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GNOSIS 4/2008
Flex - Security per la globalizzazione

Anna Maria BATTISTI

Il problema della disoccupazione, già fortemente sentito in passato tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90, e che trova le sue cause nelle profonde e complesse modificazioni del sistema economico e sociale che hanno interessato il nostro Paese, come del resto le altre economie di mercato, ha influenzato significativamente le scelte del legislatore in merito alla disciplina del lavoro.
Peraltro, l’allargamento su scala planetaria della concorrenza e il fenomeno della c.d. globalizzazione, che sono sopraggiunti a modificare ulteriormente lo scenario mondiale, hanno richiesto al mondo delle imprese un ripensamento totale delle proprie strategie commerciali, con una notevole ricaduta sull’organizzazione della produzione e del lavoro.
La “riforma strutturale” da adottare è stata ravvisata, di conseguenza, in un incremento del tasso di flessibilità consentito alle imprese per ciò che concerne l’impiego del fattore lavoro, sulla premessa che soltanto un’impresa “flessibile” è in grado di minimizzare i costi e reggere le sfide della competizione globale. Flessibilità nelle assunzioni e nei licenziamenti (così da poter modulare gli organici agli effettivi fabbisogni), nell’assegnazione delle mansioni ai lavoratori, nella determinazione degli orari di lavoro, nei livelli retributivi.
L’insieme di questi fenomeni, che hanno mutato profondamente il contesto e in parte gli stessi valori di riferimento, ha finito con l’incidere sui caratteri del Diritto del lavoro, così determinando una significativa riduzione del peso politico e quantitativo del lavoro subordinato a tempo indeterminato e la diffusione di tipologie lavorative flessibili (dal rapporto a termine ai contratti a contenuto formativo, alle forme di somministrazione di lavoro, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, ora lavoro a progetto): la transizione da un sistema di norme fortemente caratterizzato dal principio del favor prestatoris, in nome del quale lo Stato può e deve intervenire sulle regole di mercato, ad un sistema in cui l’intervento pubblico non può sostituire le leggi di mercato nel ruolo di guida del processo economico, ma deve soltanto dettare regole al mercato per garantire ad esso maggiore efficienza e correttezza.
Si deve tuttavia rilevare come il nostro Diritto del lavoro appaia squilibrato e inadeguato poiché offre tutela anche a soggetti che, pur essendo formalmente lavoratori subordinati, non sono in una posizione di debolezza economicamente intesa e che godono di più ampia autonomia nella esecuzione della loro prestazione; non tutela adeguatamente coloro che prestano la loro attività al di fuori di un rapporto di lavoro subordinato ma che sono in posizione di inferiorità contrattuale e che svolgono attività parasubordinate. In buona sostanza, il diritto attuale, conservando inalterato tutto l’apparato di garanzie dei lavoratori subordinati, finisce per consolidare in favore di tali lavoratori (insiders) una posizione di privilegio che opera da deterrente all’assunzione dei disoccupati e inoccupati (outsiders).
Ne è conferma la disciplina in materia di ammortizzatori sociali (quali integrazioni salariali, indennità di mobilità, sussidi di disoccupazione) atteso che gli stessi sono stati previsti solo per i soggetti che hanno perso o sono in procinto di perdere un posto di lavoro, e solo per quelli appartenenti a determinati settori economici e ad imprese di una certa dimensione, ma non sono stati, invece, predisposti per gli inoccupati e i lavoratori precari.
In buona sostanza, per tutti gli anni ’90 è continuato, ed ha preso velocità, quel processo di flessibilizzazione della normativa che era già iniziato nel decennio precedente. La via italiana alla flessibilità ha continuato a puntare strategicamente sulla ricerca del consenso sindacale, sia a livello di concertazione delle leggi, sia nella gestione aziendale delle misure di flessibilità (si pensi alla legge 23 luglio 1991, n. 223, sui licenziamenti collettivi e la mobilità, alla legge 24 giugno 1997, n. 196, “Legge Treu”) che ha legalizzato per la prima volta il “lavoro interinale”, reso possibile una modulazione flessibile degli orari di lavoro, rilanciato l’apprendistato, avviato l’esperienza degli stages; si pensi, ancora, al definitivo superamento dell’ormai decrepito collocamento pubblico (legge 28 novembre 1998, n. 606) e poi al decentramento alle Province, all’apertura e all’accesso dei privati nel mercato dell’intermediazione della manodopera (d.lgs. 23 dicembre 1997, n. 469).
