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GNOSIS 2/2009
LA CULTURA

RECENSIONI

Cosa Nostra senza veli: dal maxi-processo ad oggi


di Alain Charbonnier

 

Cosa Nostra raccontata da chi la vive tutti i giorni in forma antagonista, il Procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, l’uomo che ha raccolto l’eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e ne segna la continuità di entusiasmo e di impegno.
Un libro-intervista,
“Per non morire di mafia”, scritto insieme ad un grande giornalista, Alberto La Volpe, ex direttore del TG2.
In esso sono spiegati con chiarezza i meccanismi interni e i rapporti esterni dell’organizzazione mafiosa, per come li conosciamo. Grasso aiuta anche a capire la stagione dei “veleni” di Palermo, la “persecuzione” di Falcone, prodromica alle stragi di Capaci e di via D’Amelio e le loro valenze: vendetta, prevenzione, destabilizzazione.
L’arco di tempo, che va dalla stagione delle stragi alla strategia della “sommersione”, viene delineato in questo libro in modo da far comprendere la capacità di infiltrazione e di corruzione di Cosa Nostra all’interno della società. Non moriremo di mafia, ma la lotta sarà ancora lunga e, probabilmente, questo libro offrirà un valido contributo a chi intende impegnarsi nel contrastare Cosa Nostra.



