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GNOSIS 2/2009
Seimila delitti l'anno nella guerra dei narcos

La 'Questione messicana': problema internazionale


Guido OLIMPIO


TIJUANA (Messico) 23 Gennaio 2009
Arresto di Santiago Meza Flores (Foto Ansa)
 
Da tempo i Governi e l’opinione pubblica hanno posto attenzione alla “questione messicana”: il dramma che il grande Paese centroamericano sta vivendo, attanagliato da crisi economica, guerra fra bande di narcotrafficanti e, ora, anche dall’epidemia di influenza suina. Un dramma che travalica il confine messicano e coinvolge in primo luogo i Paesi confinanti, a cominciare dagli Stati Uniti, ma può dilagare fino all’Europa.
Se la crisi economica e l’influenza preoccupano, è la guerra fra bande che devasta il paese, anche a causa della ricchezza prodotta dal fiume di droga che percorre il Messico e non soltanto in direzione degli Stati Uniti.
Con puntualità e ricchezza di dati Guido Olimpio delinea lo scenario messicano, le implicazioni con i Paesi vicini, i tentativi di espansione del traffico verso l’Europa, tramite l’alleanza con la criminalità organizzata italiana. Passa poi all’analisi degli strumenti messi in campo per tentare di fermare la corsa verso il baratro e avverte che per risollevare il Messico non bastano i sempre più sofisticati sistemi di repressione. I programmi della presidenza Calderon hanno bisogno del supporto e della collaborazione internazionale che passa, prima di tutto, per la riduzione della domanda di droga, ma anche per il freno al traffico di armi.



È come se sul Messico si fossero abbattute le “sette piaghe d’Egitto”.
Prima i contraccolpi della crisi economica mondiale con una drastica riduzione delle rimesse dei messicani andati all’estero e un calo dell’emigrazione del 26 per cento. Poi l’epidemia provocata dall’influenza A con danni considerevoli per la popolazione e per l’industria del turismo. Una prima valutazione, per difetto, parla di una perdita di 10-15 milioni di dollari ed una contrazione del 4,1 per cento del Pil. Probabilmente solo tra qualche mese si comprenderà il vero impatto. Nel “mezzo” l’esplosione della guerra tra i cartelli della droga, con una serie impressionante di omicidi e attentati. Fenomeno certamente non inedito per il grande paese centro-americano, tradizionale punto di passaggio per la coca che dalla Colombia raggiunge il mercato statunitense. Ma i numeri segnalano una pericolosa tendenza. Inoltre, suscitano negli osservatori internazionali interrogativi inquietanti. Il Messico diventerà nell’arco di pochi anni un narco-Stato? La strategia dell’attuale presidenza Calderon riuscirà a fermare l’avanzata del crimine organizzato? È possibile assistere il Paese a fronteggiare una minaccia che si propaga a macchia d’olio raggiungendo anche l’Europa?


