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GNOSIS 4/2009
La lotta ai capitali sporchi di mafia e terrorismo

Riciclaggio e autoriciclaggio
strumenti e metodi di contrasto


Roberto PENNISI


Foto da www.il sussidiario.net
 
Basterebbe eliminare sette semplici parole, “fuori dei casi di concorso nel reato”, dagli articoli 648 bis e 648 ter del Codice penale, per offrire a magistrati e investigatori un altro formidabile strumento di lotta contro la criminalità organizzata. Così potrebbe entrare nel nostro sistema penale il delitto di “autoriciclaggio”, come reato autonomo. Ma è anche giunto il momento che nel nostro ordinamento trovi posto il “riciclaggio” tout court, reato che in Italia “non esiste”. Come e perché lo spiega il dottor Roberto Pennisi, della Direzione Nazionale Antimafia. Nelle riflessioni che seguono, il magistrato delinea i problemi giuridici e di metodo nell’attività di contrasto delle finanze criminali e suggerisce alcune soluzioni possibili.



Da tempo, e cioè da quando ci si è accorti della nuova dimensione della criminalità organizzata di tipo mafioso, trasformatasi da struttura rurale e puramente parassitaria in “mafia imprenditrice”, il tema del riciclaggio dei proventi delle attività delittuose oggetto del programma criminoso, contrassegnati dalla imponente impennata dovuta all’ingresso delle mafie nel traffico dei narcotici, ha formato oggetto dell’attenzione dell’apparato repressivo dello Stato (autorità giudiziaria e polizia giudiziaria).
È subito, infatti, apparso evidente come i sodalizi mafiosi avessero l’impellente necessità di trasformare il loro plafond finanziario, onde poterlo immettere nel circuito legale, soprattutto nel settore imprenditoriale, dopo averlo sottoposto a quel nettoyage in cui si sostanzia quello che viene definito riciclaggio, e che nel nostro sistema penale è sussunto nelle fattispecie di cui agli artt. 648 bis e 648 ter C.p. che, per come facilmente si comprende dai numeri, affondano le loro radici nel delitto di ricettazione di cui al precedente art. 648 C.p., divenendone un ulteriore e più sofisticato sviluppo, pur conservandone le caratteristiche giuridico-strutturali che, a ben vedere (e lo si vedrà meglio di qui a poco) ne costituiscono il limite.
Può già sin d’ora affermarsi, infatti, che complesse e, si ripete, sofisticate operazioni criminali che si articolano in tre fasi imprescindibili perché il blanchement possa ritenersi completato (e cioè quelle del placement , del layering e della integration ), e nel cui ambito l’interagire degli appartenenti alle associazioni mafiose con soggetti terzi rientranti nella categoria dei white collars è pressocchè continuo, trovano angusto lo spazio offerto da disposizioni di legge penale che rispondono ai criteri di fondo dell’art. 648 C.p..
Ed, invero, nel corso dello sviluppo delle attività di indagine, spesso ci si rende conto di come le condotte dei partecipi delle organizzazioni criminali siano funzionali all’attività di riciclaggio mentre, nel contempo e corrispondentemente, quelle dei soggetti estranei alle associazioni per delinquere, che svolgono specificamente tale attività, siano funzionalmente votate al perseguimento delle finalità delle associazioni stesse; sicché, in tali casi, gli associati assumono le vesti di riciclatori, ed i riciclatori quelle di associati.
Realtà, questa, che entra in conflitto con una fattispecie penale che si nutre della invalicabile distinzione, senza possibilità di confusione dei ruoli, tra chi commette il reato presupposto, e chi può essere chiamato a rispondere dei delitti di cui agli artt. 648-648 bis-648 ter C.p..
E l’ingresso nel mondo del diritto penale, grazie all’apporto giurisprudenziale, della “nuova” figura giuridica del concorso esterno in associazione mafiosa (artt. 110-416 bis C.p.) serve ancor di più a “complicare” le cose, consentendo la possibilità che persone estranee all’associazione, ma alla stessa imprescindibilmente funzionali, possano rispondere del delitto associativo che costituisce, nel campo di cui qui ci si occupa, uno dei reati presupposto del delitto di riciclaggio.
In linea di principio, pertanto, può dirsi che l’affermazione secondo la quale “la mafia (rectius , le associazioni per delinquere di tipo mafioso) ricicla” sia fondamentalmente una contraddizione in termini.