I primi anni del nuovo secolo si aprono, per il Diritto del lavoro, con la riforma del mercato del lavoro, introdotta dal d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (di attuazione della legge delega n. 30 del 2003, c.d. legge Biagi), ritoccato con il d.lgs. 6 ottobre 2004, n. 251, che ha preso le mosse dal Libro Bianco sul mercato del lavoro, presentato nell’ottobre 2001, nel quale si sosteneva la necessità di puntare, primariamente, sull’incremento del basso tasso di occupazione italiano, attraverso politiche tese a rendere più funzionante, dinamico e flessibile un mercato del lavoro, ancora molto distante, come livelli di performance, dagli obiettivi di Lisbona.
Al fondo di tale strategia era indicata la necessità di spostare il baricentro del sistema dalla protezione del lavoratore “nel rapporto di lavoro” alla protezione “nel mercato del lavoro”; in altre parole, meno regole volte a proteggere il lavoratore a rapporto di lavoro in atto (ad es., tutelandolo contro il licenziamento) e, in cambio, maggiori protezioni atte a consentirgli - una volta perduto, eventualmente, un posto di lavoro - di ritrovarne rapidamente un altro, se del caso, riqualificandosi tramite interventi di formazione professionale.
Al Decreto Biagi, che ha riscosso, nel bene e nel male, un’eccessiva attenzione mediatica, si debbono una serie di riforme significative: ulteriore apertura ai privati nei servizi per l’impiego; norme tese a favorire le politiche di esternalizzazione; modificazioni, in senso flessibile, della disciplina di alcuni contratti atipici, come il lavoro a tempo parziale e il lavoro somministrato (già fornitura di lavoro temporaneo) e introduzione di nuove tipologie contrattuali flessibili, come il lavoro intermittente, il lavoro ripartito, il contratto di inserimento; la modifica del contratto di apprendistato, in sinergia con le Regioni; l’introduzione, in luogo delle “collaborazioni coordinate e continuative” del discusso contratto di collaborazione “a progetto”; la nuova procedura di “certificazione” dei contratti di lavoro.
Ed invero, l’introduzione di nuove tipologie da parte del d.lgs.n. 276 del 2003 si rivela, in parte, apparente: il lavoro somministrato è infatti una metamorfosi, in chiave di maggior flessibilizzazione, del lavoro interinale, conservando, peraltro, un rilevante apparato di garanzie (mantenimento della sussistenza di ragioni specifiche tassativamente elencate; distinzione tra appalto ed interposizione, anche per via di certificazione; persistenza del regime di responsabilità solidale tra datore di lavoro ed utilizzatore); il lavoro a tempo parziale è rivisitato, recuperando quel modello promozionale che era già nelle leggi n. 451/1994 e n. 196/1997, per superare alcuni eccessi di rigidità (dissuasivi dell’utilizzo dell’istituto) introdotti dal d.lgs.n. 61/2000. Quanto poi ai contratti a contenuto formativo, il d.lgs.n. 276 del 2003 viene necessariamente a scindere l’apprendistato dal contratto di formazione e lavoro, dovendo sacrificare il secondo alle indicazioni comunitarie e recuperare, conseguentemente, nel primo anche la funzione di promozione del lavoro giovanile di fascia più elevata.
