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GNOSIS 2/2009
APPENDICE

Le migrazioni irregolari dai Paesi Africani


Natale ARGIRO'



CONVEGNO



Il ruolo della politica e le ragioni della
sicurezza nel Mediterraneo
"NUOVE SFIDE"

Il Convegno, svoltosi il 30 aprile 2009 presso la Sala della Protomoteca - Campidoglio -, è stato patrocinato dal Comune di Roma e organizzato dall’Accademia Italia Tunisia per lo sviluppo e la cultura mediterranea nonché dall’Istituto per la cooperazione economica internazionale e i problemi dello sviluppo.
Tra i conferenzieri anche il dottor Natale Argirò, con una sua relazione che di seguito proponiamo.



LE MIGRAZIONI IRREGOLARI
DAI PAESI AFRICANI


La prima volta in cui in tempi recenti (per non andare all’imperatore romano Adriano) si è parlato del progetto “Unione per il Mediterraneo” è stato a Roma allorché il 20 dicembre 2007 si è svolto a Palazzo Chigi uno storico vertice a tre fra il Presidente della Repubblica francese, il Presidente del Consiglio italiano e il Primo Ministro spagnolo.
In verità già esisteva una forma di Unione di Stati del c.d. “Processo di Barcellona” o Partenariato Euromediterraneo risalente alla Conferenza del 27 e 28 novembre 1995 tenuta a Barcellona dai Ministri degli Affari esteri degli Stati membri dell’Unione Europea e di 12 partners mediterranei (Albania, Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Mauritania, Siria, Territori palestinesi, Tunisia e Turchia), conclusasi con l’approvazione di una “dichiarazione” destinata a organizzare una stretta cooperazione in tre settori:
1. partnership politica e sicurezza, per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata e per l’azione a favore della non proliferazione nucleare;
2. partnership economica e finanziaria, per attuare il libero scambio e una concertazione economica, nonché per il sostanziale aumento dell’assistenza finanziaria dell’U.E.;
3. partnership nei settori sociale, culturale e umano, per promuovere gli scambi tra responsabili politici, università, mass-media e imprese.
Ma, nonostante ogni migliore intenzione, il Processo non è mai veramente decollato e principalmente a causa del protrarsi del conflitto Israele-Palestinese (“la madre di tutti i problemi”, come diceva Saddam Hussein), che ancora nei primi mesi del 2009 si è trascinato in forma violenta, sconvolgendo i già precari equilibri politici fra i Paesi del Medio Oriente. Precarietà che viene spesso imputata proprio a tale conflitto, mentre, come molti ritengono, talvolta la “questione palestinese” è semplicemente un “alibi”, essendo quei Paesi afflitti in realtà da una “interconnessione” di crisi dovute a tutt’altre motivazioni.
Si pensi allo stesso problema interpalestinese (tra Cisgiordania e Gaza), a quelli di ordine pubblico presenti in Libano e in Iraq, e in materia di terrorismo che creano diffidenze e sospetti nei confronti della Siria, a quelli che stanno scatenando nel mondo i progetti del nucleare dell’Iran, ai problemi legati alla mobilità di persone e merci alla frontiera tra Marocco e Algeria, ai difficili rapporti fra detti Paesi e l’Egitto (“non si può fare la guerra senza l’Egitto ma non si può fare la pace senza la Siria” afferma un motto che rende bene l’idea di quanto la politica di uno Stato non possa essere autonoma e indipendente rispetto a quella degli altri Stati medio-orientali).
Ebbene, la “Dichiarazione di Roma” per l’Unione dei Paesi del Mediterraneo ha cercato di superare le obiettive difficoltà del partenariato nella convinzione che “il Mediterraneo, culla di cultura e civiltà, debba riprendere il proprio ruolo di regione di pace, prosperità e tolleranza”.
Pace e sicurezza, quindi, in un’area martoriata dalle guerre come fonte di stabilità di Governi democratici e di cooperazione con l’Unione Europea; prosperità quale risultato di un graduale progresso civile ed economico; tolleranza, foriera perciò di interventi idonei per risolvere il problema delle migrazioni.
Ma il vero lancio del progetto dell’Unione per il Mediterraneo si è avuto sicuramente sotto la Presidenza di turno francese del Consiglio dell’Unione Europea quando, il 13 luglio 2008, a Parigi si sono riuniti tutti i Capi di Stato o di Governo interessati a consolidare e far progredire la cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo.