Invero, per come si accennava, i soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose che pongono in essere le condotte criminali da cui proviene il denaro sporco (traffico di narcotici, estorsioni, usura, ecc., ovvero utilizzazione del metodo mafioso per “…acquistare in modo diretto o indiretto la gestione od il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri…” ), non possono commettere i delitti di cui agli artt. 648 bis e 648 ter C.p..
Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte non ha mancato di osservare come “In tema di reati contro il patrimonio, il delitto presupposto del reato di riciclaggio può essere costituito non solo dai reati-fine attuati in esecuzione del programma criminoso in vista del quale l’associazione per delinquere di stampo mafioso si è formata, ma anche dallo stesso reato associativo, in quanto il riciclaggio può avere ad oggetto anche beni e denaro non provenienti dai reati fine ma dalla condotta costitutiva dell’associazione mafiosa. ” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1439 del 27/11/2008 Cc., dep. 16/01/2009).
L’affermazione corretta, invece, è quella secondo cui la mafia “fa riciclare”.
L’ipotesi di scuola è, di conseguenza, quella secondo cui accanto (ma separatamente) ai sodalizi mafiosi (ma lo stesso vale per quelli dediti al narcotraffico, che possono anche coincidere coi primi, ma non necessariamente) si pongono soggetti, operanti singolarmente, od in concorso tra loro, o addirittura in forma associata, il cui compito, unico e specifico, è quello di provvedere allo svolgimento delle fasi in cui si articola il riciclaggio.
Solo così potrà crearsi la situazione in forza della quale da un lato v’è chi realizza il provento del delitto, ponendo in essere le condotte di cui ai vari articoli 416 bis C.p. (e reati oggetto del programma criminoso), 73 e 74 D.P.R. 309/90, contrabbando associato, ecc., e dall’altro chi, senza aver concorso nei predetti reati, il medesimo provento acquista, riceve od occulta (art. 648 C.p.), ovvero lo sostituisce o trasferisce o compie operazioni tali da ostacolarne l’individuazione della provenienza delittuosa (art. 648 bis C.p.), ovvero, infine, lo impiega in attività economiche o finanziarie (art. 648 ter C.p.).
Ed è, in fondo, con riferimento a questo modello che il legislatore nazionale (ed anche quello internazionale, v. legge 16.03.2006 n. 146 che ha ratificato e posto in esecuzione la convenzione ed i protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001) ha apprestato strumenti investigativi di indubbio pregio ed utilità, quale ad esempio la possibilità (art. 10 del D.L. 31 dicembre 1991 n° 419, convertito con modifiche in L. 18 febbraio 1992, n. 172, ed art. 12 quater L. 7 agosto 1992, n. 356, di conversione, con modifiche, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306) di compiere operazioni sotto-copertura tali da consentire la infiltrazione di investigatori, ovvero di interposte persone operanti per loro conto, all’interno delle strutture criminali dedite al riciclaggio, oppure contattare i singoli colletti bianchi che a tale delittuosa attività siano dediti.
Secondo una linea di condotta cui – al di là dell’esistenza di una indagine preliminare che, per esistere, ha bisogno dei classici presupposti previsti dal rito – potranno ben ispirarsi, nell’ambito della loro attività di acquisizione di informazioni e grazie alle garanzie funzionali apprestate dalla legge n. 124/2007, gli appartenenti alle strutture che tale specifica attività svolgono, ed ai quali, pertanto, non debbono, né possono, rimanere estranei i moduli e le dinamiche in forza dei quali operano coloro che svolgono le condotte di riciclaggio.
Attività che avrà la duplice valenza di acquisire importantissimi dati su tali specifiche attività delittuose, nonché di portare all’individuazione di sodalizi criminali di matrice mafiosa o terroristica cui il riciclaggio si ricollega.
Avendo sia i primi che i secondi bisogno della “ripulitura” per il perseguimento delle loro specifiche, e diverse, finalità:
- arricchimento e conseguente implementazione del dominio sul territorio (mafia);
- finanziamento dell’attività di destabilizzazione dell’ordine costituito (terrorismo).
Non dimenticando che in alcune occasioni, proprio seguendo i canali del riciclaggio a livello internazionale, possono rinvenirsi, così come di fatto accaduto, punti di contatto tra i due diversi tipi di organizzazioni.
