GNOSIS 1/2009
Evoluzioni di Cosa Nostra La nuova vecchia mafia |
Alfonso SABELLA |
Che fine ha fatto Cosa nostra? Dov’è adesso quella che, fino ad appena dieci anni fa, era ritenuta la più pericolosa organizzazione criminale dell’intero mondo occidentale? La domanda è più che legittima: il sodalizio criminoso siciliano sembra letteralmente scomparso, decimato dai duri colpi che gli sono stati inflitti dallo Stato, con quasi tutti i suoi uomini di punta dietro le sbarre, dal 41 bis con “fine pena mai”, con i suoi segreti svelati da pletore di “infami pentiti” o da incauti capi emergenti, come Salvatore Lo Piccolo, che giravano con “il manuale del perfetto mafioso” in tasca. Niente più morti ammazzati per le strade di Palermo, nessun quintale di cocaina purissima o di morfina base da raffinare, sbarcata lungo le coste siciliane, nessun magistrato, carabiniere, poliziotto oggetto di minacce o di attentati, nessun altro atto eversivo contro il patrimonio artistico del Paese, niente più milioni di dollari in transito tra discutibili banche locali e paradisi fiscali e giuridici. E niente più arsenali con quintali di Semtex e T4, lanciamissili Stinger, lanciagranate anticarro e centinaia di Kalashnikov, nessuna faccia di latitante pubblicata sulle copertine delle riviste straniere, a “infangare” il buon nome dell’Italia, pochissimi i danneggiamenti ai cantieri edili. Si contano sulle dita di una mano le intimidazioni ai commercianti e persino a Palermo adesso c’è un’associazione antiracket. La risposta potrebbe essere estremamente semplice: Cosa nostra è stata letteralmente sconfitta. La mafia non esiste più morta e sepolta sotto il peso di arresti, condanne all’ergastolo e sequestri di armi e di beni. È rimasto solo qualche vecchio nostalgico o qualche giovane testa calda a coltivare la chimera della ricostituzione di un sodalizio ormai agonizzante e totalmente privo di appeal per i giovani siciliani, sempre più simili ai loro coetanei del Nord e per i quali l’aspirazione di salire di status sociale, diventando uomini d’onore, non passa neanche per la testa. Chi sostiene questa tesi ha, obiettivamente, parecchi argomenti a favore e pochissimi contro, ma questi ultimi, a mio giudizio, risultano ancora, purtroppo, insuperabili. Era il 7 giugno del 1997. Nel parlatorio del carcere dell’Ucciardone, quale Pubblico Ministero della Direzione Antimafia di Palermo, stavo interrogando Pietro Aglieri, ‘U signurinu, il braccio destro di Bernardo Provenzano, “l’italiano più famoso all’estero”, come era stato definito in un articolo comparso sulla prima pagina del giornale inglese “The Guardian”. Latitante da oltre dieci anni, lo avevamo arrestato il giorno prima in un casale di Bagheria. Nel suo covo avevamo trovato una cappella privata ed eravamo giunti alla sua cattura anche pedinando un religioso che gli andava a dir messa a domicilio. Pensavo che potesse essere disponibile a collaborare con la Giustizia, ma il boss mi aveva gelato: «Vede, dottore, quando voi venite nelle nostre scuole» – mi disse proprio così, nostre scuole – «a parlare di legalità, di giustizia, di rispetto delle regole, di civile convivenza, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi? Dottore, trovano a noi. E solo a noi. Lei è siciliano e lo sa bene che è così. Cosa collaboro a fare, allora? Solo per farvi arrestare qualche altra decina di padri di famiglia o per farvi trovare qualche pistola arrugginita? Cosa potrebbe cambiare se vi dicessi quello che volete sapere da me?». Nessuna analisi sul fenomeno mafioso può prescindere da questa verità: le “loro” scuole e i “loro” ragazzi, da una parte, la presenza non competitiva dello Stato, dall’altra. La peculiarità che diversifica la mafia dalle altre associazioni a delinquere è chiaramente riportata nel Codice penale, all’art. 416 bis: forza di intimidazione del vincolo associativo e condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva. In altre parole il controllo del “loro” territorio e delle “loro” persone che ci vivono, il vero punto di forza di Cosa nostra. E i cosiddetti uomini d’onore lo sanno bene che è così. Finita l’epoca della mafia rurale, quando il controllo del territorio era assicurato dal prestigio personale e dal rispetto, per lo più dettato dalla paura, di cui godevano i capi mafia locali (solitamente campieri dei feudi che decidevano chi poteva lavorare e chi no), Cosa nostra è stata costretta a far ricorso in maniera massiccia, soprattutto nei popolosi contesti urbani, a sistematiche e capillari estorsioni a commercianti e imprenditori. Com’è emerso chiaramente da un libro mastro che abbiamo sequestrato nel covo di un mafioso latitante, il pizzo imposto ai negozianti non serve, come molti ritengono, ad ingrassare i patrimoni personali dei mafiosi, ma risponde alla duplice esigenza di sostenere il costo dell’organizzazione (stipendi agli affiliati, mensile ai carcerati e alle loro famiglie, onorari degli avvocati, acquisto di armi e di altri “beni strumentali”) e, soprattutto, a far sentire, in maniera chiara e inequivocabile, alla gente di un determinato paese o quartiere la presenza e la potenza di Cosa nostra. Nessuno sfugge al pizzo, nemmeno il piccolo ambulante con la sua minuscola bancarella e, quasi paradossalmente, più è efficace e intensa l’azione di contrasto dello Stato, più diventa onerosa e opprimente l’attività estorsiva della mafia, costretta, da un lato, a far fronte a maggiori spese di gestione del sodalizio, determinate dall’aumento dei mafiosi detenuti e dei processi che li coinvolgono e, dall’altro, a dimostrare più energicamente la sua forza intimidatrice; pena la perdita del controllo del suo territorio, ovvero della sua stessa essenza criminale. Negli anni scorsi si è spesso detto che la mafia è forte perché mantiene stretti rapporti con la politica, l’imprenditoria, la finanza, invece, a mio avviso, è vero l’esatto contrario: Cosa nostra intrattiene queste relazioni perché è forte ed è forte proprio perché ha il controllo del territorio. Un politico, un imprenditore non hanno alcun interesse a mettersi “nelle mani” di un mafioso, se può ottenere lo stesso risultato in altri modi, anche ricorrendo a meccanismi di clientelismo o di ordinaria corruzione. È costretto invece a trattare con Cosa nostra quando soltanto quell’organizzazione può garantirgli un bacino di consenso, anche elettorale, oppure, a seconda dei casi, le risorse economiche e le coperture necessarie per eseguire una determinata speculazione, finendo quindi con il dover poi “pagare” le cambiali in bianco che deve sottoscrivere e che rafforzeranno ulteriormente il consortium sceleris con cui ha stretto quel patto sciagurato. Del resto anche all’interno di Cosa nostra ha comandato sempre chi deteneva il potere militare (e, dunque, poteva esercitare in maniera più costante ed efficace il controllo del territorio) e non chi aveva gli agganci politici più influenti o i contatti migliori con il mondo della finanza e dell’imprenditoria. La “mafia dei salotti buoni” degli anni ’70, quella dei Bontate, dei Badalamenti, dei Greco, ha dovuto soccombere di fronte al potere dei killer corleonesi di Salvatore Riina e lo stesso è accaduto qualche lustro dopo, quando dopo l’arresto del Capo dei capi, di fatto e contrariamente a quello che si crede, il controllo dell’organizzazione mafiosa è passato per qualche anno nelle mani di Leoluca Bagarella che, con Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca, disponeva dei gruppi di fuoco più numerosi e organizzati, e non di Bernardo Provenzano, formale reggente della Commissione di Cosa nostra, che, invece, dopo un passato da killer spietato, poteva contare forse “solo” su buoni collegamenti “collusivi” e sui suoi stretti rapporti con parte dell’imprenditoria siciliana.