In quella sede erano presenti non solo i Capi di Stato o di Governo dei 27 Paesi membri dell’Unione Europea e di 16 Paesi Mediterranei (Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Mauritania, Siria, Tunisia, Turchia, Autorità Palestinese, Albania, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Monaco), bensì anche i responsabili delle maggiori organizzazioni internazionali e regionali (1) .
Il vertice si è concluso con un documento che finalmente dà vita a questo nuovo organismo internazionale: l’Unione per il Mediterraneo (UpM), che riunisce appunto i Paesi membri dell’Unione Europea e tutte le Nazioni che si affacciano sul Mediterraneo. Peraltro, vorrei ricordare che la Lega degli Stati Arabi è già inclusa come partecipante a tutte le riunioni nell’UE e a tutti i livelli, in considerazione del suo contributo positivo agli obiettivi della pace, della stabilità e della prosperità nella regione mediterranea.
I temi affrontati sono legati a problematiche relative ala sicurezza, al disinquinamento del Mediterraneo, allo sviluppo dell’energia solare e gestione dell’acqua, all’attuazione di programmi congiunti di infrastrutture e trasporti, nonché di sviluppo socio economico e industriale.
Però, mentre a Parigi sono stati sviluppati i primi due principi della Dichiarazione di Roma (pace e prosperità), debbo rilevare che nulla è stato espressamente detto circa il terzo principio, quello della tolleranza e quindi da un lato non si è parlato del grave e irrisolto problema delle migrazioni in generale e di quelle illegali in particolare verso i Paesi dell’Unione Europea e dall’altro lato non si è voluto neppure ipotizzare una eventuale disciplina di una libera circolazione dei cittadini e delle merci all’interno dei Paesi dell’UpM..
Tuttavia, un altro importante passo in avanti è stato fatto con il vertice dei Ministri degli Affari esteri dei 43 Stati del partenariato euromediterraneo tenuto il 3 e 4 novembre 2008 a Marsiglia nel corso del quale è stato ribadito lo scopo e il mandato dell’UPM, mentre per la governance della nuova struttura istituzionale è stata stabilita la sede del Segretariato permanente a Barcellona e quella della copresidenza tra Egitto e Francia ad Amman.
I fondi per il funzionamento dell’UpM e per il trattamento economico dei suoi funzionari dovrebbero venire dall’UE e dagli stessi Paesi membri anche sotto forma di contributi volontari.
Il nostro Paese probabilmente guiderà il consorzio delle protezioni civili.
E, per concludere, vorrei segnalare l’incontro tra i Ministri del lavoro dei Paesi dell’UE e degli Stati dell’UpM del 9 e 10 novembre 2008 a Marrakech in Marocco finalizzato all’attuazione di una politica comune economica, fiscale e sociale nonché di educazione e formazione al lavoro, al termine del quale è stata programmata per il 2010 un’apposita Conferenza.
L’Italia, da sempre interessata alla stabilità dei Paesi dell’UpM, ritenendo a giusta ragione che la loro sicurezza interna è in fondo la sicurezza del nostro stesso Paese, è impegnata ad ospitare per il prossimo anno un forum per lo sviluppo economico a Milano delle medie e piccole imprese e un forum per la sicurezza marittima delle Capitanerie di Porto a Genova.
Quanto al problema dell’immigrazione illegale, osservo che è pur vero che si è cercato di porvi un freno, assumendo numerose iniziative dirette a produrre pace e prosperità (sviluppo industriale e commerciale con nuove possibilità lavorative) nei territori dei Paesi dell’UpM, è pur vero che con la lotta alla criminalità organizzata si colpisce anche la tratta di esseri umani, ma a mio modo di vedere non bastano queste iniziative per così dire “indirette”.
Forse il fenomeno andava posto in maniera diretta e centrale e andava concordata finalmente una chiara politica comune fra le due Unioni con il dichiarato fine di:
- evitare il triste e talvolta luttuoso percorso delle ‘rotte della speranza’ tra le coste africane e quelle siciliane in specie, con un grande sforzo economico dell’Unione Europea;
- attuare forme di cooperazione con le Polizie dei Paesi dell’UE e far fronte all’addestramento di quelle dei Paesi dell’UpM e al rinnovo del loro equipaggiamento;
- finanziare la costruzione di strutture moderne sulle coste di sbarco, ove ospitare e assistere i clandestini prima di rimpatriarli;
- allestire corrispondenti strutture nei Paesi di provenienza in modo che possano essere gradualmente reinseriti nel tessuto sociale;
- dar subito corso, con fondi europei, ad una gigantesca campagna di stampa e radio-televisiva e finanche cinematografica nei Paesi maggiormente interessati dal fenomeno in questione per mostrare le reali condizioni di vita degli immigrati e dei clandestini in Italia e nel resto d’Europa e per far conoscere gli ordinamenti interni degli Stati dell’UE e soprattutto i provvedimenti ai quali i migranti irregolari sono sottoposti.