Anzi, può ben affermarsi che tale sorta di inversione del meccanismo di acquisizione dei dati, cioè partire dagli effetti per giungere alla causa, ovverosia scavare nel campo del delitto derivato per individuare quello presupposto, sembra proprio essere il terreno di elezione di chi opera all’interno dello Stato svolgendo attività informativa e di difesa sociale preventiva, senza doversi uniformare ai rigidi meccanismi dell’indagine preliminare cui non si confà certamente quella inversione di cui si diceva, essendo nella logica di quella investigazione in senso stretto che si indaghi sul riciclaggio partendo dall’accertamento di un reato da cui provengono i profitti da ripulire.
Utili, al superiore fine, potranno anche essere i segnali indicatori di un riciclaggio in corso che le autorità bancarie di vigilanza (leggasi UIF della Banca d’Italia) hanno nel corso del tempo enucleato e diffuso con circolari esplicative, onde ottimizzare e razionalizzare l’istituto della segnalazione delle operazioni finanziarie sospette che incombe agli operatori finanziari e ad una categoria sempre più vasta di professionisti e pubblici ufficiali.
Quali, ad esempio:
a) operazioni incongrue rispetto alle finalità dichiarate;
b) ingiustificata interposizione di soggetti terzi;
c) mezzi di pagamento non appropriati all’operazione;
d) ricorso continuo a tecniche di frazionamento;
e) presenza di soggetti nuovi ed estranei alle ordinarie logiche aziendali.
E non appare inutile, in proposito, rilevare come vada a profilarsi sempre più concretamente, attraverso una compiuta lettura degli esiti delle investigazioni che si svolgono in campo nazionale ed internazionale, l’esistenza di apposite strutture, particolarmente complesse ed articolate, aventi l’esclusivo scopo di riciclare i proventi delle organizzazioni mafiose, eversive e del narcotraffico, particolarmente esperte nello sfruttamento dei circuiti finanziari e delle opportunità da questi offerte, specie attraverso:
1. il ricorso allo strumento delle branches di aziende di credito o di imprese commerciali soprattutto multinazionali, che della struttura madre sfruttano il prestigio e la potenza economica pur mantenendosene formalmente separate, così da poter autonomamente vivere ed anche morire dopo aver assolto al proprio scopo, senza conseguenze per l’altra;
2. l’utilizzazione del mondo virtuale di Internet , vera e propria interfaccia della globalizzazione del crimine, che consente di operare in maniera rapida, efficace e sicura, anche facendo a meno del classico intermediario finanziario.
Strutture, quelle di cui si dice, nelle quali si concentrano profitti inimmaginabili (si consideri che il costo del riciclaggio “chiavi in mano” oggi si aggira tra il 30% ed il 50% del denaro trattato), la cui pericolosità ed il cui potere destabilizzante dell’economia, e quindi dei poteri politici costituiti e dell’ordine sociale, sono talmente evidenti da non richiedere neppure che li si spieghi, e che devono costituire, oggi, il vero bersaglio delle agenzie di informazione e sicurezza.
E non a caso si faceva riferimento ad Internet in tema di riciclaggio, per le forme innovative che la comunicazione virtuale mette a disposizione, operandosi in un universo mediatico che mette in crisi le classiche categorie del tempo e dello spazio cui risponde tradizionalmente l’azione di contrasto del crimine basata su norme incriminatrici che hanno bisogno (onde poter avere un locus commissi delicti ed un tempus commissi delicti[ ) proprio del tempo e dello spazio per poter concretamente operare.
Basta considerare, allo scopo di ben comprendere ciò che si dice, che Internet garantisce la distanza tra l’attività di riciclaggio posta in essere attraverso la Rete ed il delitto presupposto ed i suoi autori.
E consente a chi del riciclaggio si occupa, di usare sistemi sicuri, quali la crittografia e più ancora la steganografia, tali da poter nascondere il reale oggetto della comunicazione.
Sicché le tre operazioni tipiche del riciclaggio tradizionale potranno svolgersi minimizzandosene o addirittura annullandosene i rischi di individuazione degli autori, sia del delitto derivato che di quello presupposto.
E sempre che non si ricorra a quello che oggi si definisce il cyberlaundering che, addirittura, con una sola operazione (e quindi senza più i tradizionali passaggi del classico riciclaggio seppur posto in essere con i moderni mezzi) consente di effettuare transazioni che nascondono la illecita attività, attraverso lo spostamento nel mondo virtuale di beni e capitali con la comunicazione telematica.
Non è chi non veda, si ripete, come in questo terreno potrà più agevolmente muoversi chi istituzionalmente svolge funzioni preventive da canalizzare, all’esito positivo, verso chi ha compiti repressivi.
Ma v’è un “ma”, che si ricollega alle premesse di queste brevi riflessioni.