L’allarme

Non esistono, per ora, risposte definitive alle domande poste da esperti e diplomatici. E non potrebbe essere diverso: si preferisce esaminare in prospettiva quello che sta avvenendo. I più preoccupati sposano la tesi di un paese sull’orlo del baratro. Altri guardano al passato. Il Messico ha vissuto momenti difficili e la violenza è ciclica se non endemica. Dunque, vi sono ancora margini di manovra. Certo è che in molte capitali, a cominciare da Washington, si seguono con attenzione – a volte eccessiva – gli eventi messicani.
Un rapporto, preparato dai militari americani, ha indicato il Messico e il Pakistan come i due Stati a rischio, dove un giorno gli Usa potrebbero essere costretti a intervenire in modo diretto. Si tratta, ovviamente, di scenari elaborati al computer e a tavolino. Sono però sempre valutazioni sostenute da numeri. Di morti ammazzati. Di droga trasferita per soddisfare un mercato insaziabile e inesauribile. In un sobborgo di Atlanta e nel centro di Milano, alla periferia di Londra o lungo le Ramblas di Barcellona.
Nel solo 2008 in Messico sono stati registrati 6290 delitti legati al narcotraffico. Nei primi cinque mesi del 2009 sono già 2300. All’11 marzo di quest’anno erano state contate 186 decapitazioni, una cifra mai raggiunta neppure nell’inferno iracheno e che oggi è stata ampiamente superata.
Il 90 per cento della cocaina diretta negli Stati Uniti transita lungo i “corridoi bianchi” aperti su diverse direttrici che tagliano la California, l’Arizona, il New Mexico e il Texas. I cartelli sono presenti in almeno 41 paesi, con punte significative sul territorio statunitense: tra 200 e 250 le località dove i trafficanti hanno piantato simbolicamente una loro bandierina. Nel “settore” sono impiegate 150 mila persone a tempo pieno e in modo diretto. Un esercito di informatori, “soldati”, killer, gregari, “spalloni” e luogotenenti divisi tra grandi famiglie e sotto clan. A loro si aggiungono 300 mila individui che si dedicano ai traffici di marijuana (il Messico è il secondo produttore dopo l’Afghanistan), oppio e anfetamine.
I profitti per i criminali oscillano tra i 10 e i 35 miliardi di dollari, a seconda delle stime. Una “ricchezza” confermata da una nota di colore: il “padrino” El Chapo Guzman è stato inserito quest’anno nella lista dei nababbi redatta dalla rivista americana “Forbes”. Un riconoscimento che ha offeso i messicani, ma che fotografa cosa siano i boss.
Le autorità, sotto la spinta del presidente Felipe Calderon, hanno lanciato una strategia più aggressiva che ha portato all’arresto negli ultimi due anni di 60 mila sospetti, in gran parte condotti dall’esercito. Un coinvolgimento delle Forze armate reso necessario dalla scarsa affidabilità dei tradizionali apparati di polizia. Molti agenti e dirigenti sono a libro paga dei padrini, i commissariati non hanno mezzi adeguati e in alcune zone di frontiera sono come dei piccoli Fort Apache assediati. Senza contare le decine di poliziotti assassinati e quelli costretti a cercare asilo politico negli Usa perché finiti sulla lista nera.
La collusione tra gang e investigatori non è purtroppo solo un’invenzione di Hollywood, ma un fatto concreto. Una complicità che spesso trasforma gli agenti in criminali puri, nel senso che svolgono un ruolo attivo. Se la militarizzazione dello scontro ha fornito alle autorità un mezzo efficace di risposta, dall’altro ha accresciuto i timori per le violazioni dei diritti umani. Nei primi giorni di maggio l’associazione “Human Right Watch” ha diffuso un rapporto indicando almeno 17 casi dove i soldati hanno compiuto “crimini” nei confronti di 70 persone. Eccessi da imputare all’atmosfera di emergenza, alla mancanza di addestramento specifico – i militari imparano a fare la guerra – e alla necessità di replicare alla sfida in un clima di sfiducia per le istituzioni.
La giustizia ordinaria, oltre a dover gestire una montagna di casi, è afflitta da lentezze e incrostazioni. Uno studio ha rivelato che su 100 persone arrestate, perché sospettate di aver commesso un crimine, solo 4 sono condannate. Lo show di forza, con lo schieramento di quasi 10 mila soldati nella sola Ciudad Juárez, una delle città chiave dello scontro insieme a Tijuana, ha portato risultati solo nel breve e medio periodo. Fonti diverse affermano che in quasi tutti gli Stati al confine con gli Stati Uniti il controllo delle autorità è messo in discussione. E spesso passa nelle mani dei banditi.
Parallelo a quello della droga, c’è il problema dei sequestri. Nel 2008 le statistiche ufficiali parlavano di 65 rapimenti al giorno ma è opinione generale che il numero sia molto più alto, in quanto molti casi non verrebbero denunciati alla polizia. Un’industria alla quale si dedicano i narcotrafficanti per incrementare i loro guadagni e piccoli criminali che si accontentano di poche centinaia di dollari attuando rapimenti-lampo.


L’inizio

Se oggi il Messico combatte questa battaglia lo deve a due eventi. Il primo è legato alla mossa del presidente Felipe Calderon – nel 2006 – di incalzare in modo vigoroso i cartelli e di trasformare la lotta al crimine nella sua bandiera. Al punto che taluni osservatori vi hanno scorto un’analogia con la “guerra al terrorismo” di George W. Bush, politica che ha segnato in modo significativo i due mandati repubblicani. Ma l’offensiva si è sviluppata in un teatro operativo instabile, con i gruppi mafiosi che, dopo aver cancellato patti e accordi, si sono scatenati in una faida senza fine.
Un processo di frantumazione – all’interno però di clan costituiti – che l’attacco dello Stato ha reso più aspro e che trova origine nel piano ideato otto anni fa da Joaquim El Chapo Guzman, allora tra i capi del Cartello di Sinaloa. Il padrino lo vara dopo la sua rocambolesca evasione in un camioncino della lavanderia, il 19 gennaio 2001. Una fuga provvidenziale che impedisce la sua imminente estradizione negli Stati Uniti e sulla quale sono circolate molte versioni. Compresa quella che sia stata agevolata per favorire un suo ritorno sulla scena, in modo da contrastare le altre gang.
Di sicuro, Guzman, una volta libero, si rifugia dai fratelli Beltran Leyva – oggi suoi acerrimi rivali – e si appoggia ad un altro caid, Ismael El Mayo Zambada. In primavera – secondo quanto emerge da documenti ufficiali – El Chapo convoca un summit a Monterrey (Nuevo Leon) al quale partecipano El Mayo, Arturo Beltran Leyva e Zambada. Viene stabilito di eliminare Rodolfo Carrillo Fuentes, detto El Nino de Oro, fratello di Vicente e big del Cartello di Juárez, quindi di sterminare i Los Zetas, organizzazione di killer reclutati dal Cartello del Golfo. L’obiettivo è quello di imporre la supremazia di Sinaloa nel controllo del traffico di coca. Una ripetizione di quanto aveva già fatto nel 1989 nei confronti del Cartello di Tijuana.
Il disegno di Guzman si avvera. Nel settembre 2004 i sicari eliminano Rodolfo Fuentes e nel contempo si sviluppa la lotta fratricida, con cambi di alleanze, tregue e uccisioni. Il sangue scorre lungo il confine con gli Usa, negli stati che si affacciano sul Pacifico e in quelli nella parte nord-orientale del Golfo, con lampi fino allo Yucatan.
Il conflitto inter-messicano si è rapidamente esteso nel corso degli ultimi due anni sia all’interno degli Stati Uniti che verso Sud. Bande legate – a vari livelli – con le organizzazioni messicane si scontrano in città come Vancouver (Canada) o Atlanta (Usa). Il contagio ha raggiunto e si è diffuso in Guatemala, un paese dove ancora non si sono rimarginate le ferite della guerra civile (16 morti al giorno), e in Salvador. Esplosioni di violenza sono segnalate in Perù, Bolivia, Argentina, Paraguay. È sempre il cartello di Sinaloa ad allungare i suoi tentacoli proteggendoli con killer e team di fuoco.
Il nodo è il solito: il controllo del mercato, lo smercio e il trasporto della droga, la creazione di avamposti di illegalità. I messicani tendono a stipulare accordi operativi con reti locali, ma in altre occasioni cercano di imporre le loro regole.