Peraltro, non mi sembra affatto giusto che il nostro Paese in termini finanziari e diplomatici debba affrontare da solo, in materia di immigrazione clandestina, uno sforzo che risulta decine di volte superiore a quello degli altri Paesi europei o delle istituzioni comunitarie, mentre è accertato che l’Italia è interessata dal fenomeno soltanto in prima battuta, e che non è quasi mai la meta definitiva dei migranti; il nostro Paese, insomma, il più delle volte, costituisce soltanto un territorio di transito per poter raggiungere la destinazione finale che è rappresentata da altri Stati dell’Europa occidentale.
Si calcola che ogni anno entrano nel territorio dell’Unione Europea almeno 900.000 immigrati clandestini e secondo una recente statistica relativa allo scorso 2008 (2) , soltanto sulle nostre coste meridionali e in maniera più massiccia sull’isola di Lampedusa, sarebbero sbarcati circa 37.000 clandestini, di cui 7.503 tunisini, 5.258 somali, 3.942 eritrei, 2.257 egiziani, 2.012 algerini, 1.791 marocchini, ai quali vanno aggiunti migliaia di altri clandestini provenienti da altri Paesi e da quelli per le cui condizioni interne può essere chiesto asilo politico.
Orbene, visto che quello dei clandestini sembra dover essere proprio considerato un problema principalmente italiano (3) , a mio sommesso avviso bisogna che il nostro Paese provveda sollecitamente alla stipula di apposite convenzioni e accordi internazionali, anche di natura “semplificata”, con i Paesi interessati, sia per la immediata riammissione dei clandestini, che per l’adozione di qualsivoglia iniziativa diretta a controllare le vie del mare. Primi fra tutti, gli Stati da dove salpano le c.d. carrette del mare cariche di disperati, spesso alla seconda e alla terza esperienza, che dopo aver consegnato ai “trafficanti” di esseri umani tutti i loro averi sono disposti anche a sacrificare la propria vita pur di raggiungere le coste della nostra penisola.
In verità l’Italia ha già stipulato accordi di riammissione con diversi Stati africani (Albania, Algeria, Marocco, Tunisia ed Egitto): in alcuni casi l’approvazione è avvenuta in “forma semplificata” (che non prevede una legge ordinaria di ratifica), mentre in altri casi sono state concluse intese di carattere tecnico (4) , ma non tutti gli accordi sono poi entrati realmente in vigore.
Pertanto, laddove esistano già pregressi trattati di tale natura, penso che l’Italia debba riprendere al più presto la via delle intese tecniche per il respingimento-riammissione dei clandestini per non dover, invece, ricorrere alle procedure di espulsioni ben più complesse e dalle conseguenze giuridiche sicuramente più gravi (specialmente per coloro che ritentano lo sbarco).
Ad esempio, tra Italia e Tunisia vi era già un accordo sottoscritto nel 1998 dall’allora Ministro dell’Interno Giorgio Napolitano che prevedeva, per la disponibilità ad accettare i rimpatri, la quota di 4.000 ingressi annuali di lavoratori tunisini nel nostro Paese (saliti poi a 4.500 con il successivo accordo del 2.003), la regolarizzazione di migliaia di tunisini che vivevano in Italia da anni, la cessione di motovedette italiane per il pattugliamento delle coste tunisine e l’avvio di corsi di formazione per gli ufficiali della Polizia tunisina.
Quegli accordi, che pur hanno consentito di rimpatriare in 10 anni ben 9.000 cittadini tunisini che si trovavano in posizione illegale sul territorio nazionale, escludevano, però, il c.d. rimpatrio di massa. Pertanto cui il Viminale, che si è trovato di recente di fronte a un aumento esponenziale delle partenze dal Paese Africano (a gennaio 2009 risultano 1.250 presenze irregolari nella sola isola di Lampedusa), dovendo seguire la prassi prevista per le riammissioni, lunga e laboriosa a causa delle difficoltà legate all’identificazione del clandestino (5) ha dovuto prendere atto dell’impossibilità di risolvere la situazione se non previo nuovo accordo con la Tunisia con la quale, peraltro esistono già splendidi rapporti in molti settori dell’industria, dell’economia e del commercio e che viene ritenuta partner privilegiato perché di sicuro affidamento.
