di Stati socialisti di tipo federale da cui scaturiscono nuovi Stati (Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Croazia, ecc.) che si fondano su nuove costituzioni. In terzo luogo, un processo costituente può ravvisarsi nei casi in cui, pur non nascendo un nuovo soggetto di Diritto internazionale, l’approvazione di una nuova Costituzione segna un evidente mutamento di regime da non lasciare dubbi sul carattere costituente del processo (il caso della Costituzione del 1996 del Sudafrica è esemplare al riguardo). In definitiva, come è stato osservato, anche al di là delle tecniche e delle procedure seguite, l’ondata di transizioni democratiche di fine ‘900 segna una riaffermazione del potere costituente che si manifesta in «una volontà politica fondante diretta a legittimare il nuovo ordinamento. La decisione legittimante il nuovo assetto del potere è la riprova della avvenuta frattura della continuità del precedente ordinamento» (26) . I procedimenti costituenti Poiché si esprime in via di fatto e sulla base di fatti, la volontà costituente del popolo non si presta ad essere inquadrata nello schema di un procedimento formale preordinato. Si registra dunque una varietà di processi di instaurazione di una nuova Costituzione, sulle quali è opportuno svolgere alcune considerazioni. Strettamente collegato al concetto di potere costituente, di cui si è detto nei paragrafi precedenti, è quello di processo o procedimento costituente. Con tale espressione si intende qualificare quel meccanismo di creazione di nuove costituzioni, mettendo in evidenza i procedimenti attraverso i quali si determina il passaggio ai nuovi ordinamenti costituzionali, sia là dove si sia prodotta una frattura rispetto all’ordinamento precedente a causa di avvenimenti di carattere rivoluzionario, sia, viceversa, quando le trasformazioni abbiano avuto luogo in un alveo di giuridicità. In senso più ampio, procedimento costituente può dirsi quel complesso di attività poste in essere in vista dell’instaurazione di un nuovo Stato, nella considerazione della funzione specifica cui quelle attività sono rivolte, che è quella di dar vita alla nuova Costituzione intorno a cui si ordina lo Stato. Lo sviluppo in fasi dell’instaurazione di nuovi Stati è stato evidenziato dalla dottrina che rileva uno «svolgimento progressivo, distinto in più stadi» (27) . Viene però anche messa in luce da alcuni autori un’accezione più ampia di processo costituente. Nel senso di metterne in evidenza una connotazione politica, nella quale assurge a ruolo fondamentale il partito. A tale riguardo la dottrina osserva che si deve distinguere tra due funzioni da esso svolte, in tali contesti: da un lato, quella di «differenziare l’unità indistinta del popolo facendo finalmente emergere parti indistinte tra loro in competizione» (28) ; dall’altro, gli stessi partiti disciplinano tale competizione ai fini del perseguimento di indirizzi di carattere collettivo. Solo in tale composizione di funzioni, secondo la stessa dottrina, può parlarsi di processo costituente inteso come procedimento di «definizione dei caratteri autentici ed originali del regime» (29) , in un contesto caratterizzato dalla plurisoggettività dei protagonisti del cambiamento. Diverso ed originale è, invece, l’approccio alla tematica offerto da John Elster, che riconduce in un ambito di ricerca di legittimità il problema del processo costituente (30) . In particolare, secondo l’Autore, in ogni passo del processo costituente è ravvisabile una particolare connotazione del concetto di legittimità il quale, in ultima istanza, dovrà informare il documento scaturito dal processo costituente medesimo. Da questa impostazione emerge, in primo luogo, un concetto di legittimità ascendente riferito alla necessità di piena legittimazione – quanto alle modalità di formazione – della stessa Assemblea costituente destinata a redigere il documento. In secondo luogo, l’Autore parla di legittimazione procedurale riferendosi alle modalità di decisione adottate in seno all’Assemblea: «se la procedura decisionale in tema viene percepita come non democratica – afferma Elster – il documento può difettare di legittimazione democratica» (31) . Infine, l’Autore parla di legittimità ascendente per mettere in luce la particolare connotazione che pervade una Costituzione nella cui fase di adozione e di ratifica diventi partecipe la comunità politica. L’approccio sistemico proposto da Elster lascia intravedere una suddivisione per fasi del processo costituente: una prima fase preparatoria o di iniziativa – che ci ricollega al concetto di legittimità ascendente – in cui vengono in evidenza gli aspetti precedenti la predisposizione della Costituzione o di un suo progetto, quali, appunto, la formazione di un’Assemblea costituente. Una seconda fase attiva e deliberativa in cui l’Assemblea lavora alla predisposizione della Carta. Infine, una terza fase deliberativa e di ratifica nella quale il documento già formato viene sottoposto al vaglio della comunità popolare per la definitiva approvazione. Non sembra potersi dubitare della possibilità di riconoscere, in una simile impostazione, lo schema classico di articolazione in tre fasi del processo costituente richiamato dalla dottrina costituzionalistica: la fase dell’iniziativa costituente, in cui si manifesta la decisione preliminare di adottare una nuova Costituzione; la fase preparatoria, che viene svolta da un governo provvisorio; la fase deliberativa, che conduce all’adozione della nuova Carta fondamentale. In relazione alle diverse modalità di formazione delle costituzioni, vengono proposte anche alcune classificazioni dei procedimenti costituenti (32) : sulla base della derivazione dell’iniziativa costituente – ove può distinguersi tra procedimenti esterni, internazionalmente guidati o interni – ovvero con riferimento alle modalità di sviluppo del procedimento – in cui si parla di procedimenti monarchici, democratici, autocratici – . Esterni sono quei procedimenti costituenti che si svolgono al di fuori dell’ordinamento destinatario della nuova Costituzione. Essi possono verificarsi in caso di perdita della sovranità da parte di uno Stato a seguito di un conflitto bellico, ovvero in caso di indipendenza raggiunta da territori coloniali. Quali esempi vengono citati quelli della Costituzione giapponese del 1947 e della Legge fondamentale tedesca successiva al conflitto mondiale terminato nel ’45. La caratteristica di questi procedimenti è che l’origine dell’iniziativa costituente è rinvenibile in atti di Stati diversi rispetto a quelli cui la Costituzione è destinata. Ciò comporta anche la sussistenza di una sorta di periodo di vacatio: la nuova Costituzione diverrà la carta fondamentale degli Stati interessati solo nel momento in cui essi risulteranno realmente indipendenti ed autonomi. Con procedimenti internazionalmente guidati, invece, si intendono i meccanismi diretti all’adozione di nuove costituzioni nei quali intervengano accordi fra Stati diversi ovvero iniziative di organizzazioni internazionali. A differenza dei casi precedenti, a tali procedimenti partecipano anche organi degli Stati interessati. Esempi in tal senso possono essere rilevati in Namibia (1989-1990) e in Zambia (1989-1993), ove ebbe un importante ruolo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; in Bosnia-Erzegovina (1991-1995), ove parteciparono attivamente il Segretario delle Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e l’OSCE. In questi contesti gli organismi internazionali svolgono un compito difficile, a metà tra il tentativo di pacificazione tra le fazioni in rotta e la mediazione fra i belligeranti affinché essi arrivino all’accettazione di un testo costituente accomunante. I procedimenti interni, infine, si sviluppano in seno agli ordinamenti interessati. È in tale contesto che possiamo rinvenire le maggiori differenziazioni relativamente alla titolarità e alla modalità di manifestazione del potere costituente sottostante l’elaborazione di una nuova Costituzione. La seconda classificazione proposta poggia sulle diverse modalità di sviluppo dei procedimenti costituenti ed ha radici più antiche: inizialmente si limitava a distinguere tra procedimenti monarchici e democratici. Attualmente, in corrispondenza con le variegate esperienze degli ultimi anni, viene proposto un ampliamento di questa tipologia. Come anticipato, si suole distinguere tra procedimenti monarchici, democratici ed autocratici. I primi sono quelli in cui il Re, titolare della sovranità, accondiscende alla concessione di una Costituzione in seguito alle sollecitazioni esterne ricevute a tal proposito. In tale ambito, si parla di Costituzioni octroyées in cui a fronte della limitazione parziale del potere sovrano venivano statuite garanzie a favore di ceti o classi emergenti. Tipico esempio è lo Statuto Albertino del 1848 concesso da Carlo Alberto di Savoia ai territori e ai popoli via via annessi allo Stato sabaudo (33) . I procedimenti di carattere democratico, invece, non derivano da una concessione del sovrano o, comunque, dell’effettivo detentore del potere, ma da un’attività diretta del popolo quale legittimo titolare del potere costituente. Quanto alle modalità di manifestazione di quest’ultimo, possono farsi ulteriori distinzioni a seconda che