I cartelli

Il narcotraffico, come abbiamo ricordato, è gestito da un gruppo di famiglie che spesso si riconoscono in un “cartello”. Vediamo i principali, con i rispettivi leader.

Sinaloa
– È oggi il più importante e raccoglie sotto le sue insegne diverse associazioni criminose. Sotto la guida ferrea e spietata di El Chapo, vuole mantenere la propria posizione di supremazia e spingere i rivali ai margini. Per gli esperti quelli di Sinaloa sono considerati i “fondatori” del narcotraffico. Agli inizi sfruttavano i campesinos che coltivano la marijuana e la capitale regionale Culiacan era considerata la patria dell’oppio. Poi, in combutta con i colombiani, si sono dedicati – in parte – alla cocaina, mettendo insieme organizzazioni diverse. È il gruppo più ricco, investe i guadagni in attività commerciali, si protegge in modo aggressivo, mostra dinamica e inventiva nel mettere a punto sistemi per esportare la polvere. El Chapo, che secondo alcune fonti si sarebbe sottoposto ad una plastica facciale, è diventato famoso per aver fatto costruire una rete di tunnel realizzati sotto il confine Messico-Usa. Il cartello ha, a libro paga, centinaia di informatori, tra loro molti esponenti delle Forze dell’ordine.
Altro personaggio del clan è Ismael El Mayo Zambada che ha coniugato il racket dell’eroina con quello della coca. Bravo nel tessere rapporti, ha “lavorato” a lungo con il clan di Ciudad Juárez ed in particolare, come Amado Carrillo Fuentes, conosciuto come “il signore dei Cieli”, per la flotta di aerei impiegati nel trasferimento della droga. Una collaborazione conclusasi nel 1997 dopo il decesso, durante un’operazione di chirurgia plastica, di Fuentes. Gli americani hanno messo sulla testa di Ismael, detto anche “il re”, una taglia di 5 milioni di dollari. Come altri boss avrebbe cambiato i propri connotati facciali. Nel marzo di quest’anno la polizia è riuscita ad arrestare il figlio Vicente, considerato una delle menti economiche.
El Chapo, per parte sua, ha visto assassinare il figlio Edgar per mano di un commando appartenente al clan Leyva. Protetto da complicità estese e da un efficiente apparato di sicurezza, Guzman si nasconderebbe a Guanacevi, 300 chilometri a nord est di Durango. A rivelarlo, alla metà di aprile, è stato il vescovo Hector Martinez che ha anche aggiunto: “Lo sanno tutti”.
All’interno di Sinaloa si muove Arturo Beltran Leyva, detto El Barbas. Per anni alleato di Guzman, oggi ne è un feroce avversario, anche se le notizie di guerra si alternano a quelle di tregue possibili (l’ultima risale al gennaio 2009). Leyva si è conquistato una fama sinistra per l’uso di team “cerca e uccidi”, a volte composti di giovanissimi membri della Mara Salva Trucha, la temuta gang salvadoregna presente in tutto il continente americano. Il boss ha condotto attacchi spietati contro le Forze dell’ordine e quando ha potuto si è comprato il loro appoggio. Alla fine del 2008 un’inchiesta ha scoperto che alti funzionari ricevevano 450 mila dollari al mese in cambio delle informazioni che passavano ai banditi. Nei primi mesi di quest’anno Leyva ha denunciato il tacito cessate il fuoco raggiunto con i Los Zetas (Golfo) ed ha scatenato i suoi uomini in una terribile caccia all’uomo nella regione di Jalisco. Episodi minori del Grande Gioco della droga ma che danno l’idea dell’instabilità.

Golfo
– Sotto questa etichetta si radunano i trafficanti che hanno le basi nell’est del paese e nello Yucatan. La banda trae origine dai contrabbandieri di alcolici, molto attivi negli anni ‘30, e si è poi convertita negli anni ’70 ai narcotici, su iniziativa del clan Abrego. Due decenni dopo, si è associato al gruppo un nucleo di soldati delle unità speciali: sono così nati i Los Zetas, i killer del Golfo di cui parleremo più avanti. Per anni il capo riconosciuto del cartello è stato l’ex meccanico Osiel Cardenas. Ma dopo il suo arresto nel 2003 e la conseguente estradizione negli Usa, la posizione è stata assunta dal fratello Ezequiel, mentre Heriberto Lazcano è il responsabile dei Los Zetas.