Capire la mafia.
Un esercizio al quale negli anni si sono applicati poliziotti, magistrati, sociologi, giornalisti, scrittori. Dai tempi delle “fratellanze” di cui parla il Procuratore del Regno, Pietro Ulloa, in un suo rapporto del 1838, passando per il prefetto Cesare Mori, fino al maxi-processo di Palermo del 1986.
Tommaso Buscetta e la schiera di cosiddetti “pentiti”, giuridicamente definiti “collaboratori di giustizia”, con le loro rivelazioni hanno squarciato il velo del “mistero” che ammantava Cosa Nostra. Hanno consentito a investigatori e inquirenti di penetrarne i meccanismi più segreti, le gerarchie, i rapporti di forza. Tuttavia non sono riusciti a svelarne le concezioni, potremmo dire “l’ideologia” più profonda, che detta la strategia a lungo termine. Hanno consentito, però, l’individuazione delle tattiche, legate ai tempi correnti, al botta e risposta all’interno e fuori dall’organizzazione.
Questo ha portato all’attacco diretto nei confronti di Cosa Nostra smantellando, foglia dopo foglia, un sistema consolidato, prosciugando le fonti di finanziamento, mettendo fuori gioco capi e gregari, costringendo le “famiglie” a ricomporsi ogni volta che lo Stato le scompagina, il che accade sempre più spesso. Il venir meno di capi sperimentati consegna il potere a “picciotti” non ancora maturi, li trasforma in “reggenti” e li spinge a forzare la mano in termini di “pizzo”, per l’approvvigionamento finanziario.
Il meccanismo si ripete sempre uguale, nonostante i successi investigativi e giudiziari. Ogni volta, però, con maggiore accortezza e, senza nuovi “pentiti”, la comprensione del fenomeno rinnovato torna a farsi complicata.
Ci volevano un magistrato che, in venticinque anni, di mafia ne ha masticata molta e un giornalista che alla mafia ha sempre prestato attenzione, per scrivere un libro-intervista tutto da leggere: Pietro Grasso e Alberto La Volpe “Per non morire di mafia”, pagine 298, Sperling & Kupfer editore, 2009.
Pietro Grasso, oggi Procuratore Nazionale Antimafia, è stato uno dei protagonisti del maxi-processo ed estensore delle motivazioni di quella sentenza che, contrariamente a quanto era avvenuto fino ad allora, dimostrò che i mafiosi potevano essere processati e condannati proprio a Palermo. Alberto La Volpe, giornalista e parlamentare, da direttore del TG2 negli anni dello stragismo mafioso, volle e sostenne una serie di trasmissioni, “Lezioni di mafia”, che costituiscono un’opera storica, per quanto datata 1992, tutt’ora insuperata dal punto di vista televisivo.
Con un gioco di domande e risposte, Pietro Grasso e Alberto La Volpe si addentrano nell’universo mafioso con una precisa consapevolezza: la mafia non si arrende mai. Del resto, per anni, il bilancio negativo delle sentenze aveva creato sconcerto e frustrazione nei magistrati, nelle Forze dell’ordine e nell’opinione pubblica che, soprattutto in Sicilia, considerava la mafia intoccabile e irraggiungibile.
Il libro prende le mosse dal maxi-processo, dalle difficoltà logistiche, per il tempo, il numero degli imputati e le misure di sicurezza, compresa la difficoltà finale di trovare i giudici popolari e il Presidente della Corte d’Assise.
Oltre alle condanne e alla conferma dell’impianto accusatorio e, quindi, del cosiddetto “teorema Buscetta” sul funzionamento della Commissione, vale a dire il vertice di Cosa Nostra, l’importanza di quel processo risiede in almeno altri tre aspetti: dimostrò che i mafiosi, come abbiamo già detto, potevano essere processati e condannati in Sicilia; fece emergere la ferocia di Cosa Nostra; costrinse per la prima volta gli “uomini d’onore” a dichiararsi mafiosi e quindi ad ammettere l’esistenza stessa della mafia che, fino ad allora, era stata sempre negata, pur di scrollarsi di dosso l’infamia dell’omicidio di un ragazzino.
Lo mette bene in rilievo Pietro Grasso rispondendo alla domanda: Quale immagine della mafia uscì dal processo?
Nel secondo capitolo, l’intervista affronta l’ancora scottante questione degli sbarramenti frapposti al giudice Giovanni Falcone, gli attacchi insensati, le scelte di convenienza, gli abbandoni, le legittime aspettative del magistrato puntualmente deluse.
Pietro Grasso chiarisce uno dei punti che costarono a Falcone l’accusa di tirarsi indietro, di smentire se’ stesso: la questione del “terzo livello della mafia”.
Nella relazione “Tecniche d’indagine in materia di mafia” presentata da Falcone e Turone in un convegno del CSM – afferma Grasso – gli omicidi di mafia venivano distinti in più livelli. Il primo era quello degli omicidi usati come sanzione, per violazione delle regole da parte degli associati; il secondo quello di omicidi di capi, funzionali a cambiare gli equilibri di potere; il “terzo livello” quello degli omicidi che mirano a salvaguardare il perpetuarsi del sistema mafioso in genere…. Successivamente, soprattutto a opera dei mezzi d’informazione, l’espressione “terzo livello” venne usata con riferimento non più ai reati di mafia, ma all’organizzazione mafiosa nel suo complesso, alludendo all’esistenza di un vertice politico-finanziario, al disopra della cupola mafiosa, capace di condizionarne e dirigerne le attività. Falcone sosteneva che non esisteva un “terzo livello” come veniva rappresentato, ma qualcuno, interessato a delegittimarlo, gli contestava di aver negato, dopo averla affermata, l’esistenza del “terzo livello”.