essa avvenga nell’ambito di Convenzioni o Assemblee costituenti, attraverso referendum precostituenti o referendum costituenti. Le prime sono Assemblee elette allo scopo specifico di redigere una Costituzione; i secondi sono consultazioni popolari finalizzate alla determinazione di una opzione istituzionale (monarchia o repubblica), o di una separazione da un territorio, o relative alla proposta di elezione di un’Assemblea costituente. I referendum costituenti, infine, sono connessi alla ratificazione di un testo di Costituzione già definito (34) . Anche Carl Schmitt parla di una sorta di procedimento democratico, di una prassi connessa alle forme di manifestazione diretta dalla volontà costituente del popolo (35) . Accanto alla forma classica di procedimento democratico dell’Assemblea costituzionale costituente, in cui opera «un’assemblea eletta secondo princìpi democratici ed espressamente incaricata della formulazione e normativizzazione di disposizioni legislativo-costituzionali» (36) , Schmitt individua, innanzitutto, la Convenzione-Assemblea con il compito di progettare la norma costituzionale da sottoporre a successivo referendum (37) . In relazione a tale procedimento, inoltre, distingue il caso della convenzione per una Costituzione federale che dovrà essere ratificata dai singoli Stati membri. Infine, lo studioso parla di plebiscito, ossia di una votazione generale del popolo «su una qualsiasi proposta che venga fatta o su un qualsiasi ordine nuovo e regolamento che sia prodotto». Peraltro, il rimando ai plebisciti è rinvenibile anche in Santi Romano che, criticando la posizione di coloro che legittimano a posteriori una qualsiasi instaurazione di fatto proprio in virtù di un successivo plebiscito, afferma che «non è il plebiscito che rende legittimo l’ordinamento, ma l’ordinamento legittimo che dà efficacia al plebiscito, subordinando non la propria instaurazione ma solo la propria continuazione al risultato di questo» (38) . Esperienze recenti: quadro di riferimento e linee di tendenza Nelle pagine che seguono si prenderanno in considerazione alcune recenti esperienze costituenti. Ciò che deve tuttavia preliminarmente farsi rilevare è la varietà delle forme che, nel concreto, un procedimento costituente può assumere. così, per rimanere legati alla tripartizione in fasi del procedimento costituente, è agevole rilevare che in genere la fase dell’iniziativa o preparatoria vede un organo straordinario che, elaborando ed esprimendo la decisione politica di mutare la Costituzione al di fuori delle forme previste dall’ordinamento, autoassume il potere costituente (Romania). Si registrano però anche casi in cui l’iniziativa viene assunta da organi del precedente ordinamento costituzionale che decidono di convocare un’Assemblea costituente (Venezuela); o essi stessi avviano un processo di negoziazione articolata con i soggetti politici fino ad allora esclusi o sottorappresentati (Sudafrica). Talvolta si assiste ad una catarsi di organi del vecchio regime che, acquisita una rinnovata legittimazione per effetto di una nuova legge elettorale, attraverso procedure di revisione costituzionale, danno vita ad una nuova Costituzione (Ungheria). Non sempre, peraltro, il procedimento costituente si conclude con l’approvazione da parte di un’Assemblea rappresentativa. Talvolta si preferisce una “ratifica” diretta da parte del popolo con referendum. Deve segnalarsi, tuttavia, una tendenza a regolare giuridicamente il potere costituente. Sebbene i processi costituenti generalmente continuino a imporsi in via di fatto, segnando una rottura con il precedente ordinamento, talune costituzioni, nel tentativo di imbrigliare il potere costituente, o meglio, volendo salvaguardare le conquiste del costituzionalismo moderno, disciplinano espressamente la revisione totale della Costituzione (Austria, Bulgaria, Spagna, Svizzera). In tal senso sembrano anche orientate quelle iniziative volte a disciplinare le modalità di revisione ampia delle costituzioni vigenti. Si pensi alla legge costituzionale n. 1/1997 che, nel nostro Paese, istituiva una «Commissione parlamentare per le riforme costituzionali» e prevedeva un procedimento speciale di revisione della parte seconda della Costituzione italiana. Ora, questa tendenza a regolare i procedimenti costituenti è il segnale che il potere costituente andrebbe inteso come un potere, democraticamente regolato, volto ad adeguare la Costituzione a quei mutamenti di fondo che si registrano in ordine alla identità della comunità (39) . Dall’angolo di visuale del costituzionalismo contemporaneo, dunque, si tende a introdurre limiti al potere costituente affinché, in veste di revisione totale della Costituzione, non abbia a mettere in pericolo le conquiste del costituzionalismo, oggi peraltro consacrate anche nelle Dichiarazioni internazionali dei diritti. Le tre esperienze che di seguito vengono illustrate (Sudafrica, Romania, Estonia) costituiscono casi alquanto significativi – sul piano dell’analisi costituzional-comparatistica – dei recenti fenomeni di transizione costituzionale. Pur presentando alcune analogie, i casi analizzati hanno proprie specificità: sia in relazione alle peculiarità del rispettivo substrato sociale, politico e ideologico nell’ambito del quale le modificazioni sono venute in essere, sia avuto riguardo alla scansione dei singoli atti e fatti determinanti l’evolvere del processo costituente Il processo costituente in Sudafrica: poteri costituiti e negoziazione costituzionale Il 10 dicembre 1996, il Presidente della Repubblica del Sudafrica, Nelson Mandela, firmava la nuova Costituzione del Paese. Prima di giungere a tale momento sono occorsi oltre cinque anni durante i quali si è sviluppato un lungo e complesso processo costituente, influenzato, nel suo dipanarsi, dalle molteplici singolarità dell’esperienza sudafricana (40) . Iniziato nel 1991, il processo costituente in esame è stato il frutto del superamento di una caratteristica peculiare della realtà del Paese, quella dell’apartheid, che ne aveva condizionato lo sviluppo costituzionale sin dall’inizio del XX secolo. Uno sguardo alla storia coloniale del Sudafrica ci suggerisce come il dominio esterno sulle popolazioni locali abbia innescato un meccanismo di isolamento dei neri i quali, per quanto in maggioranza numerica, dovevano permanere frazionati per etnie e confinati in riserve tribali e governati da politici autoctoni legittimati esclusivamente alla forza repressiva della stessa politica dell’apartheid. In effetti, sin dagli atti legislativi con i quali veniva istituita l’Unione Sudafricana (41) , i non bianchi erano sempre rimasti al di fuori del circuito di godimento dei diritti politici cosicché, anche nei periodi successivi, ad essi non rimaneva che contare sul valore contrattuale della propria forza lavoro, ad esclusivo vantaggio delle popolazioni bianche arricchitesi con i commerci e le industrie estrattive. Con il passare degli anni la popolazione nera ha accumulato un malessere diffuso derivante da ragioni di natura razziale ed etnica, ma sfociante anche in un malcontento di carattere sociale ed economico che a sua volta è stato determinante nello sviluppo di una sempre crescente instabilità istituzionale alla quale occorreva porre rimedio attraverso profonde e concrete riforme. Una svolta in senso innovativo è stata determinata dall’elezione alla Presidenza della Repubblica di F.W. De Klerk, il quale, sin dal discorso inaugurale pronunciato all’atto dell’insediamento il 20 settembre 1989, manifestò chiaramente di voler porre mano a riforme sostanziali in grado di mutare completamente l’assetto istituzionale del Paese (42) . Mantenendo fede alle intenzioni, De Klerk precisò le linee guida del proprio progetto innovativo in occasione di un altro famoso discorso programmatico pronunciato il 2 febbraio 1990: l’abolizione dei divieti di ogni attività politica per le due più grandi associazioni indigene – l’African National Congress (ANC) dei Bantu e l’Inkata Freedom Party (IFP) degli Zulu (43) – e, di riflesso, delle altre organizzazioni nere fino ad allora clandestine; l’introduzione di norme finalizzate all’instaurazione di una piena parità giuridica e politica fra tutti i sudafricani, compresi i neri; l’attivazione di una serie di negoziazioni tra i maggiori leaders dell’opposizione nera, con ciò disponendo anche la liberazione di Nelson Mandela, prigioniero fino all’11 febbraio 1990 e, in seguito, con apposita amnistia del 18 dicembre 1990, la liberazione di tutti i prigionieri politici. Dalle manifestazioni di propositi, si passò presto ai fatti: nel corso del biennio 1990-1991 vennero gettate le basi di un procedimento costituente che, come anticipato, si sarebbe protratto per diversi anni, attraverso lo smantellamento della legislazione razziale di apartheid (44) . In questo processo di avvicinamento delle opposte fazioni appaiono rilevanti i passi verso la distensione attuati dai rappresentanti del potere in carica; e, in primo luogo, dal Presidente De Klerk e dal suo National Party (45) . Certo è, tuttavia, che anche da parte delle opposte fazioni – e in particolare dall’ANC – tali approcci vennero assecondati grazie a comportamenti di piena disponibilità non solo al fine di comporre i dissidi con i rappresentanti dell’ordine