Dunque, il Ministro dell’Interno Maroni ha avviato una serie di consultazioni con il suo collega tunisino al fine di ottenere una maggiore collaborazione nelle operazioni di rimpatrio “diretto” dei migranti irregolari sottoposti a provvedimento di respingimento alla frontiera, con il concorso di agenti consolari e interpreti dei due Paesi nell’identificazione dei migranti, privi di documenti di riconoscimento ufficiali che ne attestino identità e nazionalità certa.
Poi, per formalizzare le nuove intese, il 27 gennaio 2009 il Ministro Maroni, accompagnato dal Capo della Polizia Manganelli e da una Delegazione di funzionari esperti del settore immigrazione del Ministero dell’Interno, si è recato a Tunisi dove ha incontrato il Ministro dell’Interno e dello Sviluppo Locale Rafik Belhay Kacem.
L’accordo (6) è fissato in tre punti fondamentali:
1. intensificazione della lotta al fenomeno della tratta degli esseri umani e di ogni forma di organizzazione criminale che sfrutta l’immigrazione clandestina;
2. definizione di un piano che preveda, da un lato la semplificazione e l’accelerazione delle procedure necessarie all’identificazione degli immigrati tunisini presenti nei CEI italiani, e, dall’altro, il rimpatrio graduale e costante di coloro che sono già stati identificati e che si trovano attualmente nella struttura di Lampedusa entro il termine massimo di due mesi; è stato, inoltre, previsto l’inizio di un progetto che, attraverso l’utilizzo di fondi europei e il sostegno di organizzazioni internazionali, incentivi forme di rimpatrio assistito,
3. prosecuzione dell’azione di sostegno alla Tunisia, come già previsto dagli accordi a partire dal 1998, per prevenire e contrastare il fenomeno dell’immigrazione illegale.
A margine dell’incontro fra i due Ministri, le Autorità tunisine hanno tra l’altro fatto presente l’impossibilità di controllare le partenze dalle coste libiche verso l’Italia: nella maggior parte dei casi, infatti, i tunisini raggiungono il porto libico di Al Zawra, pochi chilometri al di là della frontiera, per evitare i controlli capillari delle motovedette della Marina di Tunisi.
Ed allora, all’indomani della ratifica da parte del Parlamento italiano del Trattato italo-libico di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 dal Presidente Berlusconi e dal leader libico Gheddafi (7) , il Ministro dell’Interno Maroni il 4 febbraio 2009 si è recato a Tripoli per incontrare il collega libico Abdulfatah Yunes El Abdel al fine di trovare un’intesa di carattere operativo per stroncare sul nascere le partenze dai porti libici del c.d. popolo dei clandestini.
Il Trattato, tra l’altro, prevede che le due Parti intensifichino la collaborazione in atto nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti a alla immigrazione clandestina, in conformità a quanto previsto dall’accordo firmato a Roma il 13 dicembre 2000 e dalle successive intese tecniche, tra cui, in particolare, per quanto concerne il contrasto all’immigrazione clandestina, i Protocolli di cooperazione firmati a Tripoli il 29 dicembre 2007.
Sempre in tema di contrasto all’immigrazione clandestina, le due Parti si sono impegnate a promuovere la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche (a realizzarla dovrebbe essere Finmeccanica). L’Italia dovrebbe coprire il 50% dei costi, mentre per il restante 50%, le due Parti chiederanno all’Unione Europea di farsene carico, tenuto conto delle intese a suo tempo intervenute tra la Grande Giamahiria e la Commissione Europea.
I due Statisti hanno, altresì, assunto l’impegno di collaborare alla definizione di iniziative, sia bilaterali, sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori.
Tale collaborazione si è tradotta per ora nella previsione di pattugliamenti congiunti italo-libici lungo la costa libica: l’accordo prevede la cessione alla Libia di sei motovedette della Guardia di Finanza a bordo delle quali opereranno equipaggi misti e la consegna di una ventina di piccole imbarcazioni ad uso della Polizia libica.
Ma, per dare pratica attuazione ai vari progetti di collaborazione, per tenere sotto costante monitoraggio il fenomeno migratorio e per mantenere un “collegamento” diretto tra i Paesi interessati, sostengo con convinzione l’opportunità di creare un Osservatorio sul’immigrazione illegale composto da membri designati dai rispettivi Stati, che potrebbe avere la sua sede in una delle capitali africane (Tripoli o Tunisi), oppure a Roma. Il nuovo organismo dovrebbe avere in particolare il compito di verificare la corretta gestione dei fondi comunitari destinati ai rimpatri assistiti, secondo le modalità previste dagli accordi, nonchè l’andamento degli impegni assunti dalle Parti in materia di respingimenti alla frontiera e riammissioni, segnalando ai rispettivi Ministeri dell’Interno eventuali inadempienze e proponendo ipotesi tecniche di soluzione.