Provenzano, “‘u zù Binu” (e non Binnu, come scrivono i meno informati), ha dovuto attendere la cattura di Bagarella (24 giugno 1995) e dei suoi soldati per ottenere il controllo dell’organizzazione e per poter finalmente dare inizio a quella strategia di sommersione che, all’apparenza, ha fatto scomparire Cosa nostra o che, comunque, ha convinto molti che fosse stata riportata ad un livello accettabile di tollerabilità. Quanto accaduto negli ultimi anni, in concreto, dà la misura dell’altra caratteristica straordinaria di Cosa nostra, della sua eccezionale capacità di adattamento all’ambiente e alle condizioni in cui si trova ad operare: “calati juncu ca’ passa la china” (abbassati giunco perché sta passando il fiume in piena) recita un noto proverbio isolano e questo è quello che ha fatto adesso la mafia. Ed è quello che aveva già fatto in passato. Raccontano i vecchi uomini d’onore che, dopo le reazioni delle Istituzioni conseguenti alla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963, quando una Giulietta imbottita di tritolo aveva ucciso sette carabinieri (e lo Stato era stato costretto a dare, quantomeno, qualche segnale di vitalità, per esempio, facendo finalmente funzionare la Commissione Parlamentare Antimafia), addirittura le famiglie di Cosa nostra si erano sciolte. Eppure la strage di viale Lazio – che, dopo un periodo di relativo silenzio, dava inizio a quella che è passata alla storia come la prima guerra di mafia e, quindi, dimostrava l’esistenza di un’organizzazione criminale quanto mai vitale e operativa – è del 1969, di appena sei anni dopo. “Cosa nostra ha la forma dell’acqua” scrissi qualche anno fa, mutuando impropriamente il titolo di un noto romanzo di Andrea Camilleri: come l’acqua ha la capacità di allargarsi e restringersi in ragione del contenitore dove si trova. Il contenitore di quell’acqua è, ovviamente, lo Stato e la storia più o meno recente di Cosa nostra si è sviluppata proprio su questo rapporto, al tempo conflittuale o parallelo, con le Istituzioni democratiche, rapporto che non riguarda, però, solo il fronte della repressione. Più l’azione dello Stato nella tutela della legalità e delle regole di civile convivenza e l’impegno delle Amministrazioni centrali e locali nell’assicurare ai cittadini i loro diritti e i servizi essenziali si allenta, più Cosa nostra si espande, fino a maturare quella sorta di delirio di onnipotenza che, tra il 1992 e il 1993, le aveva permesso di mettere in ginocchio il Paese con l’assassinio di Falcone e Borsellino e con le stragi del “continente” che toccarono il culmine con quella di via dei Georgofili, con l’attentato alla Galleria degli Uffizi, alla più importante pinacoteca del mondo. Ad ogni incertezza, ad ogni segnale di debolezza o, persino, di appagamento dello Stato nel contrasto al fenomeno mafioso corrisponde inevitabilmente un rafforzamento di Cosa nostra. Ricordo, per esempio, un boss detenuto sottoposto al regime carcerario del cosiddetto 41 bis che, tra l’altro, prevede che i colloqui con i familiari si svolgano mediante un vetro divisorio che impedisca ogni contatto fisico. Per condivisibili ragioni di umanità, l’Amministrazione penitenziaria, ad un certo punto, aveva concesso ai mafiosi di effettuare gli ultimi minuti del colloquio con i figli minori di dieci anni senza il vetro. Ebbene, al primo colloquio utile, il mafioso di turno aveva approfittato dell’opportunità che gli era stata concessa per trasmettere, per mezzo di un bambino di nove anni che fingeva di abbracciare, un messaggio di morte che fortunatamente, grazie alle videocamere che avevamo collocato nella sala, abbiamo intercettato prima che arrivasse a destinazione. È proprio questa straordinaria capacità di approfittare di ogni cedimento e di adattarsi ad ogni nuova evenienza che ha consentito a Cosa nostra di