costituito, ma anche per eliminare i punti di disaccordo esistenti tra le diverse fazioni facenti parte dell’opposizione che avrebbero potuto costituire ostacolo non irrilevante nella strada verso le riforme. E, in tale ottica, vanno interpretate sia la solenne dichiarazione di rinuncia alla lotta armata dell’ANC del 6 agosto 1990, sia l’accordo tra l’ANC e l’IFP per la cessazione dei continui conflitti nei ghetti neri. L’insieme di tali circostanze costituì le basi per l’inizio del processo costituente. L’ambivalente partecipazione dei due schieramenti opposti – l’uno al potere e l’altro all’opposizione – a questa prima fase del processo costituente, attuatasi attraverso il reciproco vicendevole scambio di concessioni e riconoscimenti, normativi da un lato, simbolici e fattuali dall’altro, induce a formulare alcune considerazioni. In effetti, da un lato non può non riconoscersi una genuina volontà di rinnovamento in capo ai rappresentanti del potere costituito e, segnatamente, di De Klerk, che è riuscito con tempestività ad interpretare in senso positivo i segnali di un sempre più pressante bisogno di riforme (46) ; per altro verso, l’attività di propaganda svolta per lo più clandestinamente dall’opposizione è forse il più evidente segno della volontà di cambiamento che, durante il regime di apartheid, covava nella maggioranza della popolazione oppressa da una minoranza guidata da princìpi di disparità etnica. Ciò che veramente sembra rilevare nella situazione sudafricana è la presenza di un legittimo potere che autonomamente, per la spinta di forze ad esso contrapposte, è in grado di rinnegare i propri fondamentali principi che, da tempo, erano stati ispiratori di una tendenza all’isolamento di uno strato della popolazione. Il potere rinnega sé stesso per rinnovarsi, cogliendo gli input al cambiamento e riuscendo a modificare la propria essenza. Almeno in questa fase, questo sembra essere un elemento qualificante il processo costituente sudafricano: il fatto che l’iniziativa, sicuramente voluta dalla popolazione oppressa, sia stata interpretata e fatta propria dallo stesso potere costituito sino ad allora combattuto che, quasi appropriandosi della titolarità di un potere costituente ancora non perfettamente soggettivizzato, lo ha primariamente manifestato nella direzione evolutiva di una società che lo avrebbe sostituito una volta mutate le fondamentali regole della convivenza. È come se i titolari della potestà di imperio avessero accettato – in base ad un implicito e incondizionato mandato ad agire – di operare celermente in luogo e a favore dei destinatari delle riforme affinché il procedimento di mutazione degli aspetti costituzionali potesse svolgersi su base paritaria non avendo, quale fine, quello del mantenimento delle proprie prerogative di sovranità ma acconsentendo, in maniera più che esplicita, alla propria messa in discussione e, in ultimo, alla propria sostituzione. Sarebbe ingenuo non ricordare il ruolo che, a favore di questo orientamento, era stato assolto dalla comunità internazionale. Tuttavia, se è vero che il processo costituente in Sudafrica ha avuto una lunga durata, è certo che la fase dell’iniziativa costituente ha modificato l’aspetto del Paese ad una velocità altrettanto ragguardevole, atteso che nel giro di un biennio è stato smantellato il frutto giuridico-istituzionale di secolari convinzioni razziste ed inegualitarie. Lo smantellamento dell’apartheid, quindi, potrebbe considerarsi come la prima manifestazione di un potere costituente facente capo al popolo, assetato di riforme, ma curiosamente reso efficace dallo stesso potere costituito, non per una necessità di riaffermazione, ma per una volontà di cambiamento effettivo anche a costo di una propria estinzione. Poste così le premesse del processo costituente, il 14 settembre 1991, con la firma del National Peace Accord, prendeva avvio la fase delle negoziazioni con il quale le parti si impegnavano a porre in essere un reale sforzo collaborativo, senza violenza e prevaricazioni. Ma è con la convocazione del primo forum di negoziazione costituzionale che, il 20-21 dicembre dello stesso anno, iniziarono i lavori con la predisposizione di una dichiarazione di intenti, articolata in nove enunciati, con la quale venivano sancite le linee ispiratrici del testo della nuova Costituzione. Il CODESA I – questa la sigla della Conference for a Democratic South Africa – vide la partecipazione dei rappresentanti di quasi tutte le forze in campo, ad eccezione delle frange estremiste bianche e nere. Proprio per tale folta partecipazione fu riconosciuta una sufficiente rappresentatività della realtà nazionale nell’ambito del forum ove si trovarono a discutere del possibile nuovo assetto costituzionale del Paese sia soggetti schierati nelle forze di potere, sia membri dell’opposizione da poco legittimati ad esprimere le proprie idee in ambiti negoziali. La stessa dichiarazione di intenti può essere considerata come il tentativo di affermare alcuni capisaldi capaci, da un lato, di ricevere consenso delle parti e, dall’altro, di tracciare chiare linee guida nel successivo sviluppo (47) . Il forum negoziale lavorò per circa cinque mesi, organizzato in cinque gruppi di lavoro a ognuno dei quali fu assegnata una delle seguenti problematiche correlate alla predisposizione del testo della Costituzione da sottoporre all’Assemblea Nazionale: a) definizione dei princìpi guida e del sistema di redazione della nuova Costituzione; b) natura del Governo di transizione, suoi poteri e durata; c) definizione delle condizioni per realizzare una libera attività politica e ruolo della comunità internazionale nel periodo di transizione; d) assetto dei TVBC, ossia dei Bantusanindipendenti del Trankei, Bophuthatswama, Venda e Ciskei; elaborò altresì tempi e metodi di applicazione degli accordi di CODESA I. Nel marzo 1992, inoltre, si svolse un referendum popolare riservato ai soli cittadini sudafricani bianchi grazie al quale F.W. De Klerk, con il 68,7% dei voti favorevoli, ottenne il mandato a continuare le trattative lungo la via della negoziazione. Una parziale battuta di arresto in tale processo si ebbe con il fallimento del c.d. CODESA II, che, convocato il 15 maggio 1992, secondo quanto previsto nel corso della prima edizione della conferenza, terminò immediatamente i suoi lavori a causa dell’impossibilità di comporre alcune fratture su importanti questioni. Solo nel maggio 1993 – dopo un anno dalla convocazione del CODESA II – i negoziati poterono riprendere con il Multiparty Negotiation Process (MPNP), al quale parteciparono i rappresentati dei più importanti movimenti e partiti politici del Paese, nonché dei quattro Bantustan indipendenti e dei sei Homelands neri (48) . Il foro di negoziazione multipartitica lavorò per oltre sei mesi attraverso una serie di commissioni distinte per argomento. Il MPNP fece propria la dichiarazione di intenti già predisposta in occasione del CODESA I, riaffermando lo spirito di collaborazione con il Governo De Klerk che già aveva guidato i precedenti lavori. Ciò nonostante nel corso dei lavori si registrarono delle defezioni da parte di alcune rappresentanze politiche (tra cui l’IFP di Buthelezi). Il 17-18 novembre 1993, finalmente, vide la luce il testo della nuova Costituzione preparato con il consenso dei partecipanti al forum, approvato dal Parlamento tricamerale, riunito in sessione straordinaria, con il Constitution of the Republic of South Africa Act n. 200 del 22 dicembre 1993 (che ottenne 237 voti favorevoli contro 45 contrari). La Costituzione del 1993 viene comunemente definita transitoria: ciò in quanto essa era destinata, secondo le precise disposizioni contenute nel V cap., ad essere superata da una Final Constitution, una nuova Costituzione da redigere ed approvare in conformità ad una rigida procedura. La Costituzione, frutto delle negoziazioni sviluppatesi in seno al MPNP entrò in vigore il 27 aprile 1994, giorno delle prime elezioni democratiche del Sudafrica, alle quali parteciparono anche i rappresentanti del IFP di Buthelezi, che aveva abbandonato i lavori del forum. È necessario soffermarsi, ora, sul meccanismo di preparazione ed approvazione della Final Constitution previsto nella Costituzione del 1993. In effetti il cap. V della stessa, così come integrato dagli emendamenti contenuti nel Constitution of the Republic of South Africa Act 1994 (49) (nn. 2 e 3) rubricato «Adozione della nuova Costituzione», prevede la formazione di una «Constitutional Assembly», composta dall’Assemblea Nazionale e dal Senato, avente il compito di redigere ed adottare un nuovo testo costituzionale secondo le seguenti regole: a) la nuova Costituzione deve attenersi ai principi costituzionali contenuti nell’Allegato 4 (50) ; b) il nuovo testo deve essere approvato, entro due anni dalla sua prima riunione, dall’Assemblea costituzionale, con una maggioranza dei 2/3 dei membri della stessa Assemblea e l’ulteriore approvazione – sempre a maggioranza dei 2/3 – del Senato per le disposizioni del testo concernenti confini, poteri e funzioni delle province. Particolare attenzione è stata riposta acché il testo costituzionale risultasse effettivamente conforme ai citati 34 principi dell’Allegato 4. A tal fine si prevedeva un giudizio di conformità della Corte costituzionale