Il Direttore dell’Osservatorio, di nomina congiunta da parte dell’Italia e dei Paesi interessati, che dovrà ovviamente possedere una provata esperienza in materia di migrazioni e di pubblica sicurezza (8) , redigerà, quindi, un processo verbale con cadenza semestrale che faccia stato degli obbiettivi raggiunti o da raggiungere in relazione agli obblighi assunti dai Paesi ivi rappresentati nel campo dell’immigrazione clandestina.
Occorrerà, inoltre, che le neo-istituzioni dell’UpM comincino davvero a funzionare, adottando, in una materia così vitale per la civile convivenza come la disciplina delle migrazioni illegali, un Regolamento che, al pari dei Regolamenti comunitari, esplichi nei Paesi membri efficacia immediata e obbligatoria in virtù della natura sopranazionale degli organi emananti.
E siccome mi sembra impensabile, per ora, una simile iniziativa, (la questione è stata posta all’ordine del giorno nelle prossime conferenze dei Ministri degli Affari esteri e degli Interni) e mentre si procede sulla strada degli accordi e delle intese internazionali, penso che sia doveroso intanto stabilire delle nuove strategie che possano facilitare i provvedimenti di respingimento-riammissione quando essi potranno essere operativi.
Così, accertato che nel 2008 si sono avuti 537 sbarchi irregolari in Sicilia (di cui 397 a Lampedusa), 110 in Sardegna, 11 in Calabria e 7 in Puglia, ritengo logico che proprio in tali territori siano attrezzati degli appositi e idonei Centri (CIE) ove dare tutta l’assistenza possibile ai clandestini, per poi eseguire sul posto le pratiche necessarie per la loro identificazione, prima di dar luogo ai procedimenti per il loro respingimento-riammissione “assistita” nei Paesi di provenienza.
In questo modo, oltre a rendere più rapidi e perciò più efficaci i provvedimenti, si evita, a mio avviso, un enorme dispendio di risorse finanziarie ed umane per il loro trasferimento in altre strutture di accoglienza dislocate sul territorio nazionale, nonchè il concreto pericolo ch’essi si allontanino impegnando poi le Forze dell’Ordine in una spasmodica quanto evitabile caccia all’uomo.
In tali strutture penso che sia giusto, invece, che vengano ospitati i clandestini rintracciati non al momento dell’ingresso nel nostro Paese bensì in epoca successiva per essere, dopo le formalità di rito, espulsi versi i loro Paesi, con l’”accompagnamento alla frontiera”.
Al riguardo vorrei ricordare che gli istituti del respingimento e dell’espulsione amministrativa del clandestino (9) , sono preordinati alla repressione dell’immigrazione illegale: il respingimento può essere fatto dalla polizia di frontiera nei confronti degli stranieri che si presentano ai valichi senza avere i requisiti richiesti per l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero può essere disposto dal Questore, il c.d. respingimento differito (10) (riammissione o rimpatrio) nei confronti degli stranieri che si sono o sottratti ai controlli di frontiera e sono fermati all’ingresso o “subito dopo”, o sono stati ammessi temporaneamente per necessità di pubblico soccorso. Le ipotesi di respingimento, suscitano molte perplessità, per l’ampia discrezionalità attribuita all’autorità di polizia nell’individuazione dei relativi presupposti e per il grave vulnus alle garanzie costituzionali dei migranti, rappresentato dal rischio dell’assenza di qualsiasi controllo giurisdizionale. Per questo i provvedimenti di riammissione o rimpatrio, specialmente quando adottati nei confronti di più persone, debbono essere concordati con i Paesi di provenienza attraverso dirette intese, ancorché “semplificate” e debbono essere comunque sottoposti a convalida da parte del giudice di pace.