Tijuana
– È animato dalla famiglia Arellano ed ha il suo regno in Bassa California, uno dei punti di transito preferiti per avviare la droga verso il territorio americano. Miguel Felix Gallardo ne è stato per anni il faro, funzione poi passata ad altri, in seguito alla sua cattura. Fino agli anni ’80, il clan faceva parte di Sinaloa, poi si è messo in proprio, riuscendo a difendere la propria posizione nonostante le operazioni della polizia e gli attacchi pesanti degli avversari. La DEA americana ha calcolato che nel periodo d’oro la gang riuscisse a incassare circa 200 milioni di dollari alla settimana. Il vertice è nelle mani di Fernando Arellano, di Manuel Galindo “El Caballo” e di Enedina Arellano, una contabile esperta che dirige un vasto impero economico in California. Hotel, farmacie, piccole imprese, negozi garantiscono un reddito importante.
Il cartello, oltre ai nemici esterni, deve guardarsi alle spalle. I colpi più duri li ha subiti da un ex luogotenente, Teodoro Garcia Simental, detto “Teo” o “Tres letras”, le tre lettere di Teo appunto. Una sigla usata dai suoi uomini per firmare gli omicidi. Simental si è separato dall’organizzazione madre perché era stato accusato di compromettere gli affari con una campagna indiscriminata di sequestri, taglieggiamenti e omicidi. Costretto a nascondersi per qualche settimana, è poi tornato a Tijuana sfidando i suoi capi. Teo si è guadagnato la fama di uomo crudele: agiva ai suoi ordini Santiago Meza, “il cuoco”, un uomo che ha confessato di aver sciolto i cadaveri di almeno 300 nemici. Da tempo Simental si muove d’intesa con Sinaloa ed ha formato una sua “guardia privata” affidata a Raydal Lopez Uriarte, alias Muletas, che ha fatto preparare persino delle divise su cui hanno cucito la parola “Fem”: in spagnolo le forze speciali di Muletas.

Juárez
– Prende il nome da Ciudad Juárez, città gemella con la texana El Paso. Con ben 1600 omicidi nel 2008 è uno dei luoghi più violenti del paese: un primato legato alla presenza di trafficanti di uomini, di armi e di droga. Come si è detto in precedenza la zona è stata un feudo dei Carrillo Fuentes, con Ernesto Fonseca e, quindi, Amado Carrillo. La gang è guidata da Vicente che deve però rintuzzare gli assalti di altre formazioni, in particolare quella di Sinaloa che è riuscita a portare dalla sua parte alcuni “ufficiali”. A metà degli anni ’90 “Juárez” era considerato il principale gruppo criminale, capace di trasferire quantità ingenti di droga negli Stati Uniti. Secondo una versione Amado Carrillo sarebbe deceduto durante un intervento di chirurgia plastica e sarebbe stato riconosciuto dalle impronte digitali, anche se non tutti sono convinti dell’identificazione. Altro aspetto: i medici che lo hanno operato sono stati assassinati.

Milenio
– Molto attivo negli anni ’90, è stato diretto dai fratelli Valencia, legati agli Arellano Felix. La “specialità” era il trasporto di coca a bordo di pescherecci. Oggi opera a Nuevo Leon, Jalisco, Colima, Michoacan ma deve fare i conti con formazioni più aggressive e potenti. Fonti di polizia segnalano rapporti discreti con “Tijuana” e “Sinaloa”. In sostanza, i banditi sono autorizzati a gestire i loro traffici locali senza però espandere il mercato.

Colima/Famiglia Amezcua Contreras
– Il clan, presente in almeno sette Stati, si dedica alla produzione e alla diffusione della droga sintetica. Importa le sostanze necessarie da Europa e Asia, quindi le lavora in laboratori presenti a Colima e Jalisco, infine muove la droga in Bassa California, prima dell’ultimo salto verso gli Usa. All’interno dei confini americani lo smercio è garantito dalle gang urbane e in particolare quelle dei motociclisti. Un particolare: i capi riconosciuti, Josè de Jesus e Adan Amezcua Contreras, sono detenuti ma ciò non impedisce ai complici di proseguire nelle attività illecite.

El Nacho
– Originario di Veracruz, 55 anni, criminale esperto, Ignacio Villareal Coronel, alias El Nacho, è considerato il re delle anfetamine, prodotte in una serie di covi creati nel nord-ovest del Messico. Negli anni ’80 collabora con i Carrillo Fuentes e si occupa della logistica che assicura le spedizioni di droga con piccoli aerei. Poi, alla morte di Amado Fuentes nel 1997, si tiene in disparte dalle faide, sviluppando i propri interessi nello Yucatan e nella regione di Sonora. Rientra nel grande giro per occuparsi degli aspetti finanziari della “Federazione”, dove sedevano la maggior parte dei boss. Posizione che occupa fino al 2004 quando, in seguito alla fine della Federazione, si dedica con maggiori energie al mercato delle anfetamine. Crea un buon numero di “super laboratori” che gli permettono di soddisfare la grande domanda che arriva dagli Usa. Per questo è nel mirino dell’FBI e della DEA. Dispone di numerosi rifugi nello stato di Jalisco e nello Yucatan, però preferisce nascondersi in alcuni villaggi a sud di Durango.