sul testo approvato dall’Assemblea costituzionale: con ciò volendo evitare ogni iniziativa di tale organo che potesse andare al di là dei limiti precisamente imposti dal Constitution Act. La stessa scelta terminologica di Assemblea costituzionale in luogo di Assemblea costituente lascia intendere il fatto che il potere costituente abbia avuto manifestazione effettiva durante le precedenti fasi negoziali svoltesi in seno ai vari organismi assembleari riunitisi a più riprese nel corso degli anni precedenti. Alla luce di tale considerazione, l’attività posta in essere dall’Assemblea costituzionale va interpretata quale espressione di un potere costituito incaricato di operare nell’ambito di uno schema procedurale precisamente e preventivamente determinato. Al momento dell’ingresso in gioco dell’Assemblea costituzionale, quindi, il processo costituente può essere considerato sostanzialmente concluso anche se, per l’adozione della nuova Costituzione bisognerà attendere ancora oltre due anni. In seno all’Assemblea (51) venne previsto un Comitato costituzionale di 46 membri, 12 dei quali vennero destinati a far parte del «Management Committee» la cui funzione era quella di sorvegliare – in funzione di coordinamento – lo svolgimento del processo senza interessarsi ai problemi fondamentali. Con la Risoluzione del 5 settembre 1994, l’Assemblea costituzionale istituì sei Commissioni tematiche (52) , responsabili del rispetto dei 34 princìpi fondamentali contenuti nell’Allegato 4. Le Commissioni tematiche non erano organi di negoziazione ma strutture di organizzazione e di raccolta delle istanze. Infatti, esse avevano la funzione di: ricevere e collegare le opinioni emergenti nell’ambito della società allargata; esaminare le proposte provenienti dai partiti politici; sviluppare ed elaborare tali opinioni; sottoporre i concetti elaborati sotto forma di rapporti per il Comitato costituzionale per il successivo dibattito in seno all’Assemblea costituzionale. Ogni Commissione tematica era composta da 30 membri con un «Core Group» di 7-8 persone incaricato di organizzare e coordinare il lavoro (53) . Le linee generali di sviluppo dei lavori delle commissioni stabilite dall’Assemblea costituzionale non furono così rigide: in effetti, almeno in un primo momento, venne ritenuta di essenziale importanza solo la prima Commissione (54) , proprio in quanto destinata ad occuparsi dell’aspetto fondamentale del nuovo Stato sudafricano. Al termine dei lavori delle Commissioni tematiche, con il Rapporto del 30 giugno 1995, intervenne una Commissione tecnica che, sotto il controllo dell’Assemblea costituzionale e del Comitato costituzionale, doveva provvedere alla trasposizione delle posizioni politiche nell’ambito di una bozza di documento in forma di testo legale. I lavori di tale organo si conclusero il 14 luglio 1995. L’Assemblea costituzionale, quindi, dopo il dibattito in sede plenaria, approvò la nuova Costituzione l’8 maggio 1996. Come previsto dall’art. 71 c. 2, esso venne sottoposto all’esame della Corte costituzionale affinché fosse verificata la sua rispondenza ai Constitutional Principles. La Corte restituì il testo eccependo la non conformità di alcune disposizioni della nuova Costituzione. L’Assemblea, in tempi rapidi, apportò 40 emendamenti in ossequio ai suggerimenti della Corte costituzionale che, con decisione del 5 dicembre 1996, diede il proprio placet al nuovo testo costituzionale. La nuova Costituzione, come anticipato all’inizio del presente paragrafo, è stata firmata dal Presidente Mandela il 10 dicembre 1996 ed è entrata in vigore il 4 febbraio 1997. Il processo costituente in Romania: la via cruenta alla nuova Costituzione Considerato per lungo tempo, tra quelli socialisti, il regime meno ostile all’occidente, la Romania di Ceaucescu ancora nell’autunno del 1989 rimaneva estranea al vento di rinnovamento che soffiava sull’Est. Per nulla ispirato dalle nuove tendenze in corso, il Presidente della Repubblica, nonché Segretario generale del partito comunista, aveva dato avvio a un programma di smantellamento dei villaggi rurali e di accentramento dei contadini in nuovi siti abitativi, generando un forte malcontento popolare. La repressione severa dei disordini scoppiati in Transilvania il 17 dicembre (in particolare a Timisoara e Arad) diede lo spunto per la rivolta contro il regime. L’insurrezione ebbe il suo epicentro a Bucarest, dove gli insorti, il 25 dicembre, annunciavano alla radio che il Presidente era stato giustiziato dopo un sommario processo. Con la rivolta, che ebbe nei mezzi di comunicazione lo strumento di principale coordinamento, il potere fu assunto dal Fronte di Salvezza Nazionale (FSN) contestualmente allo scioglimento di tutti gli organi del potere a livello centrale e locale. Presidente del Consiglio del FSN fu nominato Ion Iliescu (già comunista, ma da tempo in contrasto con il regime di Ceaucescu), mentre Petre Romanov (direttore dell’Istituto Politecnico) fu designato come Primo ministro del Governo provvisorio. L’assunzione del potere da parte di un organo non previsto e al di fuori delle procedure costituzionali comportò la cessazione della Costituzione del 1952 vigente. Una certa continuità, invece, rimase riguardo alle persone dei dirigenti; non pochi di essi furono infatti chiamati a occupare posizioni strategiche negli organi del FSN (55) . I motivi cui ispirare la propria azione furono tracciati dal Consiglio del FSN nel decreto-legge n. 2 del 27 dicembre 1989: anzitutto, l’eliminazione del ruolo dirigente del Partito comunista; l’affermazione del principio della divisione dei poteri; l’introduzione di un nuovo sistema economico; la tutela delle minoranze e la garanzia per i diritti e le libertà fondamentali. Naturalmente, tutto ciò avrebbe costituito oggetto della nuova Costituzione. Oltre a queste indicazioni di principio, il decreto-legge n. 2 stabiliva un primo complesso di regole costituzionali: il Consiglio del FSN assumeva le funzioni di natura prevalentemente parlamentari, potendo adottare decreti-legge e decreti; il suo Presidente risultava avere le attribuzioni tipiche del Capo dello Stato. Lo stesso decreto stabiliva altresì la forma repubblicana della Romania. Con un decreto del 30 dicembre furono enunciate norme in materia di organizzazione e funzioni del Governo. È solo il caso di ricordare che il Primo ministro era designato dal Consiglio del FSN il quale, su proposta di quello, ne approvava anche la composizione. Ne deriva una responsabilità politica del Governo nei confronti del Consiglio. Gli effetti del riconoscimento del principio del pluralismo politico non si fecero attendere; la nascita di numerose formazioni politiche pose il problema dell’istituzione di un organo dotato di legittimazione democratica. Il decreto-legge n. 92 del 14 marzo 1990 tracciava le linee fondamentali della forma di governo della nuova democrazia romena. In conformità ai princìpi di democrazia pluralista e della separazione dei poteri, si prevedevano un Presidente, un Senato e un’Assemblea i cui membri erano eletti direttamente dal popolo. Veniva delineato un disegno delle relazioni tra gli organi di governo informato a criteri di bilanciamento ed equilibrio, con il Presidente chiamato a fare da arbitro. Il sistema appariva di chiara impronta parlamentare: era il Parlamento, infatti, ad assumere una posizione centrale, con il Governo responsabile nei suoi riguardi e con l’esercizio esclusivo della potestà legislativa. Il decreto-legge n. 92/1990 stabiliva che la nuova carta costituzionale sarebbe stata adottata entro 18 mesi dalla prima riunione dell’Assemblea costituente, composta dalle Camere del nuovo Parlamento, pena lo scioglimento dello stesso. Inoltre, entro un anno dall’entrata in vigore della nuova Costituzione, si sarebbero dovute tenere nuove elezioni politiche. Lo stesso decreto-legge fissava le regole elettorali che sarebbero rimaste in vigore fino all’approvazione della nuova legge elettorale: per l’elezione del Parlamento si stabiliva un criterio proporzionale senza soglia di sbarramento (56) ; il Presidente della Repubblica, invece, sarebbe stato eletto con un sistema maggioritario a doppio turno. Le elezioni presidenziali del 20 maggio 1990 videro l’affermazione, al primo turno, di Iliescu con l’85% dei suffragi. Altrettanto nitida fu la vittoria del Fronte di Salvezza Nazionale con il 66,31% dei voti, 263 seggi su 376 in Assemblea nazionale e 92 su 119 al Senato. Con percentuali intorno al 7% seguivano l’Unione Democratica Magiara e il Partito Nazionale Liberale. Per la verità, gli osservatori non nascosero il loro stupore per una vittoria così evidente di Iliescu e del FSN, poiché prima, ma anche dopo le elezioni, numerose manifestazioni di piazza contestarono il Fronte specie per la mancanza di una vera epurazione dei quadri comunisti. Molte di tali manifestazioni sfociarono nella repressione. Lo scalpore internazionale che suscitò la marcia dei minatori, chiamati da Iliescu, per reprimere le proteste degli studenti nella piazza dell’Università della capitale (giugno 1990), costò alla Romania un certo isolamento nel quadro internazionale, accompagnato da un alone di sospetto sulla effettiva volontà di democratizzazione del regime (57) . In tale contesto, il Parlamento avviò i lavori per la stesura