I soggetti destinatari dell’espulsione amministrativa sono, invece, gli stranieri entrati nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non sottoposti al respingimento, nonchè gli stranieri entrati regolarmente ma privi di titoli per rimanere nel territorio dello Stato, o perché non hanno richiesto il permesso di soggiorno nei termini consentiti dalla legge, o perché non hanno ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno o non lo hanno richiesto entro 60 gg. dalla scadenza, o perché ancora è intervenuta la revoca o l’annullamento del permesso di soggiorno in loro possesso. Sono altresì espellibili gli stranieri “pericolosi”, muniti di regolare permesso di soggiorno, ma appartenenti ad alcune categorie indicate dalla legge, come quelli che sono indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa, o che vivono di proventi di attività illecite o nei confronti dei quali sia applicabile una misura di prevenzione in quanto dediti a traffici delittuosi. In ogni caso sono vietate le espulsioni collettive (11) .
Per concludere, in merito alle cause dell’immigrazione (legale o illegale che sia) mi sentirei di poter affermare che ancora oggi, nel primo decennio del XXI° secolo, alcune di esse, e in particolare quelle che vanno sotto il nome di “fattori di spinta” o push factors, vanno sicuramente correlate al sovrappopolamento del pianeta in tempi relativamente rapidi (12) , allo squilibrio sempre più evidente nella distribuzione delle ricchezze e delle opportunità che caratterizzano la globalizzazione (13) , ancora alla caduta dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est, alle guerre, alle persecuzioni per motivi politici, religiosi, razziali, tuttora presenti nel mondo, ai disastri ambientali e , infine, alle diverse malattie endemiche.
Ma, per quanto riguarda la pressione migratoria dai Paesi Africani dell’ UpM verso quelli dell’UE, ritengo che ai suddetti “fattori di spinta” debbono comunque essere aggiunte cause più specifiche come la contrapposizione tra l’invecchiamento della popolazione del Sud Europa e l’eccedenza di popolazione in età giovanile in nord Africa o più in generale nei Paesi in via di sviluppo e una sempre più crescente offerta di lavoro (purtroppo spesso precario o mal retribuito) che non trova però sbocchi occupazionali. Queste cause costituiscono, quindi, quegli ulteriori “fattori si spinta” che sono poi alla base di un vero e proprio travaso di popolazione dalle sponde del nord Africa a quelle della vecchia Europa (con l’Italia ovviamente in prima linea), travaso che, quando non è soddisfatto dal regime delle quote, si trasforma ovviamente in pressione migratoria illegale, gestita sapientemente dalle organizzazioni criminali.
Infatti, la malavita che controlla le varie cittadine del Meridione, ha determinato i modi dell’insediamento degli immigrati e in particolare degli africani sul territorio (casertano in particolare) e il criterio è sempre stato quello dell’utilità economica, o sfruttamento della mano d’opera a buon mercato, facendo conoscere agli immigrati il tempo dell’oro nero, la coltivazione del pomodoro (14) .
E a tali “fattori” debbono essere ancora aggiunte le c.d. variabili motivazionali individuali delle quali i push factors non tengono affatto conto, considerando “i migranti come soggetti passivi in balia di forze sovrastanti che li muovono come pedine sulla scacchiera della geopolitica e degli interessi economici, privi di effettive capacità di scelta, di orientamento, di definizione dei propri obiettivi e progetti di vita” (15) .
Invece, l’importanza dei fattori motivazionali individuali è stata sottolineata da numerose teorie sociologiche che considerano i comportamenti migratori come scelte individuali del potenziale migrante lavoratore, basate su calcoli razionali di massimizzazione dell’utilità, cioè sul confronto tra la situazione in cui egli si trova ed il guadagno atteso dal suo trasferimento in un altro Paese (16) .
Muovendo da questa dimensione prettamente utilitaristica, la “nuova economia delle migrazioni” (new economy of migrations), superando l’ipotesi della ricerca del benessere individuale, considera le scelte migratorie come “opzioni familiari”, nel senso che sono decisioni maturate nell’ambito delle famiglie e sono orientate non solo a massimizzare il reddito ma a consentire il finanziamento di attività economiche in patria, l’acquisto di proprietà immobiliari o la prosecuzione degli studi da parte dei più giovani.
In questa ottica è evidente che anche l’eventuale miglioramento della situazione economica nel Paese di origine non fa diminuire la propensione ad emigrare, perché crescono le aspettative ed aumentano le risorse per tentare l’avventura dell’emigrazione.
Questi approcci, però, non valutano i “valori” del potenziale migrante, il “gruppo sociale” in cui è inserito o le “sue aspettative”, ma lo considerano solo come un soggetto razionale che opera le sue scelte nell’assenza totale di condizionamenti. Non spiegano, altresì, perché solo determinati individui decidono di partire e perché partano da alcuni luoghi e non da altri, perché ancora alcuni soggetti rimangono intrappolati nelle occupazioni precarie e marginali e perché altri accedono a posizioni migliori.