In discontinuità con il passato restano invece il contratto di inserimento, che, peraltro, sostituisce il contratto di formazione e lavoro, recuperandone la funzione di canale promozionale di occupazione agevolata ed ampliandone l’ambito di applicazione soggettivo a fini di contrasto dell’esclusione sociale; il contratto di lavoro a chiamata che, tuttavia, disciplina prassi già presenti nel settore dei servizi, introducendo una tutela economica per i periodi di attesa dell’offerta di lavoro in favore del precariato che insiste stabilmente su di una specifica organizzazione produttiva; il contratto di lavoro intermittente e il lavoro ripartito, anche se quest’ultimo potrebbe sembrare una sotto-versione del lavoro a tempo parziale, con l’affidamento delle modulazioni di orario ai lavoratori in coppia (come del resto conferma l’esplicito richiamo della disciplina previdenziale).
A tal punto, giova entrare nel merito delle tipologie contrattuali da ultimo richiamate. Relativamente al contratto di inserimento, va detto che esso è apparso subito come un contratto a termine incentivato, finalizzato all’inserimento o al reinserimento di talune categorie di soggetti accomunate dal versare in una situazione di specifico svantaggio economico-sociale (soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni; disoccupati di lunga durata da 29 anni fino a 32 anni; lavoratori con più di 50 anni di età privi di un posto di lavoro; lavoratori che desiderino riprendere un’attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni; donne di qualsiasi età residenti in un’area geografica in cui il tasso di occupazione femminile sia inferiore di almeno il 20% di quello maschile o in cui il tasso di disoccupazione femminile superi del 10% quello maschile; persone riconosciute affette, ai sensi della normativa vigente, da un grave handicap fisico, mentale o psichico).
La disciplina in questione non impone obblighi formativi al datore di lavoro, ma solo l’elaborazione di un progetto individuale di inserimento, la cui definizione è rimessa all’autonomia collettiva. La convenienza del ricorso a tale tipologia è legata non solo alla possibilità di apporre un termine al rapporto di lavoro ma, soprattutto, al riconoscimento di agevolazioni di varia natura, tra cui la possibilità di sotto - inquadramento del lavoratore in rapporto alle mansioni svolte, sgravi fiscali e contributivi.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si è particolarmente concentrata l’attenzione della dottrina, dal momento che la normativa in essere prevede la possibilità di inquadrare il lavoratore in una categoria fino a due livelli inferiore rispetto a quella stabilita dal c.c.n.l. per i lavoratori adibiti a mansioni e funzioni che richiedono qualificazioni rispondenti a quelle al cui conseguimento è preordinato il contratto, incentivo che però scarica le conseguenze giuridiche ed economiche dell’assunzione agevolata interamente sul lavoratore interessato.
A parere della dottrina, siffatta possibilità è apparsa fuori contesto, sia sul piano letterale che su quello logico, in considerazione del fatto che il contratto non è preordinato all’acquisizione di una qualificazione ma solo all’inserimento del lavoratore. Per altro verso, è stata contestata la congruità di tale misura in quanto, a differenza di quanto avviene nel contratto di apprendistato (e di quanto a suo tempo previsto per il contratto di formazione e lavoro) il sottoinquadramento non rappresenta il prezzo che il lavoratore paga per la sua formazione (al fine di migliorare la propria occupabilità futura), ma quello dell’assunzione stessa, così che il risultato di incentivare le imprese all’assunzione di soggetti “deboli” viene perseguito attraverso la legittimazione di un trattamento differenziato in pejus rispetto a quello dei lavoratori “comuni”.
Quanto al contratto di lavoro ripartito o a coppia, conosciuto in ambito comparato con l’espressione job sharing, preme ricordare che con esso si intende il contratto in base al quale due lavoratori sono tenuti ad un’unica obbligazione lavorativa, che può essere svolta dall’uno o dall’altro, potendo ripartirsi tra loro, a piacimento, anche secondo modalità di volta in volta differenti, la quantità di lavoro ed i rispettivi orari.