della nuova Costituzione (58) ; alla formulazione delle «Tesi» seguì un ampio dibattito nel Paese e in Parlamento. Nel mese di luglio del 1991 fu steso il primo progetto di articolato, sul quale intervennero numerosi emendamenti; un intenso lavoro portò l’Assemblea costituente all’approvazione della nuova Costituzione nella seduta del 21 novembre. Ad essa fece seguito, l’8 dicembre, il referendum consultivo sulla Costituzione, che vide la prevalenza dei «sì» con il 53% dei votanti (la partecipazione alla consultazione fu del 66%). Sembra utile integrare quanto si è detto finora con alcune note relative agli sviluppi politici successivi all’avvento della nuova Costituzione. Su questo piano, due fatti meritano di essere ricordati: anzitutto, la scissione del Fronte di Salvezza Nazionale con la nascita dell’ala pro-Iliescu (marzo 1992), denominata Fronte Democratico di Salvezza Nazionale (FDSN) (59) . In secondo luogo, deve segnalarsi la persistente disaggregazione delle forze dell’opposizione che, malgrado la crisi del FSN, non riuscirono a dar vita ad una coalizione che potesse proporsi, con concrete possibilità di affermazione, per l’alternanza. Nel frattempo, con leggi n. 68 e n. 69 del 15 luglio 1992, furono approvate le nuove norme elettorali rispettivamente per il Parlamento e per il Capo dello Stato. In particolare, la legge 68/1992 mantenne fermo il principio proporzionale, ma introdusse la soglia di sbarramento del 3% dei voti validi a livello nazionale (60) . Gli esiti elettorali del 27 settembre 1992 dettero la maggioranza relativa (27,7%) al Fronte pro-Iliescu (FDSN); la Convenzione democratica (una coalizione di partiti d’opposizione) ottenne il 20% dei suffragi; e il FSN di Roman il 10,2% (61) . Le elezioni presidenziali si tennero in due turni (27 settembre e 11 ottobre), confermando Presidente della Repubblica Iliescu con il 61,43% dei voti al secondo turno. La scissione del Fronte e la caduta del consenso popolare pro-Iliescu, ancorché rieletto, determinarono un indebolimento del quadro politico: nel novembre dello stesso anno venne formato un Governo guidato da Nicolae Vacariou, sostenuto dal FDSN, dai filo-comunisti e dai nazionalisti. La disomogeneità della coalizione di Governo, e la sua limitata consistenza numerica in termini di seggi, si sono rivelati essere fattori che hanno influito significativamente sul prosieguo della legislatura determinando, da un lato, le ripetute mozioni di sfiducia al Governo; dall’altro, i vari tentativi di Iliescu di formare un Governo di unità nazionale, con un’ampia partecipazione delle forze politiche rappresentate in Parlamento (62) . Il processo costituente in Estonia: l’affermazione del diritto all’autodeterminazione Il processo costituente che ha interessato l’Estonia e ha condotto il Paese verso la nuova Costituzione del luglio 1992 è, in qualche modo, lo specchio delle vicende costituzionali che, all’inizio degli anni ’90, hanno interessato le tre Repubbliche baltiche. Tuttavia, anche ai fini di una esposizione più chiara, si è preferito puntare l’attenzione sull’esperienza di uno solo di essi, che potesse essere una significativa manifestazione delle peculiarità del processo costituente attuatosi nel triennio 1989-1992. Com’è noto, l’Estonia risentì dell’influenza dell’Unione Sovietica fin dal periodo immediatamente precedente lo scoppio della seconda guerra mondiale: è, infatti, del 6 agosto 1940 la sua annessione all’Unione Sovietica. Da questo momento, le vicende costituzionali della neo-Repubblica Socialista Sovietica seguirono quelle della madre Russia, con la conseguente omologazione della sua Costituzione a quella dell’Unione Sovietica. La caratteristica peculiare dell’instaurazione del regime sovietico nei Paesi baltici fu quella dell’imposizione, ossia di un’estensione coatta, di un ordinamento non nazionale ai citati Paesi, «in violazione del loro diritto di autodeterminazione» (63) . E sarà proprio la rivendicazione di una indipendenza politica e giuridica a caratterizzare il processo di transizione costituzionale della Repubblica Estone, così come di quelli delle altre Repubbliche del Baltico. Non diversamente da quanto rilevato negli Stati comunisti gravitanti intorno all’URSS, l’anelito al cambiamento in Estonia seguì la nomina di Gorbaciov alla carica di Primo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica: a partire da quel momento, egli impostò la politica dell’Unione sui princìpi della “Perestroijka” (intesa come ristrutturazione) e della “Glasnost” (ossia della trasparenza). La portata del cambiamento in atto non venne immediatamente recepita dalla classe politica estone: tuttavia, il dissenso verso le scelte politiche di partito e di governo della RSSE lentamente veniva a maturazione, trovando anche la strada delle manifestazioni popolari, come quella della primavera del 1987 contro la costruzione di un impianto minerario vicino a Tallin. Furono proprio queste spinte di ordine culturale ed ecologico a determinare, il 13 aprile 1988, su iniziativa dell’economista Edgar Savisaar, la nascita di un Fronte Popolare il cui intento era quello di dare vita ad un movimento democratico che fosse di supporto al cambiamento. Anche le autorità cominciarono ad essere sensibili all’atmosfera riformista che aleggiava nel Paese: di ciò fu segnale, in particolare, la sostituzione del segretario del Partito Comunista Estone Karl Vaino (legato ad ambienti breznieviani) con il più moderato Vaino Valjas, avvenuta il 16 giugno 1988 (64) . Cinque mesi dopo questa data, il 16 novembre 1988, il Soviet Supremo della RSSE emise una dichiarazione di sovranità in base alla quale la legislazione locale prevaleva su quella dell’Unione. Rivendicare questa prerogativa significava attribuire alla sovranità del Paese la titolarità esclusiva del potere sul territorio nazionale: ciò comportava che le modificazioni e i cambiamenti alla Costituzione dell’Unione Sovietica non avrebbero avuto automatica applicazione anche in Estonia, ma sarebbero divenuti operativi solo previa specifica approvazione del Soviet Supremo Estone, ossia dell’organo maggiormente rappresentativo del potere del popolo. Il Soviet Supremo della RSSE, inoltre, si opponeva all’introduzione di emendamenti alla Costituzione dell’URSS – al momento in corso di esame – che limitassero il diritto costituzionale delle Repubbliche all’autodeterminazione. Anche il 1989 continuò nella scia tracciata: una nuova legge disponeva l’uso dell’estone come unica lingua statale, con ciò chiedendo ai propri funzionari di adeguarsi nei rapporti di servizio. Nel dicembre dello stesso anno, inoltre, il Congresso dichiarò la nullità del protocollo segreto del “Patto Molotov-Ribbentrop” (65) con cui, formalmente, veniva ulteriormente sottolineata la convinzione ormai raggiunta circa il futuro indipendente dell’Estonia. Il 23 febbraio 1990 il Soviet Supremo Estone abolì le norme che stabilivano il ruolo guida del Partito Comunista, determinando l’inizio di una fase multipartitica della politica del Paese. Parallelamente a ciò, seguì l’elezione di un’Assemblea monocamerale composta da 464 membri prescelti tra i vecchi abitanti dell’Estonia dell’anteguerra e dei loro discendenti ancora residenti nel Paese (66) . Tale Assemblea denominata Congresso Estone ed autoproclamatasi rappresentante legittimo dei cittadini estoni stessi, nella sua prima riunione del 12 marzo 1990 dichiarò di essere l’unico organo in grado di negoziare l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Non doveva essere, quindi, l’espressione del potere sovietico – ossia il Soviet Supremo Estone – a riformare il Paese entro un alveo istituzionale; occorreva che a ciò provvedesse un organo esterno al potere, espressione – non solo ideologica ma anche effettiva – delle vere e genuine radici del popolo estone. L’Unione Sovietica, preoccupata dall’accelerazione degli avvenimenti, cercò di rallentare il processo verso l’indipendenza delle Repubbliche Sovietiche annunciando la prossima discussione di una legge di attuazione dell’art. 72 della Costituzione dell’Unione, che stabiliva, per ogni Repubblica, un diritto di secessione dall’Unione Sovietica (67) . Proprio in virtù di ciò, la dichiarazione di indipendenza della Lituania dell’11 febbraio 1990 – la prima delle tre Repubbliche Baltiche – venne dichiarata incostituzionale dal Congresso dei deputati del popolo dell’URSS, in quanto emessa in assenza di una legge sulle procedura, e sulle conseguenze dell’uscita dall’Unione. Le elezioni del 14 marzo 1990, per la prima volta informate ad un principio di multipartitismo, consentirono l’affermazione dei rappresentanti del Fronte Popolare. Il successivo 30 marzo, il Soviet Supremo dell’Estonia, derivazione delle citate consultazioni, adottò la «Risoluzione sullo status di Stato dell’Estonia», che prevedeva espressamente l’indipendenza dello Stato Estone dall’Unione Sovietica da attuarsi attraverso un periodo di transizione. Tale processo di indipendenza, che era parallelamente in corso di attuazione anche nelle altre due Repubbliche baltiche, non poté non suscitare le reazioni delle autorità sovietiche, le quali intimarono ai rappresentanti dei rispettivi Stati di sospendere le dichiarazioni di indipendenza uniformandosi alla legge sulla secessione approvata il 3 aprile 