sopravvivere per almeno un paio di secoli, pur rimanendo sempre uguale a se stessa. Quando nella seconda metà degli anni ’80, a seguito del coraggioso impegno di quel manipolo di magistrati del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo, coadiuvati da poliziotti e carabinieri che avrebbero pagato anche con la vita il loro spirito di servizio, l’associazione mafiosa si era trovata a dover fare i conti con le gole profonde dei collaboratori di Giustizia, era corsa immediatamente ai ripari. Cosa nostra aveva deciso di ridurre al minimo il numero degli uomini d’onore e aveva fatto ricorso in maniera massiccia ai cosiddetti affiliati, a piccoli criminali utilizzati, in cambio di pochi spiccioli, anche per commettere omicidi e stragi, senza però concedere loro lo status spettante ai “punciuti”, ai membri a pieno titolo dell’organizzazione, a coloro cui bisogna dire la verità, rivelare le ragioni per cui vengono chiamati a commettere un delitto e riferire dell’appartenenza di altri al medesimo sodalizio. Se l’affiliato decideva di collaborare con la Giustizia poteva raccontare solo delle sue malefatte e poteva coinvolgere soltanto qualche altro vuoto a perdere come lui, ma non era in grado di svelare, come aveva fatto per esempio Tommaso Buscetta, l’organigramma e le strategie più delicate dell’associazione. Dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, quando Cosa nostra ha toccato la punta più alta nello scontro frontale con lo Stato – che avrebbe risposto finalmente in maniera adeguata militarizzando le vie siciliane e investendo nel contrasto alla mafia le sue migliori risorse con risultati straordinari – Provenzano ha compreso che l’unico modo per consentire all’associazione di sopravvivere era quello di farla apparentemente scomparire, di nasconderla agli occhi delle Istituzioni, della società civile e dei media in attesa che … passasse la piena. L’anziano stratega corleonese ha dovuto solo rinviare di qualche anno l’operazione, fino all’aprile del 1998 quando Vito Vitale, l’ultimo dei fedelissimi di Bagarella, è stato catturato dalle Forze di Polizia, ma da quel momento non ha avuto più ostacoli riuscendo a convincere molti che con la mafia, con questa nuova vecchia mafia, lo Stato possa anche convivere. In concreto la mafia di oggi è cambiata solo per tornare uguale a com‘era prima, a come appariva negli anni ’50 e ’60, quando parecchi sostenevano addirittura che non esistesse, che fosse solo un modo tutto siciliano di essere, di pensare, di atteggiarsi. Indubbiamente oggi Cosa nostra non dispone più di quelle notevolissime risorse economiche che le derivavano dal fatto di costituire lo snodo centrale nel traffico internazionale di stupefacenti (dal quale è praticamente uscita già nei primi anni ’90 forse per uno sgarbo ai loro “cugini” americani), non può contare su gruppi di fuoco sanguinari e strutturati in grado di eseguire qualunque delitto e, probabilmente, dopo la cattura di Provenzano, è anche un’associazione acefala priva di un adeguato organo direttivo in grado di deliberare eventuali strategie di attacco agli uomini dello Stato. Ma quanto durerà tutto questo? Quanto tempo passerà prima che venga ricostituita la Commissione di Cosa nostra, la Cupola, come la chiamano i giornali, e prima che riemerga prepotentemente quella violenza che da sempre fa parte del patrimonio genetico della mafia? Cosa nostra non ha certo perso il controllo del territorio. In Sicilia si paga ancora il pizzo, ci si continua a rivolgere ai locali boss per poter avviare un’attività commerciale o imprenditoriale, i proventi delle pubbliche commesse finiscono in gran parte, direttamente o indirettamente, nelle tasche dei mafiosi e quello che altrove è un diritto del cittadino nel territorio siciliano è tutt’oggi un favore da ricompensare al capo bastone di turno. |