Tuttavia si deve rilevare che, sebbene il contratto di lavoro ripartito non sia completamente assente nel tessuto socio-economico del nostro Paese, potendo essere rintracciato in alcune significative realtà aziendali, soprattutto a livello sperimentale, – si pensi all’accordo sottoscritto alla Benetton, come anche alla possibilità di sottoscrivere contratti di job sharing per lo svolgimento di prestazioni di lavoro subordinato riconosciuta recentemente nei contratti collettivi della Sony Italia e dell’Alcatel –, questa tipologia contrattuale è, allo stato, lungi dal raggiungere quella diffusione che ha invece riscontrato in ambito comparato, dove è stata oggetto di normative specifiche già a partire dagli anni sessanta (negli Usa, nel Regno Unito) e dagli anni ottanta (in Francia e in Germania).
Le stesse considerazioni possono svolgersi con riguardo al contratto di lavoro intermittente che è una tipologia del tutto nuova per il nostro ordinamento (ma non per altri ordinamenti europei, come quello britannico e olandese), nel senso che prima dell’introduzione della disciplina in oggetto, forme di impiego “a chiamata”, come quelle oggi rese possibili, non potevano ritenersi consentite, ponendosi in contrasto con il diritto di ciascun lavoratore all’effettuazione piena dell’orario di lavoro previsto dai contratti collettivi, ovvero di quello ridotto stabilito in un contratto individuale a tempo parziale. In verità, v’era stato un tentativo di introdurre il lavoro a chiamata per via contrattuale, ma esso era fallito sul nascere: nel giugno del 2000, fra Elettrolux-Zanussi e parti sociali (ma senza la partecipazione della Fiom-Cgil), era stata elaborata una bozza di accordo che prevedeva il ricorso ad un contratto denominato ad “espansione programmata”, ma essa fu bocciata dai lavoratori in un referendum. Lo schema contrattuale presentato in quell’occasione, come sottospecie del contratto a tempo parziale, era diverso da quello previsto dal Decreto Biagi, ma anche di esso era quantomeno dubbia la compatibilità con la legislazione vigente.
A ben guardare, tuttavia, l’introduzione di nuovi rapporti atipici – ad opera del Decreto da ultimo richiamato – ed il rafforzamento di vecchi rapporti è condotta in modo innovativo, ma non radicale, in chiave di ampliamento del bacino di opzioni offerto alle parti per intercettare tutti i frammenti di occupazione possibile, sottraendola al lavoro irregolare e favorendo l’emersione di fattispecie allo stato indistinto ed, in quanto tali, prive di tutela.
In buona sostanza, il Decreto Biagi non sembra aver avuto un impatto stravolgente sull’andamento del mercato del lavoro. Esso pare essersi limitato a determinare un’accentuazione ed un consolidamento di tendenze di medio periodo già presenti, concernenti la riduzione del tasso di disoccupazione e l’incremento, pur debole, del tasso di occupazione. Ma, ciò, senza ancora intaccare, in misura significativa, debolezze strutturali del mercato del lavoro italiano, legati al basso tasso di occupazione di donne, giovani fra 15 e 24 anni e “anziani” sopra 55 anni, l’alta percentuale di disoccupati di lunga durata e, in generale, la situazione del Mezzogiorno d’Italia, negativa su quasi tutti i fronti. Né è stato avviato a soluzione il problema del lavoro “nero”, stimato a circa il 25% del Prodotto Interno Lordo.
A distanza di circa quattro anni, gli istituti più controversi del d.lgs.n. 276 del 2003, come il lavoro a chiamata e il lavoro intermittente, connotati da rilevanti elementi di instabilità, hanno trovato scarsa applicazione. Alla luce di ciò, il Governo ha avviato un processo di difficile mediazione per il superamento di alcune delle regole del decreto sopra citato operando, in tal modo, un nuovo massiccio intervento legislativo che coinvolge il sistema sociale nel suo complesso, mediante un progetto di riforma socio-economica.
D’altro canto, si era oramai profilato in maniera netta il problema della bassa competitività della produzione italiana che il Governo non poteva permettersi di trascurare, con misure troppo rigide che avrebbero potuto determinarne un aggravamento, quando v’era semmai bisogno, all’opposto, di un rilancio sul terreno della produttività e della capacità di competere del cosiddetto sistema-paese a livello globale.