Istmo
– È il cartello che ha la sua roccaforte nel pittoresco stato di Oaxaca. I suoi “prodotti” sono sia la coca che la marijuana. L’organizzazione nasce negli anni ’70 su iniziativa di Pedro Diaz Parada, che usa una flotta di piccoli velivoli e motoscafi. Viene arrestato nel 1985 e condannato a 35 anni di galera. Una sentenza che non lo spaventa. Replica al giudice con queste parole: “Io scapperò e tu morirai”. Non è una minaccia ma una profezia. Qualche settimana dopo riesce a fuggire e nell’87 il giudice Pedro Gallegos che lo aveva condannato viene assassinato nella cittadina di Cuernavaca, ben distante da Oaxaca. Per dieci anni Parada gestisce il cartello senza subire colpi eccessivi. Poi, finalmente, nel 2007 è di nuovo arrestato.

La Familia
– È una delle ultime organizzazioni a comparire sul teatro messicano ed ha le sue basi nella regione di Michoacan. Per le autorità si è formata nel 2004. I primi rapporti indicano che nasce per contrastare il passaggio dei Los Zetas o, come sostengono alcune fonti, per difendere i propri interessi (illeciti). Due anni dopo però le posizioni si fanno meno nitide. C’è chi collabora con i Los Zetas e chi invece continua la battaglia.
Poi nel corso del 2008 si sarebbero prodotte delle micro-scissioni con la dirigenza storica – i “Los Sierras” – e i loro seguaci divisi in quattro spezzoni: Los Historicos, rimasti con i Los Zetas; Los Extorsionistas, commercianti e agricoltori interessati a imporre tangenti su qualsiasi attività nella regione di Michoacan; Los Cobradores de deudas, alleati con il Milenio e Sinaloa; un quarto filone che si dedica al racket dei film piratati.
La Familia, rispetto ai concorrenti, presenta alcune peculiarità. Innanzitutto si presenta come una paladina dei cittadini nei confronti dei criminali, anche se poi delinque. La leggenda che vuole tramandare, anche con interventi su Internet, è che agisce in nome della sicurezza. Nella realtà taglieggia il prossimo, decapita i nemici e almeno in un caso è ricorsa a forme di terrorismo: il lancio di granate sulla folla radunata in una piazza di Michoacan. Un attacco rinnegato dai capi e attribuito agli avversari ma che la polizia ritiene sia invece da imputare alla Familia.
Il secondo elemento è il carattere “para-religioso”. Il suo leader, Nazario Moreno, ha preparato una sorta di bibbia dove prescrive rettitudine, comportamenti morali, rispetto del prossimo, rifiuto dell’uso di droghe e di bevande alcoliche. E molti dei suoi luogotenenti si atteggiano a “pastori” che curano le anime e gli interessi della popolazione.
Il terzo aspetto è quello dei narco-messaggi. La Familia, più degli altri, dissemina poster e striscioni con avvertimenti, minacce, comunicati rivolti ad avversari e autorità. A maggio, ad esempio, compare un messaggio dove i criminali accusano dei funzionari di polizia di trattare male i congiunti di alcuni trafficanti. Il giorno dopo uno degli ufficiali viene assassinato, con lui l’intera famiglia. Tra le vittime anche dei bambini.