Si accennava prima al costo del servizio offerto per le operazioni di ripulitura che, come s’è visto, non è irrilevante, anzi tutt’altro, e che si spiega, più che per la retribuzione del rischio che corre chi ricicla, per l’ovvia considerazione che il denaro “imboscato” perché sporco e, quindi, non spendibile impunemente è, per certi versi, come se non si possedesse.
Per cui poterne disporre anche solo parzialmente da parte di chi lo ha prodotto, è già un guadagno. E ciò rende ancor più disinvolti gli appetiti dei riciclatori.
Tuttavia, soprattutto le organizzazioni mafiose, più che quelle terroristiche, che hanno come scopo ultimo la locupletazione massima, certamente non di buon grado rinunciano ad una importante fetta dei proventi delle loro attività delittuose.
Sempre più accentuata, pertanto, è la tendenza di tali tipi di sodalizi a “fare tutto da sé”, cioè a provvedere non solo alla produzione del profitto illecito, ma anche alla sua ripulitura.
E ciò anche in considerazione del fatto che gli appartenenti alle dette organizzazioni ben sanno che, così operando, non rischiano, in caso di sottoposizione a procedimento penale, di essere condannati anche per un reato che, come tra poco si vedrà, non esiste.
Ed è una consapevolezza non semplicemente teorica, ma concreta, come dimostrato da indagini svolte sul territorio (in questo caso in Sicilia, Villabate - PA, anno 2006) per fatti di mafia, da cui è emerso che precisa direttiva dei vertici dell’associazione mafiosa in quel caso inquisita era quella di provvedere direttamente al riciclaggio delle somme occorrenti per la realizzazione di un mega Centro Commerciale, investendovi i proventi dell’attività delittuosa a monte posta in essere.
E per ottenere il risultato si può ricorrere o a sistemi rudimentali, oppure a sistemi più sofisticati.
Tra questi ultimi quello della creazione di vere e proprie imprese criminali il cui scopo unico è quello, appunto, di ripulire i capitali illeciti.
Oppure imprese miste, ove l’attività lecita si confonde con quella illecita, e la prima diventa strumento di copertura della ripulitura.
Si pensi al caso, di recente emerso attraverso una indagine relativa ad un sodalizio ‘ndranghetistico dedito al narcotraffico.
I responsabili della condotta delittuosa avevano costituito delle società cooperative di servizio nell’ambito dell’attività di un grande mercato ortofrutticolo, società che amministravano personalmente o per interposte persone non estranee al narcotraffico.
Ne derivava un comodo sistema di riciclaggio dei proventi delle varie attività illecite (narco-traffico, estorsioni, ecc.), consistente nel pagamento dei dipendenti col denaro “sporco” in contanti, mentre in banca venivano versate le somme di denaro corrisposte dalle imprese di trasporto per le varie prestazioni ricevute dalle cooperative, destinate in astratto anche al pagamento dei salari dei soci cooperatori, ma di fatto intascate dai gestori delle società medesime.
E gli esempi potrebbero moltiplicarsi, visto che, grazie anche alla crisi economico-finanziaria che ha investito l’economia mondiale, i rappresentanti delle organizzazioni criminali, rimasti tra i pochi detentori di risorse finanziarie disponibili, hanno provveduto a far incetta di imprese piccole e medio piccole, riversandovi le predette risorse, ovviamente provento delle attività delittuose, così operando veri e propri riciclaggi con la semplice acquisizione delle stesse, ed utilizzandole quindi per ulteriori attività della stessa natura.
Oltre che per inserirsi nel settore dei pubblici appalti e delle commesse private senza correre il rischio di essere smascherati, visto che nel maggior numero dei casi la struttura della impresa acquisita rimane inalterata.
Diventa, a questo punto, sempre più impellente la necessità di raffinare, adeguandoli alle esigenze dettate dalla nuova realtà che si connette alle continue evoluzioni del crimine organizzato, gli strumenti legislativi penali che servano a contrastare efficacemente il crimine organizzato nei suoi risvolti economici.
Ed in tema di riciclaggio, il riferimento alla, più che opportunità, necessità che sia introdotta nel nostro sistema repressivo la fattispecie penale dell’autoriciclaggio diventa ineludibile.
In Italia il reato di autoriciclaggio non esiste.
Chi vende droga e rimette in circolo il denaro, può essere punito per il traffico di stupefacenti ma non per aver riciclato i proventi illeciti.
In altri termini è esclusa la punibilità per riciclaggio dell’autore o del compartecipe del reato presupposto.