Stretto tra queste due esigenze contrapposte, di non facile composizione, il Governo ha scelto una linea mediana, caratterizzata dalla concentrazione su alcuni temi: principalmente la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, il contrasto normativo alla precarietà (misurata dalla permanenza temporale di lavoratori in rapporti di lavoro atipico, data in crescita da statistiche che pure non rivelavano, e non rivelano, un drammatico incremento, in termini assoluti, di tali rapporti, in specie a paragone dei livelli di altri paesi europei), la riforma degli ammortizzatori sociali, la lotta al lavoro “nero” (con un forte incremento delle relative sanzioni amministrative); la correzione delle misure pensionistiche adottate dal precedente esecutivo in tema di pensioni di anzianità, in particolare a favore delle persone impegnate per lungo tempo, nel corso della loro vita professionale, in lavori “usuranti”.
Si è pertanto aperta una fase, non semplice, di concertazione sociale tra Governo, sindacati ed associazioni imprenditoriali, che è approdata al Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili (c.d. Protocollo welfare) che preannuncia una riforma di ampio respiro sul welfare, nell’ambito della quale, oltre ai contratti e al mercato del lavoro, si comprendono gli ammortizzatori sociali e la previdenza.
Dopo un iter travagliato, il Protocollo viene trasposto nella legge 24 dicembre 2007 n. 247, recante “Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale”.
Le principali novità, riguardanti l’ambito del lavoro, hanno interessato alcune disposizioni del d.lgs.n. 276 del 2003 concernenti i servizi pubblici per l’impiego, nell’ottica del loro potenziamento; la riorganizzazione dell’intero sistema degli incentivi all’occupazione, tenendo conto delle nuove priorità quali l’occupazione delle donne, dei giovani, dei lavoratori ultracinquantenni; il riordino dell’apprendistato, anche per superare l’attuale fase di stallo dovuta all’inestricabile intreccio tra competenze dello Stato (in parte rinviate alla contrattazione collettiva) e competenze delle Regioni; la disciplina del lavoro a termine che è stata corretta, al fine di prevenire in particolare gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a tempo determinato; il lavoro a tempo parziale che è stato modificato relativamente al c.d. diritto di precedenza e alla disciplina in materia di clausole elastiche e flessibili; l’abrogazione di norme del d.lgs.n. 276 del 2003 concernenti il lavoro a chiamata e l’attivazione di un tavolo di confronto con le parti sociali relativamente al contratto commerciale di somministrazione a tempo indeterminato.
è stato, quindi, predisposto un nuovo insieme di misure (c.d. pacchetto lavoro) che sono state inserite nella manovra economica varata con il D.L. 25/6/2008, n. 112, convertito con modificazioni nella legge 6/8/2008, n. 133, recante “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”.
L’obiettivo è “incoraggiare la maggiore propensione delle imprese ad assumere”, realizzando una semplificazione dei rapporti di lavoro tale da determinare effetti positivi in termini di crescita economica e sociale.
Il disegno riformatore, che dovrà completarsi con ulteriori interventi legislativi, è ispirato all’obiettivo di “transitare quanto più celermente da un modello sociale risarcitorio” con caratteristiche che spesso sono di tipo assistenziale e che ha nelle tutele passive la sua emblematica strumentazione, ad un “modello di welfare della prevenzione che, lungo tutto il ciclo di vita della persona, dal concepimento alla morte naturale, interviene in ciascuna fase, cercando di evitare il formarsi di condizioni di bisogno nella fase successiva” (audizione del Ministro del lavoro alla Camera dei deputati del 10 giugno 2008).