Le milizie

I cartelli hanno ai loro ordini mini-eserciti con un alto potenziale di fuoco. Li usano per incutere terrore, attaccare lo Stato, neutralizzare gli avversari. La manifestazione più evidente di ciò è rappresentata dai Los Zetas, nati come braccio armato del cartello del Golfo. A metà degli anni ’90, l’organizzazione recluta una trentina di militari appartenenti al Gafe (Grupo Aeromovil de Fuerzas Especiales) che seguono il loro superiore, il colonnello Arturo Guzman Decena. Si tratta di soldati bene addestrati, che hanno seguito corsi tenuti da consiglieri stranieri, in grado di condurre un assalto a un edificio protetto e di impiegare qualsiasi tipo di arma. Dai fucili di precisione all’esplosivo. Nel tempo i Los Zetas crescono nel numero, arrivando a diverse migliaia di seguaci messicani e centro-americani. Tra questi ultimi spiccano i Kaibiles, ex membri delle unità speciali guatemalteche. E il gruppo, dopo l’uccisione nel 2002 del fondatore, passa sotto la direzione di Heriberto Lazcano al quale si aggiunge in seguito Ezequiel Cardenas Guillen, alias Tony Tormenta, fratello del boss Osiel (detenuto dal 2003 negli Usa). I due sono riusciti a mantenere una qualche forma di controllo, anche se non vi è dubbio che oggi i loro adepti si muovano in modo semi-indipendente. Nuevo Laredo resta la “zetaland” ma i “soldati” hanno progressivamente esteso il campo d’azione entrando direttamente nei traffici. Droga, sequestri, traffici di petrolio e benzina. Gli esperti affermano che i Los Zetas sono stati rimpiazzati dalla cosiddetta Organizzazione Los Zetas, ossia un network di cellule autonome con diramazioni in numerose regioni messicane. Degli originali 31 membri ne restano pochi vivi o in libertà e ciò ha favorito la crescita di “giovani leoni”. In comune hanno la passione per le armi, la crudeltà, la volontà di stare sempre all’offensiva.
Un rapporto delle autorità giudiziarie messicane (dicembre 2008), redatto con l’aiuto di alcuni arrestati, ha illustrato la struttura tradizionale dei Los Zetas. Non è chiaro quanto corrisponda alla realtà sul campo, tuttavia è interessante riportarla perché offre uno spaccato sulla rete. Qui, in breve, l’ordine di battaglia partendo dal basso.
“Halcones”: le pedine, incaricate di spiare quanto avviene nel loro quartiere e nella città.
Le sentinelle: gestiscono rifugi ed eventuali negozi usati come punti di appoggio.
Los Cobras: sono incaricati della sicurezza interna, dotati anche di armi “lunghe”.
Zetas nuevos: sono i componenti dei gruppi di fuoco, hanno a disposizione un arsenale impressionante (Kalashnikov, lanciagranate, mitragliatrici, Ar 15, fucili di precisione Barrett). Tra loro ci sono molti Kaibiles e qualche veterano del gruppo iniziale. Spetta a questa unità il compito di condurre i raid più difficili e rischiosi.
Cobras Viejos: veterani di medio livello, esercitano la loro autorità sui Cobras più giovani. Hanno rapporti operativi con il clan Leyva.
Zetas Viejos: sono superstiti del nucleo fondatore, la vecchia guardia.
Los Escorpiones: si tratta di un “reparto”, composto da civili ed ex militari, che agisce al di fuori della struttura e legato direttamente a Tony Tormenta.
Anche gli altri cartelli, senza arrivare alla sofisticazione dei Los Zetas, dispongono di sicari, ai quali affidano i lavori sporchi. Sinaloa mette in campo i “Pelones” e soprattutto la “Gente Nueva”. Sui 25-30 anni, si muovono in team da quattro ed hanno la missione di contrastare il territorio ai nemici de “La Linea”, picciotti arruolati da quelli di Juárez.
Nella regione di Michoacan opera, infine, la “polizia” de “La Familia”, banditi con tanto di divisa e auto di “servizio”. Aspetto comune è il ricorso ai baby-killer, spesso attivi nelle città di frontiera americane. Ragazzini pronti ad uccidere per poche migliaia di dollari e poi ricompensati con il passaggio nel cartello. Non diverso il coinvolgimento di elementi di bande come gli “Aztecas” (alleati del cartello Juarez) e gli Ms 13.
Fenomeno preoccupante – anche se su un altro versante – quello dei vigilantes. In alcune zone è attiva una formazione, El Grupo, che conduce una guerra personale contro i sequestratori. Svolge trattative per conto delle famiglie, garantisce la sicurezza e molto spesso interviene in modo brutale per neutralizzare bande di rapitori.