Per questo le più recenti teorie in materia dei network, considerano il fenomeno migratorio come il risultato di quei “complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine” (17) . Sono, dunque, elementi importanti, quanto i push factors, la precedente esperienza migratoria degli individui o dei loro consanguinei, i legami stabiliti tra i luoghi di origine e quelli di destinazione, l’esistenza di reti di sostegno, i flussi informativi e le catene familiari.
Ma, sebbene le teorie dei network rivalutino il ruolo del migrante come attore sociale, capace di decidere il proprio destino, di cambiare identità culturale e di inserirsi in una rete sociale di rapporti variegati, in realtà trascurano l’aspetto della marginalità e della devianza che spesso sono associate alla progressiva assimilazione nelle società riceventi. Esse possono altresì dare una spiegazione della continuazione del fenomeno migratorio ma non ne spiegano la causa iniziale, né tengono conto delle difficoltà create dalle regolazioni normative degli Stati riceventi e quindi del costante adattamento dei migranti ai vincoli esterni e dei compromessi che esso comporta. Recentemente le teorie dei network, cercando un ulteriore completamento analitico, hanno inglobato anche il ruolo svolto dalle organizzazioni che mediano tra le aspirazioni individuali all’emigrazione e la concreta possibilità di trasferirsi all’estero, quali le imprese che reclutano lavoratori, le associazioni di migranti, le agenzie governative, gli specialisti legali o illegali del trasferimento delle persone attraverso le frontiere e le istituzioni solidaristiche e umanitarie.
Dunque, vorrei far notare quanto sia chiaro che i “fattori di spinta”, come le differenze demografiche, gli squilibri economici su scala mondiale, la carenza di opportunità di lavoro nei Paesi di origine o i legami politici economici e culturali tra i diversi Paesi, non riescano da soli a determinare uno spostamento migratorio, ma che debbano essere integrati con i cosiddetti “fattori di attrazione” o pull factors.
Sono sicuramente fattori di attrazione, il (pur comprensibile) desiderio di ricongiungersi a familiari ed amici che si trovano nel nuovo Paese, la domanda di “lavoro nero” da parte di spregiudicati operatori economici soprattutto nei settori dell’edilizia, dell’agricoltura, dei servizi di pulizia ed in quello alberghiero, ed ancora l’errata convinzione di trovare facili ed ingenti guadagni, alimentata da false informazioni che vengono fatte veicolare ad arte dalle organizzazioni criminali, ma anche talvolta dagli stessi mass-media e in special modo dagli stessi immigrati che non vogliono comunicare la nuova e triste realtà nella quale quasi sempre essi sono costretti a vivere. E sono proprio questi “fattori di attrazione” che sovente determinano le scelte individuali o familiari dei potenziali immigrati, scelte agevolate dalle reti di parentela e delle istituzioni sociali, che si possono definire come “fattori di facilitazione”. Essi, infatti, creano (secondo me specialmente nel c.d. popolo dei clandestini) la consapevolezza di potersi avvalere della ospitalità di parenti e di connazionali e di poter essere introdotti dagli stessi nel mondo del “lavoro (nero)”, o, in mancanza, di poter contare su istituzioni sociali e umanitarie o su organizzazioni specializzate in grado di offrire trasporto, falsa documentazione, disponibilità di alloggio e di lavoro sommerso, eludendo i controlli di frontiera.
Per quanto fin qui detto, vorrei sottolineare che è ormai indispensabile e indifferibile che Unione Europea e Unione per il Mediterraneo provvedano di comune intesa ad una regolazione normativa del fenomeno, anche se ciò dovesse imporre una rivisitazione sotto il profilo giuridico e tecnico delle discipline in vigore nei singoli Stati, affinchè tale regolazione possa costituire una variabile interveniente, capace di mediare tra le aspirazioni dei potenziali immigrati dei Paesi Africani (e non solo) dell’UpM e le concrete possibilità di insediamento degli stessi in quelli dell’UE, ma nello stesso tempo che sia idonea anche ad ostacolare e contrastare i processi migratori irregolari.