1990. Tuttavia, insensibile ai richiami dell’autorità, l’8 maggio 1990 il Soviet Supremo Estone si rinominò Consiglio Supremo, restaurando la bandiera nazionale della Repubblica Estone. Una prima approvazione popolare del processo di indipendenza si ebbe il 3 marzo 1991, data in cui si svolse il referendum consultivo sull’indipendenza della Repubblica: la consultazione trovò l’approvazione della proposta di indipendenza da parte della maggioranza della popolazione che, in tal maniera, suggellava con l’assenso popolare le decisioni del Consiglio Supremo Estone. Forte di questa legittimazione popolare, e rassicurato dai rivolgimenti politici coinvolgenti l’interno stesso dell’Unione Sovietica, il 20 agosto 1991 il Consiglio Supremo adottò la «Risoluzione sull’indipendenza nazionale», una sorta di riaffermazione dell’indipendenza manifestata proprio durante il colpo di Stato che stava scuotendo i palazzi moscoviti. Con ciò veniva chiaramente in evidenza la volontà di tracciare una linea di separazione con l’URSS, nell’ambito di una ricerca di legittimazione perseguita anche a livello internazionale, attraverso il riallacciarsi delle relazioni con i Paesi stranieri. Con una serie di risoluzioni del Consiglio Supremo, inoltre, nello stesso giorno vennero poggiate le basi del nuovo assetto costituente: la risoluzione n. 2 del 20 agosto 1991 stabiliva la convocazione di un’Assemblea costituente – la cui formazione sarebbe stata demandata al Consiglio Supremo – la quale avrebbe dovuto predisporre un progetto di Costituzione da sottoporre a referendum popolare successivo (68) . Il processo costituente iniziò a partire da questo momento, anche se è stato fortemente influenzato dalla lotta per l’indipendenza, fondamento di un nuovo assetto costituzionale. Il numero dei componenti dell’Assemblea costituente fu fissato in sessanta, equamente suddivisi tra i membri del Congresso e del Consiglio Supremo. Ciò consentì la partecipazione ai lavori dell’Assemblea costituente dei rappresentanti di tutte le forze politiche del Paese, sia di quelle nazionaliste – come il Fronte Popolare – sia di quelle radicali – come il Partito per l’Indipendenza Estone (69) –. L’Assemblea così eletta si diede un termine di due mesi entro il quale presentare al Consiglio Supremo un testo finale che, peraltro, godeva di una speciale riserva relativa al referendum finale. La prima riunione dell’Assemblea costituente si tenne il 13 settembre 1991: essa organizzò i lavori attraverso la nomina di 7 sottocommissioni, ciascuna incaricata di predisporre una specifica sezione della nuova Costituzione. Già alla fine di settembre all’Assemblea furono presentati quattro progetti, che vennero votati l’11 ottobre. Il progetto che venne approvato (70) fu quello del nazionalista Juri Adams che si presentava come una rilettura della Costituzione del 1920. Per l’elaborazione del testo finale sulla base del progetto di Adams furono interpellati tecnici nazionali, il che richiese un posticipo di 2 mesi rispetto al termine previsto per la presentazione del testo finale al Consiglio Supremo. Tale presentazione avvenne il 28 febbraio 1992, dopo che l’Assemblea costituente, il 20 febbraio, aveva approvato il progetto costituzionale. In seno al Consiglio Supremo la discussione intorno al testo presentato si svolse tra il 16 e il 19 marzo successivi: in tale fase il Consiglio rinviò il progetto all’Assemblea ritenendo che il testo non avrebbe ricevuto il necessario consenso da parte della popolazione. Il Congresso Estone, invece, ritenne conforme agli intendimenti prefissati l’elaborato presentato dall’Assemblea costituente, intimando al Consiglio l’indizione del previsto referendum entro il successivo 16 aprile, con la minaccia che, in caso di inosservanza, esso sarebbe stato indetto direttamente dal Congresso. Ciò determinò un’ulteriore fase di revisione del progetto originario, svoltasi tra marzo e aprile, durante la quale vennero eliminate le ambiguità del testo che non avevano consentito la sua precedente approvazione, soprattutto con riferimento all’estensione di poteri del Presidente e alle modalità di nomina del Primo Ministro. Il 10 aprile 1992 l’Assemblea costituente si riunì per l’ultima volta approvando le singole modifiche apportate al testo. Questa volta il Consiglio Supremo stabilì lo svolgimento del referendum per l’approvazione del progetto di Costituzione e della legge di applicazione della Costituzione (71) . Per l’approvazione della Costituzione era richiesta la partecipazione al voto del 50% degli aventi diritto: in realtà, essa risultò essere pari al 66,7%. Il 28 giugno 1992, il 91,2% dei votanti fu favorevole alla nuova Costituzione, che venne conseguentemente approvata ed entrò in vigore il successivo 4 luglio. Brevi cenni conclusivi A conclusione di questa breve e sintetica ricognizione dei “fatti” relativi a tre recenti processi costituenti, non resta che ribadire quanto sopra già affermato, e cioè che la natura stessa dei processi tende verso, o comunque predilige, la “via di fatto”. Vale a dire quella via che, pur potendosi strutturare secondo procedure formalizzate (si pensi ai processi negoziali), è tuttavia destinata a sfuggire a forme di inquadramento schematico. Le procedure formalizzate di cui sopra, infatti, prendono forma all’interno dello stesso processo costituente sulla base dei “fatti” che le contraddistinguono. Tornando, tuttavia, alle esperienze esaminate, sembra che si possano ravvisare alcuni elementi costanti nelle esperienze analizzate, dovute al fatto che, probabilmente, il cammino da seguire verso una nuova Costituzione, che rappresenti anche una rottura con il precedente assetto, ha delle tappe obbligatorie le quali, anche inconsapevolmente, è necessario compiere. E ciò, naturalmente, in maniera indipendente rispetto alla forma di Stato e a quella di governo che la Costituzione prodotta dovrà, nel dettaglio, regolamentare, ovvero dei diritti che in essa troveranno difesa e tutela. In particolare, anche nei recenti processi costituenti, appare individuabile una sorta di circolarità: l’impulso costituente nasce da una indistinta volontà popolare e si esaurisce tornando nuovamente ad essa, al momento dell’adozione della nuova Costituzione. Il popolo, quindi, è l’artefice primo del rinnovamento in quanto iniziatore del processo di riforma e definitivo depositario dello spirito democratico che ha consentito l’adozione della nuova Costituzione. Infatti, dalla preliminare manifestazione della volontà popolare al cambiamento – in forma empirica attraverso scioperi, manifestazioni popolari, rivolte – si giunge alla sua personalizzazione, ossia al suo identificarsi in uno specifico gruppo di persone che si organizzano appositamente per esprimere le esigenze di riforma. Tali forze, successivamente, ricevono o conquistano una sorta di legittimazione a continuare nel processo al pari delle forze di regime alle quali si oppongono. Un primo ritorno alla originaria volontà popolare viene, in seguito, ricercato attraverso lo svolgimento di consultazioni popolari che pervadono ogni successiva fase del processo. Il volgere all’epilogo del processo costituente lascia intravedere ulteriori due tappe: quella delle trattative istituzionalizzate in seno ad organi di natura assembleare composti da tutte le forze in campo e destinati a produrre il progetto della nuova Costituzione; infine, quella del definitivo ritorno alla volontà popolare attraverso meccanismi di approvazione-ratifica del testo costituzionale elaborato.
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(1) E.S. Sieyès, Qu’est-ce que le tiers-état, 1789, trad. it., Che cos’è il terzo Stato?, Editori riuniti, Roma, 1992, ora anche in Opere e testimonianze politiche, Giuffré, Milano, 1993.
(2) Cfr. le osservazioni di L. Jaume, Il potere costituente in Francia dal 1789 a De Gaulle, in P. Pombeni (a cura), Potere costituente e riforme costituzionali, il Mulino, Bologna, 1992, p. 35. (3) Cfr. P.P. Portinaro, Il grande legislatore e il custode della Costituzione, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della Costituzione, Einaudi, Torino, 1996, p. 19 ss. (4) La distinzione tra pouvoir costituant e pouvoirs constitués è ripresa da Carl Schmitt, il quale precisa che durante gli avvenimenti della Rivoluzione francese il «popolo prese nelle sue mani il suo destino ed assunse una libera decisione sulla specie e la forma della sua esistenza politica». In tali circostanze l’Autore ravvisa gli elementi veramente innovativi di quegli eventi rivoluzionari in cui gli uomini stessi stabilivano – in forza di una propria decisione – la forma di uno Stato che già esisteva. Secondo Schmitt, una presa di coscienza di carattere politico circa la titolarità del potere costituente in capo al popolo poteva essere già ravvisata, in embrione, durante la Rivoluzione americana del 1776 ove però, complice la costituzione di un nuovo Stato, si originò anche una nuova formazione politica. Così C. Schmitt, Verfassungslehre, Dunker & Humblot, Berlin, 1928, trad. it., Dottrina della Costituzione, Giuffré, Milano, 1984, p. 113. (5) M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico. Il caso italiano, in P. Pombeni (a cura di), Potere costituente e riforme costituzionali, cit., p. 59. (6) E.W. Bockenförde, Il potere costituente del