Le rotte

Per rifornire la piazza americana i trafficanti usano qualsiasi mezzo possibile, alternandolo a seconda dei controlli e delle necessità. La via aerea resta tra le più importanti. Bimotori a turbina e jet portano la coca dalla Colombia in Messico e qualche volta direttamente negli Usa. Poi il carico passa su camion o vetture. Le autorità messicane hanno rivelato che, nel periodo 2006-2009, i narcos hanno utilizzato 2384 piste clandestine, delle quali 239 nello stato di Chihuahua. In talune occasioni, sono ricorsi agli ultraleggeri per trasferire quantità ridotte di marijuana nel territorio americano. Un sistema però rischioso per i piloti e che non consente di trasportare troppa “erba”. Gli aerei sono di solito acquistati grazie all’aiuto di prestanome e intermediari che risiedono negli Stati Uniti. Non meno di 50 velivoli usati dai cartelli avrebbero un’origine americana. Una realtà emersa sia da inchieste giornalistiche che da procedimenti giudiziari conclusisi con condanne in tribunali. Aerei più piccoli sono invece trafugati da piste private messicane e statunitensi.
La rotta terrestre si sviluppa su direttrici diverse. Sinaloa ricorre alla famosa Carretera Panamericana, con punti di appoggio a Panama e Salvador. Il Golfo ha l’asse Colombia-Guatemala, protetto nel secondo paese dai Kaibiles. I maggiori controlli di Messico e Stati Uniti avrebbero indotto i banditi a cercare altre vie e a puntare, per le grandi quantità, anche sulla rotta marittima. In particolare nel lato del Pacifico esiste il famigerato “corridoio dei contrabbandieri” che unisce Ensenada a Del Mar. La droga può essere portata direttamente sulle coste americane con piccoli mercantili, battelli turistici e pescherecci. L’intenso movimento di barche da diporto rappresenta una buona copertura e costringe la Guardia Costiera a minuziosi controlli. Per le quantità maggiori i banditi ricorrono ai “go-fast” (motoscafi veloci), cargo e ai semi-sommergibili.
Quest’ultimi hanno rappresentato la vera novità. Costruiti in Colombia, spesso in fibra di vetro, possono ospitare 10-12 tonnellate di cocaina e 4 uomini di equipaggio. Hanno un raggio operativo fino a 5 mila chilometri. Il loro costo oscilla tra i 500 mila e il milione di dollari. Procedono sotto il pelo dell’acqua lasciando fuori pochi centimetri di scafo: questo li rende difficili da individuare. O meglio questo è quello che veniva fino ad un anno fa. La Us Navy e le Marine militari dei paesi rivieraschi ne hanno intercettato un buon numero – è accaduto ad esempio in maggio al largo della Colombia – con l’aiuto della sorveglianza aerea e grazie a informazioni dell’intelligence. Lo schema operativo è complesso e semplice. Il narcosub si ferma sotto costa, trasborda i “pacchetti” su imbarcazioni leggere e, quindi, viene affondato. L’equipaggio rientra in aereo in Colombia pronto per una nuova missione.
I narcotici sono quindi tenuti in depositi e poi portati negli Usa attraverso i valichi di frontiera legali o, dove è possibile, in aree meno sorvegliate. Le gang sfruttano l’enorme flusso di veicoli che quotidianamente si dirige verso gli Usa. Un dato che aiuta a comprendere le possibilità: ogni anno entrano 4,6 milioni di camion. Impossibile controllarli tutti. Ancora più difficile se si considerano le normali vetture. Per dare un’idea è sufficiente citare il sequestro a maggio di un Tir con a bordo 10 tonnellate di marijuana.
Una volta superata la frontiera, i carichi seguono le grandi arterie che portano verso il Canada o nel cuore del Mid West e lungo le quali le bande hanno stabilito basi e accordi.
Infine, vanno ricordati i tunnel che bande specializzate costruiscono sotto il confine. Ve ne sono di costosi, dotati di luce, impianto di aerazione e dove è possibile per il trafficante camminare eretto. Altri sono più rustici, si procede a carponi, ma sono sufficienti per far passare i sacchi di stupefacenti. Nogales (Arizona) e alcuni settori del confine in California sono i punti dove è stato registrato il più alto numero di gallerie.


Il grande vicino

La questione messicana è diventata un tema internazionale non solo per l’obiettiva gravità ma anche per la grande attenzione dell’amministrazione guidata da Barack Obama. Con un crescendo di dichiarazioni e prese di posizione, i rappresentanti statunitensi hanno sottolineato la pericolosità per la sicurezza nazionale. Una denuncia motivata, indicando i seguenti rischi: l’attività dei narcos sul territorio Usa; i legami con organizzazioni criminali americane; i possibili rapporti tra immigrazione clandestina e banditi.
Le analisi rammentano omicidi e rapimenti avvenuti in California o Arizona, con un evidente collegamento con le bande originarie del Messico. Sottolineano le ramificazioni dei cartelli con Atlanta, trasformata nella base di quelli del Golfo. A febbraio l’Fbi ha condotto l’operazione “Xcellerator” con 750 arresti (seguaci di Sinaloa), seguita da un’altra retata – 175 i mandati di cattura – contro uomini del Golfo. Indagini per tenere a freno le incursioni dei gangster nelle cittadine sul confine statunitense: El Paso, Colombus, Laredo, solo per citare alcune località. Un allarme sintetizzato da un dato. Il Dipartimento della Giustizia ha diffuso nella primavera di quest’anno un rapporto dove si precisa che non meno di 20 gang giovanili o urbane degli Stati Uniti sono in affari con i trafficanti per conto dei quali gestiscono il 58% del mercato.
Con grande ritardo, l’amministrazione Usa ha poi riconosciuto il cuore del problema: l’enorme domanda di cocaina. I cartelli fanno miliardi perché ci sono migliaia di persone oltre la frontiera pronte a pagare per la dose. Anche se nel 2008, dicono le statistiche, c’è meno coca nelle strade delle città americane. Una riduzione da imputare alla guerra tra i criminali e ai controlli delle Forze di sicurezza.
Risultato: dal 2006 il prezzo al dettaglio è aumentato del 41 per cento, passando da 87 a 123 dollari al grammo. I critici aggiungono, però, che gli Stati Uniti hanno fatto poco per togliere il grande desiderio. Nel 2008 il governo federale ha speso 13.6 miliardi di dollari per il controllo degli stupefacenti. Un budget così ripartito: 64 per cento in favore delle attività di repressione, 34 per la prevenzione e cura.
Sempre sotto la Presidenza di George W. Bush è stato varato un piano di sostegno al Messico che prevedeva l’invio di materiale, mezzi, tecnologia destinato agli apparati di sicurezza del vicino. Il Congresso, controllato dai democratici, ha approvato solo un primo stanziamento riducendo l’assegno da 450 a 300 milioni di dollari, adducendo le scarse garanzie sull’effettivo uso dei fondi. Una parsimonia che ha sollevato non poche polemiche da parte delle autorità messicane che hanno sollecitato Washington ad agire non solo per frenare la domanda ma anche per stroncare il flusso di armi in favore dei narcos. Il cosiddetto “fiume di ferro”.
Sono di nuovo le statistiche a parlare: ogni giorno, in direzione del Messico, passerebbero duemila bocche da fuoco di origine statunitense. Sfruttando la mancanza di norme rigide nella vendita di armi, i boss incaricano persone di fiducia di acquistare mitra, pistole, munizioni, fucili di precisione, materiale militare nelle armerie di Texas, Arizona, New Mexico. Il risultato è che oltre il 90% dell’arsenale dei criminali ha origine negli Stati Uniti. Le accuse non paiono esagerate. È sufficiente leggere i comunicati rilasciati dall’esercito per precisare le confische. Il presidente Obama e i suoi consiglieri sono consapevoli della delicatezza del tema e vorrebbero fare di più. Ma si scontrano con la poderosa lobby delle armi e con gli ambienti conservatori per i quali l’imposizione di controlli più rigidi toccherebbe il secondo emendamento.
Deciso comunque a lanciare un segnale, il capo della Casa Bianca – che ha visitato in aprile Città del Messico – ha promesso un impegno più marcato. Sarà potenziato il muro virtuale – sensori, telecamere, pattuglie – in alcuni tratti del confine. La Border Patrol riceverà nuovi mezzi e, se sarà necessario, verrà mobilitata la Guardia Nazionale. La National Geospatial Intelligence Agency, in collaborazione con la Nsa, ha ampliato la ricognizione con i satelliti spia. Misure che rappresentano un inizio e non la fine di un progetto che ha bisogno di ben altre risorse. Strategie alle quali guardano anche i partner europei viste le interconnessioni del grande crimine.
Un link emerso in un’inchiesta che ha portato a lavorare insieme la DEA americana e i carabinieri del Ros di Reggio Calabria, coordinati dal procuratore antimafia Gratteri. L’operazione “Solare” ha permesso di neutralizzare un’associazione criminosa che aveva messo insieme N’Drangheta calabrese e cartello del Golfo, con New York usata come snodo. Un segnale che i nostri mafiosi vogliono aprirsi a nuove collaborazioni e che quelli messicani desiderano inserirsi in Europa. Un evento nuovo che è studiato con notevole apprensione da magistratura e Forze dell’ordine.