Secondo una scelta legislativa – non condivisa in altri ordinamenti – che si fonda sulla considerazione che per coloro che partecipano alla realizzazione del delitto presupposto, l’utilizzo delle cose di provenienza illecita rappresenta la naturale prosecuzione della condotta criminosa e non può assumere diverso ed autonomo rilievo penale.
Scelta che oggi, tenuto conto dell’evoluzione dei fenomeni criminali, specie quelli di criminalità organizzata, deve ritenersi senz’altro anacronistica.
Per la verità il tema si è posto abbastanza di recente con l’introduzione dell’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, recante attuazione della direttiva 2006/70/CE e della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo.
Detta disposizione ha definito il “riciclaggio”.
Lo ha definito come la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi, o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni, nonché l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movimento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività.
Rientrano in tale condotta anche l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, nonché la partecipazione ad uno degli atti di cui sopra, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto di agevolarne l’esecuzione.
Risulta quindi evidente come rispetto all’origine delittuosa dei capitali oggetto di movimentazione ed ai fini degli obblighi di segnalazione in capo agli intermediari finanziari e non finanziari, l’elemento nuovo introdotto dal legislatore del 2007, rispetto alla tradizionale nozione penalistica, consista nella mancanza dell’inciso “fuori dei casi di concorso nel reato”.
Ciò determina la rilevanza delle cosiddette condotte di autoriciclaggio, cosa che non meraviglia in una direttiva comunitaria, considerato che in alcuni paesi della Comunità, ed anche negli U.S.A., tale fattispecie di reato è ben conosciuta ed inserita nei relativi sistemi penali.
Lo scontro della detta disposizione con l’attuale disciplina penalistica che, invece, non dà rilievo all’autoriciclaggio è stato immediato, e con effetti anche concreti.
Perché ad una circolare dell’anno 2008 del Comando Generale della Guardia di Finanza che, giusta quella norma nuova, impartiva direttive ai dipendenti Comandi nei termini che l’obbligo della segnalazione delle operazioni sospette dovesse ritenersi vigente anche in caso di corrispondenza tra soggetto che commette il delitto presupposto e riciclatore, ha fatto da contraltare quella in senso contrario dell’ABI, del corrente anno, che si attiene proprio alla mancata previsione della antigiuridicità penale dell’autoriciclaggio.
Ma l’opportunità dell’introduzione di tale fattispecie penale è segnalata anche dal mondo finanziario ai più elevati livelli (leggasi Governatore della Banca d’Italia).
Come pure il Fondo Monetario Internazionale, già nel 2005, aveva sollecitato all’Italia un intervento legislativo in tal senso, considerati pure i positivi risultati giudiziari conseguiti in altri Paesi, quali la Germania ed il Regno Unito.
E per pervenire a tale risultato, secondo un recente disegno di legge non ancora discusso, non sarebbe necessaria neppure l’introduzione di un nuovo reato nel codice penale, ma una semplice modifica degli artt. 648 bis e 648 ter C.p., consistente nella soppressione dell’inciso, contenuto nella parte iniziale delle dette due disposizioni, “fuori dei casi di concorso nel reato” .
Proprio così potrebbe entrare nel nostro sistema penale il delitto di autoriciclaggio.
Solo sette parole in meno, una semplice frase la cui assenza, però, determina una vera e propria rivoluzione giuspenalistica, perché tronca nettamente il legame col reato, quello di cui all’art. 648 C.p., da cui i due predetti avevano preso origine.
Ed essi, a questo punto, uscirebbero dal novero dei delitti contro il patrimonio in cui attualmente sono inseriti, per entrare in quello, che loro più si confà, dei delitti contro l’ordine economico (ed anche pubblico, se si vuole), per le evidenti alterazioni che determinano nei circuiti economici e finanziari, anche per la ormai accentuata ed ormai istituzionalizzata liaison degli stessi con il crimine organizzato.
“Rivoluzione” che le nuove frontiere della criminalità organizzata rendono più che necessaria, onde sdoganare importanti disposizioni penali, essenziali per il contrasto della mafia, che resistenze non facilmente comprensibili rendono scarsamente operative e di difficile concreta applicazione. E che il legame stretto con l’art. 648 C.p. ha sostanzialmente umiliato, relegando il riciclaggio soprattutto alla persecuzione di banali condotte antigiuridiche, quali ad esempio l’alterazione dei numeri di telaio delle autovetture di provenienza furtiva, di cui è ripiena qualsiasi rassegna di giurisprudenza sul delitto di cui all’art. 648 bis C.p..



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