Nel provvedimento si fondono novità e modifiche che non riguardano soltanto la disciplina del lavoro privato ma anche quella del lavoro pubblico che viene investito da norme che comporteranno una maggiore severità nella regolamentazione del rapporto di lavoro, ma anche nella valutazione delle responsabilità dirigenziali unitamente ad una politica gestionale meritocratica e incentivante. I punti principali della c.d. manovra d’estate riguardano:
- il lavoro a tempo determinato (su cui v. infra);
- il lavoro accessorio, peculiare forma di lavoro, disciplinata per la prima volta dal d.lgs.n. 276 del 2003, che viene ora estesa alla generalità dei lavoratori;
- l’apprendistato professionalizzante e per l’alta formazione, soprattutto per superare i problemi attuativi legati alla formazione dell’apprendista che hanno determinato una diffusa paralisi dell’istituto;
- l’orario di lavoro ed in particolare il lavoro notturno ed il riposo giornaliero e settimanale, con maggiori facoltà regolatorie, anche in deroga, ai contratti collettivi territoriali o aziendali;
- il lavoro intermittente che era stato abrogato dalla legge n. 247 del 2007, ad eccezione del settore del turismo e dello spettacolo e che ora viene ripristinato;
- l’istituzione del libro unico del lavoro, in sostituzione dei tradizionali libri obbligatori aziendali (di matricola e di paga);
- il lavoro a domicilio relativamente agli adempimenti funzionali all’instaurazione e alla gestione del rapporto;
- il collocamento mirato dei disabili, con modifica delle disposizioni concernenti il prospetto informativo da inviare agli uffici competenti;
- la razionalizzazione del processo del lavoro con diverse modifiche al codice di procedura civile;
- la disciplina del pubblico impiego per contrastare l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni e aumentare la produttività del lavoro.
Nell’ultima fase, le spinte di riforme sono arrivate a toccare, non soltanto le politiche occupazionali ampiamente intese, ma lo stesso Diritto del lavoro all’insegna della flex-security, flessibilità più sicurezza. Con tale formula, ispirata soprattutto dall’esperienza del modello danese, si è inteso suggerire che, per consentire alle rispettive economie di reggere i ritmi della globalizzazione, i diritti del lavoro nazionali dovrebbero accettare di aprirsi alla flessibilità consentendo, cioè, una gestione il più possibile flessibile, per ogni aspetto, della forza lavoro. In ogni caso, attraverso la flex-security, il tema della riforma del Diritto del lavoro è stato ormai posto a livello europeo, per cui i futuri svolgimenti nazionali, e quindi anche italiani, ne saranno certamente condizionati.
Il quadro formale sino ad ora descritto, sia a livello comunitario che nazionale, sembra condurre ad una lettura dalla quale emergono con forza segnali di crisi in relazione alle nuove problematiche che il sindacato si trova a dover gestire, derivanti sia da fattori endogeni che da fattori esogeni comunque riconducibili, ovvero esasperati, dalle trasformazioni del contesto economico-sociale, indotte dalla globalizzazione.
Si delinea, cioè, uno scenario dove l’area degli interessi gestibili dall’autonomia collettiva tende a ridursi. Infatti, impieghi meno stabili, lavoratori meno concentrati e meno dipendenti rendono più difficile la tutela contrattuale collettiva tradizionale, che viene a coprire in modo meno esteso e/o profondo l’arcipelago dei lavori e, in modo più discontinuo, il tragitto lavorativo dei lavoratori, in un mercato del lavoro che tende a frantumarsi in “più mercati del lavoro differenziati in termini professionali, locali e culturali”. Il nuovo scenario alimenta pertanto lecite preoccupazioni sulla sorte della mediazione sindacale, ovvero sulla capacità di gestire le mutate esigenze che provengono dal mondo del lavoro.
Al contempo, appare del tutto fisiologico che il sindacalismo autonomo e di base negli ultimi anni si affermi sempre più come soggetto antagonista (a volte unico) del datore di lavoro, in aperto conflitto con il sindacato confederale. Il sindacalismo autonomo, nelle sue molteplici forme e manifestazioni, per sua natura ed anche grazie alla latitanza di quello confederale, riempie cioè uno spazio vuoto o comunque poco affollato, quello della manifesta rivendicazione e dell’aperto conflitto con l’imprenditore nell’ambito aziendale.