popolo, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della Costituzione, cit., p. 236. (7) Cfr. L. Jaume, Il potere costituente in Francia, cit., p. 35. (8) Cfr. M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, cit., p. 60. (9) Tali affermazioni sono tratte da L. Jaume, Il potere costituente in Francia, cit., p. 43. (10) E.W. Bockenförde, Il potere costituente del popolo, cit., p. 236. (11) M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, cit., p. 63. (12) P.P. Portinaro, Il grande legislatore, cit., p. 26. (13) S. Romano, Costituente (potere), voce del Dig. It., VIII, Utet, Torino, 1899-1903, p. 350, anche in P. Pombeni (a cura di), Potere costituente e riforme costituzionali, cit., p. 166 ss., in particolare p. 171. (14) S. Romano, Costituente (potere), cit., p. 167. (15) Per una ricostruzione dei principali orientamenti, v. P.G. Grasso, Potere costituente, voce dell’Enc. dir., XXXIV, Giuffré, Milano, 1985, p. 653 ss. (16) C. Mortati, La Costituente. La teoria. La storia. Il problema italiano (1945), in Raccolta di scritti, I, Giuffré, Milano, 1972, p. 10 ss. (17) M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, cit., p. 75. (18) H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung indie rechtswissenchaftliche Problematik, trad. it Lineamenti di dottrina pura del diritto, Utet, Torino, 1984, p. 225. In tale scritto l’Autore precisa che «poiché il fondamento della validità di una norma può essere soltanto un’altra norma, questo presupposto deve essere una norma: non una norma posta dall’autorità giuridica bensì una norma presupposta, cioè una norma che si presuppone quando si interpreta il senso oggettivo dell’atto costituente ed il senso soggettivo degli atti costituenti del diritto (posti in essere secondo la Costituzione) anche come loro senso oggettivo». Cfr. anche G. Longo, Il concetto di mutamento costituzionale in Hans Kelsen e Carl Schmitt, in Riv. int. fil. dir., 1996, p. 258. (19) H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 236. (20) L’Autore precisa che «una Costituzione non si basa su una norma, la cui giuridicità sarebbe il motivo della sua validità. Essa si basa su una decisione politica, derivante dal suo essere politico, sulla specie e la forma del suo proprio essere. La parola “volontà” indica – in contrapposizione ad ogni dipendenza da una giustezza normativa o astratta – l’esistenziale oggettivo di questo fondamento di validità». Così in Dottrina della Costituzione, cit., p. 110. (21) Nel caso delle costituzioni octroyées, concesse dal sovrano, il procedimento costituente non ha visto la partecipazione del popolo. Si tratta di fenomeni che non sono riconducibili, evidentemente, al costituzionalismo. Cfr. G. Morbidelli, Lezioni di diritto pubblico comparato. Costituzioni e costituzionalismo, Monduzzi, Bologna, 2000, p. 91. (22) Cfr. M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, in Quad. cost., 1995, p. 1 ss.. (23) M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, cit., p. 26. (24) M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, loc. ult. cit.. (25) Su questa fase storica si veda S.P. Huntington, The Third Wave: democratization in the late twentieth century, trad. it., La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, il Mulino, Bologna, 1995. (26) G. de Vergottini, Le transizioni costituzionali, cit., p. 162. (27) P.G. Grasso, Potere costituente, cit., p. 664. (28) M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, cit., p. 74. (29) M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, cit., p. 75. (30) J. Elster, nello scritto dal titolo Lo studio dei processi costituenti: uno schema generale, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della Costituzione, cit., p. 222 ss., analizzando la tematica di cui trattasi, si pone le seguenti domande: «come vengono poste in essere le assemblee costituenti? In che modo esse regolano le loro procedure interne? In che modo gli interessi individuali, di gruppo ed istituzionali incidono sul testo finale? In che misura le forze extracostituzionali incidono sul testo costituzionale? Come vengono ratificate le costituzioni?» Tutti gli interrogativi esposti, secondo l’Autore, sono accomunati da un unico fattore: la legittimità. (31) J. Elster, Lo studio dei processi costituenti, cit., p. 216. (32) Cfr. G. de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Cedam, Padova, p. 144 ss. (33) Lo Statuto Albertino è stato promulgato il 4 marzo 1848; esso è stato concesso dal sovrano senza alcuna partecipazione popolare. Per tal motivo si parla di Costituzione octroyée, ordinata «di certa scienza e regia autorità» quale «legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della monarchia». In tale citazione viene in evidenza la caratteristica flessibilità attribuita allo Statuto Albertino, in grado di essere modificabile in relazione alle necessità di adeguamento presentatesi di volta in volta, così come effettivamente è stato nel periodo di vigenza tra il 1848 e il 1922. (34) G. de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, cit., p. 178 ss. (35) C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, cit., p. 121. (36) L’Autore fa riferimento specifico alla Costituzione di Weimar del 1919 ove, all’art. 181, veniva previsto che «Il popolo tedesco, per mezzo della sua Assemblea Nazionale, ha deliberato e sanzionato…» la Costituzione. (37) In tale contesto, l’Autore cita l’esempio della Costituzione americana del 1787, frutto di un procedimento che prese le mosse dalla dichiarazione di indipendenza dall’Inghilterra della Virginia, nel 1776; da tale punto di partenza si giunse, nel 1791, alla dichiarazione dei diritti inserita, in forma di emendamento. (38) S. Romano, Principi di diritto costituzionale generale, p. 270. (39) Cfr. P. Häberle, VerfassunggebendeGewalt des Volkes im Verfassungsstaat – eine vergleichende Textstufenanalyse, in Archiv des öff. Rechts, 1987. (40) La letteratura sulla nuova Costituzione della Repubblica del Sudafrica è piuttosta ampia. Nell’ambito della produzione scientifica italiana, si rinvia a R. Orrù, La Costituzione di tutti. Il Sudafrica dalla segregazione razziale alla democrazia della «rainbow nation», Giappichelli, Torino, 1998; L. Scaffardi, La “rivoluzionaria” tutela dei diritti fondamentali nella nuova Costituzione del Sud Africa, in Giur. cost., 1996, p. 660 ss.; sia poi consentito rinviare ad A. Rinella, Il Constitution of the Republic of South Africa Act 1993, cit., p. 147 ss.; L. Pegoraro, A. Rinella, Repubblica del Sudafrica: il Constitution Act del 1993 tra federalismo e regionalismo, in Quad. cost., 1995, p. 277 ss.; A. Rinella., Repubblica del Sud Africa: unità e difformità del modello di Stato, in M. Carducci (a cura di), Il costituzionalismo “parallelo” delle nuove democrazie, Giuffré, Milano, 1999, p. 61; Id., South Africa’s Government in Comparison with the Constitutional Models of Democratic Systems. Some Observations, in V. Piergigli, I. Taddia (a cura di), International Conference on African Constitutions, Giappichelli, Torino, 2000, p. 222. (41) Il Parlamento inglese, il 20 settembre 1909, approvava il South Africa Act, con il quale veniva istituita l’Unione Sudafricana delle Colonie – da allora Province – del Capo, del Transvaal, dell’Orange, del Natal. (42) De Klerk si insediò sostituendo P.W. Botha il quale, ormai pressato dagli eventi, aveva già provveduto ad attuare alcune riforme, acconsentendo alla limitazione di taluni elementi di discriminazione tra bianchi e neri, quali la parziale attenuazione delle sanzioni per i contatti sessuali tra bianchi e neri o la semplificazione delle norme relative al rilascio di salvacondotti per lavoro ai neri. (43) L’ANC faceva capo a Nelson Mandela; l’IFP a M.G. Buthelezy. (44) A tal proposito si ricordano alcuni dei provvedimenti più rilevanti: abolizione dell’apartheid negli ospedali (16 maggio 1990), abolizione dell’apartheid nei luoghi pubblici (il 15 ottobre 1990 con il Separated Amenities Act); l’abrogazione dei due Land Acts del 1913 e del 1936, con i quali veniva riservata ai bianchi la proprietà dell’80% del territorio sudafricano; l’abrogazione del Population Registration Act del 1950, che aveva introdotto la registrazione separata per razza negli atti civili; l’abrogazione del Group Areas Act, il quale aveva segnato siti di residenza coatta per i vari gruppi etnici. (45) In questo senso sembra rilevante la stessa decisione di ammettere anche i “non bianchi” nell’ambito del National Party avvenuta nel 1990 su iniziativa di De Klerk. (46) Come già anticipato, lo stesso predecessore di De Klerk alla presidenza ne aveva percepita l’ormai irrinunciabile necessità. (47) I principi direttivi del Memorandum del Codesa I prevedevano: una cittadinanza comune del Sudafrica per tutti i sudafricani; l’istituzione di uno Stato costituzionale, sovrano, democratico; l’uguaglianza fra gli uomini e le donne e fra le genti di ogni razza; una «Dichiarazione dei diritti fondamentali» tutelabili in sede giudiziaria; un Parlamento formato da un’Assemblea Nazionale e da un Senato; un Governo di unità nazionale; nove Province, ognuna dotata di propri poteri legislativi ed esecutivi; un’Assemblea costituzionale, per formulare ed adottare una Costituzione definitiva; un Potere giudiziario indipendente ed imparziale, che