Con l’aggiunta del sospetto che Falcone era stato costretto a dire così perché il “terzo livello” non gli avrebbe consentito di andare avanti nelle indagini o, peggio, arrivando quasi alla calunnia, che il giudice non aveva voluto colpire deliberatamente quel potere politico, perché colluso con esso. Ecco la delegittimazione.
Grasso non elude le domande e si sofferma sui rapporti fra mafia e politica e fra mafia e massoneria, sottolineando che soltanto alcuni capi furono autorizzati a entrare nelle logge, ma a condizione che “fra i due giuramenti di fedeltà e di segretezza prevalesse sempre quello mafioso”.
Quanto poi alla stagione delle stragi, gli attentati di Capaci, nel quale furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie e il suo autista e quello di via D’Amelio, che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta, secondo Pietro Grasso hanno una valenza diversa, rispetto a quelli dell’anno dopo a Roma, Firenze e Milano che sembrano completare il quadro strategico di Cosa Nostra in quel periodo.
Secondo il Procuratore Nazionale Antimafia, “i moventi delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono complessi e rispondono a una triplice logica: la vendetta, la prevenzione e la destabilizzazione”.
La vendetta è legata alle attività investigative e alla spinta propulsiva per far approvare nuove norme contro l’attività mafiosa. La prevenzione risiederebbe nella consapevolezza che le indagini di Falcone e Borsellino avrebbero, prima o poi, messo in luce “la rete di relazioni che coinvolgeva settori della politica, dell’imprenditoria e, perfino, delle istituzioni”. La destabilizzazione è, invece, legata a un vero e proprio progetto terroristico inteso a colpire lo stesso ministro della Giustizia, Claudio Martelli.
Grasso e La Volpe affrontano, poi, il tema scottante della presunta “trattativa” e del “papello” con le richieste che Salvatore Riina avrebbe presentato a un misterioso interlocutore, che si era “rifatto sotto”, come riferisce il pentito Giovanni Brusca. Quindi il rapporto mafia apparato politico-economico-istituzionale. E Grasso afferma: “non basta avere il riscontro di rapporti con singoli soggetti rappresentativi dell’entità esterna, ma è necessario dimostrare che tali rapporti, per loro natura, per i loro tempi, per la loro causa sono compatibili con il concorso nel reato e che tale concorso abbia avuto effettivamente luogo… Cosa Nostra pur avendo sempre avuto interessi propri, è stata contemporaneamente portatrice di interessi altrui ed entità esterne, in tantissime occasioni, hanno armato la sua mano”.
Ancora Pietro Grasso chiarisce: “Molto spesso i confini fra Cosa Nostra e gli altri poteri sono labili. La connivenza di Cosa Nostra con il sistema di potere, infatti, è molto di più che una semplice ipotesi investigativa. Ecco perché, lo ripeto, considerare Cosa Nostra un antistato è sempre stato un errore grossolano, così come è un errore presupporre che l’organizzazione sia infiltrata e abbia preso posizione in un vuoto di Stato.
Dopo le stragi, dopo gli arresti di capi e gregari, oggi la mafia è tornata alla politica della “sommersione” ed ha accentuato la “compartimentazione” per cui nessuno sa più di quanto deve sapere. Inoltre, è alla ricerca di una nuova credibilità, dopo che i “pentiti” ne hanno sfregiato la figura. Ne consegue, secondo Grasso, che “la scelta delle tecniche d’indagine più appropriate ai reati di mafia non può prescindere dalla conoscenza delle regole dell’organizzazione”.
La stagione delle stragi e la stagione degli affari. Grasso afferma che la “strategia dell’invisibilità” è funzionale all’incremento degli affari ed è il frutto di un ripensamento da parte dei mafiosi dopo il delirio stragista.
Per quanto riguarda il futuro, il Procuratore Grasso non si sbilancia, parla di “fase di transizione i cui esiti non sono sicuramente prevedibili”, vale a dire se continuerà la politica della sommersione oppure si andrà verso un periodo di instabilità all’interno dell’organizzazione, non escluso un ritorno ad attacchi contro esponenti dello Stato, individuati come punti di resistenza e di dissenso da abbattere.
La conclusione di Pietro Grasso è che non basta contrastare la mafia: “Bisogna ricostruire la democrazia nel Mezzogiorno e rafforzarla nel resto d’Italia, con l’impegno di tutti, sia dei cittadini, sia di coloro che rappresentano gli interessi dei cittadini nei partiti, nella politica, nelle istituzioni, nei sindacati, nei movimenti, nelle associazioni di categoria.
La ricetta giusta “Per non morire di mafia”.



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