In questo quadro di perdita di unità di azione del sindacato con conseguente frammentazione dell’interesse sindacale, non più omologabile tra i diversi gruppi ed i diversi livelli di contrattazione, si assiste alla crisi del movimento sindacale. Ma si assiste anche ad una conseguente perdita di centralità del livello nazionale della contrattazione, per la rilevata odierna inidoneità della regolamentazione uniforme nazionale a risolvere istanze oramai troppo diversificate, e alla tendenza al decentramento della contrattazione collettiva, volta a recepire le esigenze di rappresentanza dei particolarismi nelle diverse aree del territorio nazionale.
La legislazione, prima quella sul nuovo contratto di lavoro a tempo determinato dettata dal d.lgs.n. 368 del 2001 e poi quella introdotta dal d.lgs.n. 276 del 2003 sul mercato del lavoro, cui si è fatto riferimento, prospetta dunque un sensibile ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva nella gestione degli istituti che incidono sul mercato del lavoro.
Ove si cerchi di indagare sui nuovi equilibri raggiunti dalle diverse fonti, quella legislativa e quella contrattuale, che vengono ora come in passato, a stigmatizzare le fasi di mutamento e di tensione interna del Diritto del lavoro, emerge che lo spostamento del baricentro appare immediatamente sensibile, in quanto i rinvii legislativi alla fonte contrattuale, che pur non si restringono nella quantità, nel numero, che anzi può dirsi nel complesso addirittura aumentato, risultano di minore qualità, cioè indeboliti rispetto al loro reale peso nel controllo degli istituti che vengono chiamati a regolare; incidono, cioè, solo in alcuni casi sull’an, cioè sull’utilizzabilità di quelle determinate tipologie contrattuali, mentre nella maggior parte delle ipotesi concorrono soltanto ad una loro regolamentazione eventuale ed accessoria, sicchè il ruolo della contrattazione collettiva risulta solo transeunte.
E così avviene con riguardo alla regolamentazione del contratto di lavoro a tempo determinato, in cui il sistema di individuazione delle ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro, in via diretta ad opera della legge, viene oggi sostituito dal sistema della c.d. causale generale, data dalla presenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” e, da ultimo, a seguito della novella apportata dal d.l. n. 112/2008, come convertito nella legge n. 133/2008, da “ragioni riconducibili anche all’ordinaria attività del datore di lavoro”, cui la stipula del contratto a termine deve rispondere al fine di un suo legittimo utilizzo. Ciò determinerebbe una perdita di controllo dell’istituto da parte del sindacato, con una sua marginalizzazione regolativa ad ambiti secondari della disciplina di questa forma contrattuale.
Si registra, pertanto, una sensibile attenuazione della fiducia della legge nella contrattazione collettiva come strumento di gestione della flessibilità e del mercato del lavoro, tanto da segnare il superamento della linea di politica del diritto del c.d. garantismo collettivo, in particolare del controllo sindacale del lavoro “atipico”. Ciò appare evidente anche nella disciplina degli altri istituti regolati dal d.lgs.n. 276 del 2003: così, ad esempio, nella legalizzazione della somministrazione di manodopera, ovvero dello staff leasing, nella riforma del part-time, ove si ricava un apprezzabile depotenziamento della contrattazione collettiva.
Nelle mani della contrattazione collettiva restano, comunque, ambiti di intervento non marginali, come in relazione all’individuazione delle ipotesi di ricorso al lavoro intermittente, ovvero all’individuazione delle modalità di definizione dei piani individuali di inserimento che attribuiscono, nella sostanza, alla contrattazione collettiva, la “messa in campo” dei due istituti.