A tal riguardo un concreto tentativo diretto a contrastare efficacemente l’immigrazione illegale (ancorchè adottato unilateralmente da parte dell’UE), credo possa essere ritenuto l’approvazione formale concessa il 18 febbraio 2009 dal Parlamento Europeo alla “relazione Fava” sulla proposta di Direttiva (18) del Parlamento Europeo e del Consiglio la quale vieta l’assunzione di cittadini di Paesi terzi soggiornanti illegalmente, definisce norme specifiche per i casi di subappalto, stabilisce che i Paesi membri debbono agevolare le denunce (sia dirette, da parte dei lavoratori “in nero”, che attraverso i sindacati) e garantire adeguate ispezioni sui luoghi di lavoro più a rischio per controllare l’impiego di lavoratori irregolari. La relazione introduce, inoltre, sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano immigrati irregolari nell’UE sia di natura finanziaria (inclusi i costi di eventuali rimpatri e il pagamento della retribuzione arretrata e dei contributi previdenziali), che amministrativa (come l’esclusione dalle convenzioni, la chiusura e il ritiro della licenza di esercizio). In forza della Direttiva gli Stati membri dovranno garantire che la violazione del divieto di assumere immigrati illegali, costituisca “reato”, come previsto dalla legislazione nazionale, quando:
- da parte del datore di lavoro è intenzionale
- è dallo stesso costantemente reiterata
- riguarda l’impiego simultaneo di un numero significativo di cittadini dei Paesi terzi in posizione irregolare
- è accompagnata da situazioni di particolare sfruttamento
- il datore di lavoro è consapevole di impiegare una vittima della “tratta” di esseri umani
- riguarda l’impiego illegale di un minore
E sono puniti come reati anche l’istigazione, il favoreggiamento e la complicità nella commissione dei succitati atti.
Vorrei concludere l’argomento ricordando che la legge italiana in materia già punisce il datore di lavoro che assume immigrati in posizione irregolare con l’arresto da uno a tre anni e un’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato e che gli ispettori che constatano il reato hanno l’obbligo di trasmettere il rapporto agli Istituti previdenziali per il conseguente recupero retributivo.


(1) Il Presidente Moummar Gheddafi non ha partecipato preferendo per la sua Nazione lo status di osservatore.
(2) Corriere della sera -Focus- 15 gennaio 2009
(3) La Spagna, ad esempio, ritiene di aver risolto il suo problema con l’allestimento del centro di Melilla, l’enclave spagnolo in territorio marocchino, in verità da più parti messo spesso sotto accusa per l’eccessiva fermezza nei confronti dei clandestini da parte degli operatori di Polizia che lo presidiano.
(4) Abuja - 18.02.2009: Progetto pilota, della durata di due anni, tra Nigeria, Italia e Interpol per contrastare il traffico di esseri umani e l’immigrazione clandestina, che prevede la preparazione e l’impiego n Italia di squadre di Polizia miste.
(5) Sarebbero necessari almeno sei mesi da parte delle Forze di Polizia per rimpatriare 1.250 irregolari e sempre che nel frattempo non ne arrivino altri.
(6) Comunicato stampa del Viminale del 28 gennaio 2009.
(7) Nel successivo incontro nel deserto della Sirte il 2 marzo 2008, i due Presidenti hanno sacramentato l’accordo scambiandosi le leggi di ratifica del Parlamento italiano e del Congresso generale del popolo libico.
(8) Deve aver rivestito la qualifica apicale prevista delle Polizie dei due Paesi.
(9) D.Lgs. n.286 del 25 luglio 1998.
(10) Art. 10 comma 2 Testo Unico sull’immigrazione.
(11) Art. 4 All. IV alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo affermato dalla Convenzione di Ginevra. Artt. 10,13,24 Cost.
(12) Si calcola che nel 2050 la popolazione mondiale poterebbe raggiungere i 9 miliardi di persone, più del 90% concentrate nei cosiddetti paesi del terzo e quarto mondo. Uno studio dell’O.N.U. stima che, nel medesimo anno, molti grandi paesi industrializzati, tra i quali l’Italia, subiranno un rapido invecchiamento ed una significativa riduzione della popolazione nazionale (l’Italia registrerebbe, ad esempio, una diminuzione del 28%).
(13) E’ stato calcolato che alla fine degli anni ’90 il PIL dei paesi industrializzati é cresciuto di cinque volte rispetto a quello degli anni ’50 dei paesi in via di sviluppo.
(14) Padre comboniano Giorgio Poletti – Tra camorra e immigrazione – Alfabeto Democratico 2009.
(15) Maurizio Ambrosini – cit.
(16) J. Arango - Explaining Migration : a Critical View - Ambrosini – cit.; Arango - Explain “ al” n. 165/2000.
(17) D.S. Massey – Economic development and international migration in comparative perspective – in “Population and Development Review” n. 14 (pp 383-413) International Social Science Journ.
(18) Entrata in vigore prevista nel 2011.

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