includerà una Corte costituzionale. Cfr., per alcune considerazioni, P. Biscaretti di Ruffìa, M. Ganino, Costituzioni straniere contemporanee, vol. II, Giuffré, Milano, 1996, p. 24. (48) La Costituzione del 1961 costituì rinnovato rigurgito della politica razziale sudafricana che, onde evitare possibili integrazioni tra minoranze bianche e maggioranze nere, attuò fermamente il principio dell’apartheid, ossia dello sviluppo separato delle varie etnie esistenti. Da un punto di vista pratico la separazione delle quattro popolazioni presenti sul territorio (coloureds, asiatici, bianchi e neri) venne attuato attraverso ripartizioni delle terre in territori nazionali neri, i c.d. Homelands, ciascuno assegnato ad un particolare gruppo tribale. Gli Homelands – dieci in tutto – erano Lebowa, Kwandebele, Ka Nagwane, Kwa Zulu, Gazankulu, Qwaqwa, Venda, Transkei, Ciskei, Bophuthatswana. Gli ultimi quattro – detti Bantustan – furono dichiarati indipendenti unilateralmente dal solo Sudafrica. (49) Gli elementi apportati al testo della Costituzione prima della sua entrata in vigore il 27 aprile 1994 sono il frutto delle ininterrotte trattative partitiche, svoltesi per la soluzione di problematiche nel frattempo emerse. In particolare, il Constitution Act n. 2 fu approvato dal Parlamento tricamerale il 2 marzo 1994. Il Constitution Act n. 3, invece, risale al 26 aprile 1994. E attraverso di esso, vennero inserite nel testo della Costituzione modifiche riguardanti la posizione privilegiata da attribuire al monarca degli Zulu, nonché la disposizione XIII dei princìpi fondamentali, sempre connessi allo stesso privilegio attribuito a tale autorità. (50) L’allegato 4 prevede una lista di 34 princìpi costituzionali tipici degli Stati di democrazia classica. In effetti, si prevede la tutela dei diritti dell’uomo (princìpi n. I e II), delle libertà (princìpi VII e VIII), la ripartizione dei poteri e delle funzioni statali (princìpi XIV e seguenti) ecc.. Il principio XXXIV (sulla tutela e e il riconoscimento dell’autodeterminazione delle diverse etnie) venne introdotto con il Constitution Amendment Act del 3 marzo 1994. (51) Nella sua composizione l’Assemblea costituzionale ha rispecchiato gli esiti delle elezioni dell’aprile del 1994; la partecipazione proporzionale dei partiti, in effetti ha visto in primo piano l’African National Congress (con 312 partecipanti), seguito dal National Party (99 partecipanti) e dall’Inkatha Freedom Party (con 48 membri). I restanti 31 posti disponibili sono stati ripartiti tra il Freedom Front di Constand Viljoen (14), il Democratic Party di Tony Leon (10), il Pan Africanist Congress di Clarence Makwethu (5) e l’African Christian Democratic Party di Kenneth Meshoe (2). (52) Ogni Commissione tematica si è interessata a specifici aspetti corrispondenti ad una ripartizione dei 34 principi contenuti nell’allegato 4. In particolare: la prima Commissione si occupava del carattere dello Stato democratico (preambolo della Costituzione e princìpi I, IV, VI, VIII, IX); la seconda della struttura di governo (Princìpi VI, X, XIV, XV, XVI, XII); la terza dei rapporti tra i vari livelli di governo (Princìpi XVII, XXIV); la quarta dei diritti umani (Princìpi II, III, XI, XII, XVIII, XXXIV); la quinta Commissione del sistema giudiziario e legale (Princìpi VII, XIII); la sesta Commissione delle strutture specializzate di governo (Princìpi XXIX, XXX, XXXI). (53) Anche nell’ambito dei “Core Groups” veniva rispettata una certa proporzionalità nella composizione partitica. (54) Le sei Commissioni tematiche furono infatti completamente predisposte solo il 19 settembre 1994. (55) Tale circostanza, che pure in seguito costituì motivo di malcontento popolare, unitamente all’appoggio fornito agli insorti dall’esercito, ha fatto ragionevolmente ritenere che il colpo di Stato fosse stato ampiamente programmato. (56) Cfr. S. Bartole, Riforme costituzionali nell’Europa centro-orientale, cit., p. 74 s.; T. Gallagher, Romania: the disputed election of 1990, in Parl. Affairs, 1991, p. 79 ss. (57) I minatori, come è noto, tornarono nel settembre del 1991 per protestare contro il Governo, determinando le dimissioni di Roman (ottobre 1991). Peraltro, già erano sorti contrasti tra il Presidente Iliescu e il Primo ministro a causa degli orientamenti di quest’ultimo a favore di una vigorosa azione di riforma in campo economico, in senso liberista. Tale orientamento aveva incontrato la ferma opposizione della sinistra del FSN e aveva gettato le basi per una scissione del Fronte. (58) Si veda la Premessa a Romania, in P. Biscaretti di Ruffìa, M. Ganino, Costituzioni straniere contemporanee, II, Le Costituzioni di sette Stati di recente ristrutturazione, cit., p. 344 s.; V. Gionea, La nuova Costituzione rumena garanzia dello Stato di diritto e di democrazia, in Quad. cost., 1992, p. 477 ss.; V.D. Zlatescu, Le droit de la transition en Roumanie, in Rev. int. dr. comp., 1995, p. 975 ss.; per alcuni rilievi sul contesto economico, si veda E. Lhomel, Roumanie: le poids des résistancee, in Transitions économiques à l’Est (1989-1995). Notes et Études documentaires, La Documentation française, Paris, 1995, p. 197 ss.. (59) Cfr. Report on Eastern Europe, 24 gennaio 1992, p. 15 ss.; 21 febbraio 1992, p. 31 ss.; 3 aprile 1992, p. 24 ss.; 17 aprile 1992, p. 8 ss.. (60) Sulla legislazione elettorale cfr. V. Gionea, La législation électorale en Roumanie aprés la révolution de 1989, in F. Lanchester (a cura di), La legislazione elettorale degli Stati dell’Europa Centro-orientale, cit., p. 23 ss.. (61) Si vedano le osservazioni di S. Bartole, Riforme costituzionali nell’Europa centro-orientale, cit., p. 82 s.; nonché, Report on Eastern Europe, 30 ottobre 1992, p. 1 ss.. (62) Cfr. I. Ceterchi, Les problèmes institutionnels de la transition en Roumanie, in Rev. ét. comp. Est-Ouest, n. 4, 1992, p. 497 ss.; M. Almond, Romania since the Revolution, in Gov. and Opp., 1995, p. 484 ss.. (63) M. Suksi, Ondate baltiche? L’evoluzione costituzionale di Estonia, Lettonia e Lituania, in Quad. cost., 1992, p. 49 ss.. (64) Segnale di cambiamento a livello istituzionale fu anche il fatto che le autorità non punivano l’esposizione sempre più frequente del tricolore estone, esposizione specificatamente sanzionabile per legge. (65) Il protocollo segreto c.d. “Patto Molotov-Ribbentrop”, del 23 agosto 1939, interessò la Germania e l’Unione Sovietica che poterono dividersi l’Europa Orientale secondo le rispettive aree di influenza. A seguito degli accordi l’Unione Sovietica installò proprie basi militari nelle tre Repubbliche Baltiche occupando tre Stati ed instaurando regimi socialisti. (66) In Estonia operava sin dal 1988 la «Società dell’eredità estone», la quale sulla spinta di motivazioni culturali e di recupero delle origini, sin dal suo primo congresso – tenutosi a Tartu – pubblicamente rivendicò per la prima volta il ritorno ad un’Estonia indipendente. La stessa società per l’eredità estone – ribattezzata «Comitato dei Cittadini Estoni» – eseguì il censimento dei cittadini estoni che, successivamente, diedero vita al Congresso Estone. (67) La legge sulla secessione fu adottata il 3 aprile 1990. Tuttavia, come nota M. Suksi, Ondate baltiche?, p. 511, la procedura ivi prevista era così complicata che nessuna Repubblica, probabilmente, sarebbe mai riuscita ad ottenere la separazione. (68) L’importante risoluzione del 2 agosto 1991 venne formalmente posta in essere dal Consiglio supremo definito come «il più alto organo legislativo del potere statale»; tuttavia essa fu il frutto di un compromesso tra tale organo e il Congresso Estone, definito come «organo rappresentativo dei cittadini estoni», maturato nell’ambito del dualismo che faceva coesistere le due Assemblee di carattere parlamentare, ognuna delle quali rivendicava la propria legittimazione nella proposizione del processo di indipendenza. (69) In seno al Consiglio supremo e al Congresso vi era un’alternanza di forze dominanti. Nel primo era maggioritario il Fronte Popolare – di impostazione nazionalista – che sosteneva la predisposizione di una nuova Costituzione. Nel Congresso, invece, il gruppo principale era costituito dal Partito dell’Indipendenza Estone che propugnava il recupero delle strutture antecedenti all’occupazione sovietica, ivi compreso il recupero della Costituzione del 1939, almeno temporaneamente. La necessità di giungere a decisioni compromissorie anche in merito alla composizione dell’Assemblea costituente fu la conseguenza di questa frammentazione interna alle due Assemblee parlamentari estoni. La composizione finale dell’Assemblea costituente rispecchiò le proporzioni dei gruppi politici dei due organi: 20 erano del fronte popolare, 20 del partito dell’indipendenza, 13 erano comunisti riformisti, 7 russi. (70) Il testo venne approvato dopo la notazione dei singoli progetti, con un sistema, per così dire, ad eliminazione diretta, in base al quale veniva ripetuta la votazione dei progetti in successione, previa eliminazione di quello che aveva ottenuto meno voti. (71) Sulla base di questa norma i candidati alle più alte cariche del Paese dovevano prestare giuramento di non aver mai prestato servizio come spie o agenti dei sistemi di sicurezza per conto dei Paesi che avevano occupato l’Estonia, la Germania e l’Unione Sovietica. |