Se uno sguardo ai recenti interventi normativi denota un sensibile ridimensionamento del ruolo del sindacato, cionondimeno al contempo sembrano scorgersi diversi segnali che indicano più che una definitiva prospettiva di marginalizzazione dell’azione sindacale, una sua nuova spinta ad una sua rimodulazione tarata alle mutate esigenze, condizionata alla capacità di raccogliere le pressanti sfide che pone l’odierno mercato del lavoro.
In tale direzione sembrano muoversi le novità introdotte dalla legge n. 133 del 2008, sopra citata, sia con riguardo al contratto di lavoro a tempo determinato, sia con riferimento al contratto di apprendistato professionalizzante.
Relativamente al primo, v’è infatti da ricordare che, qualora per effetto di successione di contratti a termine il rapporto di lavoro tra lo stesso lavoratore e lo stesso datore di lavoro, avente ad oggetto mansioni equivalenti, raggiunga una durata complessiva superiore ai 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi e indipendentemente dai periodi di interruzione tra i contratti, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.
In tal caso, alla contrattazione collettiva, nazionale, territoriale o aziendale, viene affidata la possibilità di individuare deroghe al suddetto limite. Trascorso il termine di 36 mesi, un ulteriore e successivo contratto a tempo determinato può essere stipulato una sola volta a condizione che la stipula venga realizzata presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente e con l’assistenza di un rappresentante sindacale.
Relativamente al contratto di apprendistato professionalizzante, giova invece ricordare che è destinato ai giovani di età compresa tra i 18 anni e i 29 anni e mira al conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e l’acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali.
Orbene, al riguardo, la legge n. 133 del 2008, citata, ha eliminato la durata minima originaria di 2 anni del contratto prevedendo che la durata massima non possa essere superiore ai 6 anni. Inoltre, la medesima legge ha stabilito che in caso di formazione esclusivamente aziendale, non vi è necessità di una preventiva legge regionale in ottemperanza ai criteri legali sulla formazione dell’apprendista. In tal caso, infatti, i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero agli enti bilaterali. Le parti sociali o gli enti bilaterali dovranno, in tali accordi, disciplinare tutto ciò che riguarda la formazione determinando, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalità di erogazione della formazione, le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo (art. 49 d.lgs.n. 276 del 2003, come modificato dall’art. 23, comma 2 del d.l.n. 112 del 2008, conv. in legge n. 133/2008).
In tale scenario la contrattazione collettiva pare poter riacquistare nuovi o diversi ambiti di intervento proprio in seguito al ritrarsi della norma inderogabile di fonte legale a tutela del lavoratore. Spetta pertanto al sindacato di accettare la sfida di cercare di comprendere, e quindi organizzare, il nuovo lavoro, predisponendo gli strumenti atti a rendere possibili forme di integrazione di interessi a volte frammentati, se non addirittura polarizzati ed antagonistici.
Ma ancor più importante, naturalmente, sarebbe che lo sviluppo economico – negli ultimi anni particolarmente intenso e diffuso, e precondizione di qualsiasi avanzamento sociale – portasse con sé, specie nelle economie allo stato meno avanzate, la “dote” di una crescita dei livelli di protezione e, più generale, degli standard civili. Si riprodurrebbe così, su scala globale, il percorso storico che ha caratterizzato la nascita e l’evoluzione del Diritto del lavoro a partire dalla Rivoluzione industriale.
Da qui anche l’esigenza di un sistema di welfare orientato a tutelare la continuità del reddito, le opportunità di impiego, la persistenza dell’occupabilità per via di formazione continua, l’equa distribuzione di risorse e tutele tra lavoratori stabili e lavoratori precari, comunque qualificati, al fine di presidiare il variegato dispiegarsi dei singoli percorsi di vita.
In fondo, il senso stesso del Diritto del lavoro (ed anche della previdenza sociale) è proprio quello di offrire risposte ai bisogni naturali di ogni prestatore d’opera ed, insieme, alle aspirazioni esistenziali di ogni cittadino operoso, che si traducano nella sicurezza della continuità e dell’adeguatezza del reddito, nonché della garanzia di effettive opportunità di occupazione.




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