Conclusione

Come per il terrorismo internazionale, la risposta all’emergenza deve essere locale e globale. Perché è innegabile che il Messico sia solo un tassello di un mosaico criminale più complesso. La coca arriva dal Sud America – Colombia, Bolivia, Venezuela – ma si muove lungo mille fiumi che la portano sulle coste dell’Africa occidentale, negli Usa, in Europa. Un affare al quale partecipano i cartelli messicani, le bande serbe, gli spacciatori nigeriani e le cosche italiane. Una multinazionale che richiede una contro-azione di eguale livello. Il Messico ha bisogno della collaborazione esterna fatta di tecnologia, informazioni, consulenze, scambio di dati. Ma l’aiuto non può cadere dal cielo né imposto soltanto perché “temiamo il contagio”. Vanno rispettate la sensibilità nazionale, l’orgoglio e la sovranità di un paese in difficoltà che, tuttavia, sta cercando di reagire.
Nel contempo è giusto chiedere che il Messico accetti la mano tesa di altri Stati – e organismi di sicurezza – senza che ciò significhi una rinuncia alle proprie prerogative. La collaborazione – come per l’antiterrorismo – deve essere una strada a due sensi. Altrettanto fondamentale – ma non perché lo domandino gli stranieri – che le autorità continuino a troncare, con decisione, quei legami che aiutano i narcos ad avere protezioni insospettabili o sospettabili. Così come è indispensabile che le autorità riacquistino il pieno controllo in aree dove i trafficanti hanno margini di manovra inaccettabili. Un processo che deve avvenire nella legge e per la legge, senza cedere alla tentazione di trovare scorciatoie. Un’iniziativa che non deve e non può fermarsi davanti a quelle protezioni che, come riconoscono gli stessi messicani, hanno favorito gli avversari della convivenza civile. La clamorosa evasione dal carcere di Zacatecas, in maggio, con 53 pericolosi criminali che se ne vanno indisturbati, è la prova di come le collusioni siano estese.
E la politica del contenimento riguarda, come abbiamo visto, anche gli Stati Uniti, dove l’uso degli stupefacenti è una questione più sociale che di ordine pubblico. Dunque anche a nord del Rio Grande serve un’azione nuova. In tre direzioni: contenimento del consumo, repressione dei traffici d’armi, controllo sulle grandi somme di denaro che vengono riciclate negli Usa e poi tornano – spesso in contanti – in Messico.
Quindi, in conclusione, va riconosciuta l’esistenza di una questione messicana. Sono tanti gli indicatori che lo confermano e sarebbe ingenuo far finta di nulla. Altrettanto pericoloso sarebbe presentare il Messico come un’entità ormai persa. Violenza e narcos non sono nati nel 2009, rappresentano un’eredità di un passato difficile, con il quale il paese è riuscito a convivere. Certo, se i cartelli non saranno stroncati si potranno aprire scenari ben più cupi. Dunque è ragionevole dare fiducia a chi sta provando a sbarrare il passo ai criminali. Negarlo sarebbe un favore a chi sogna di costruire un impero di polvere bianca.



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