GNOSIS 4/2008
Dal Mar Rosso alla Malaysia La rete dei pirati del terzo millennio |
Guido OLIMPIO |
Negli anni successivi alla guerra di indipendenza gli americani, a caccia di nuovi mercati, devono fare i conti con una realtà insidiosa: i pirati barbareschi che, partendo dalle coste nord africane, con le loro scorrerie mettono in pericolo i traffici marittimi. All’inizio, gli Stati Uniti cercano di trattare, offrono denaro per tenerli buoni. In poche parole preferiscono versare il riscatto. Ma non funziona. La Marina statunitense è costretta a intervenire più volte e deve organizzare anche operazioni anfibie. Nel 1805 sono i marines a sbarcare per conquistare il porto di Derna, in Tripolitania. Un nome che entrerà nell’inno del prestigioso Corpo. La partita si chiuderà negli anni a seguire, con le spedizioni del 1815 (americana) e del 1830 (francese). Una politica d’intervento applicata nel 1832 in Estremo Oriente, con la missione della fregata “Potomac” per punire i pirati locali. Meno di duecento anni dopo, la storia si ripete molto più a sud. Lungo le coste della Somalia, all’imboccatura del Mar Rosso, al largo di Aden. La sfida al traffico commerciale viene dai pirati locali, figli dei clan, metà pescatori e metà miliziani. Un fenomeno che ha assunto proporzioni inquietanti. Per tre ragioni. I numeri degli abbordaggi, la difficoltà di trovare una risposta – militare e legale –, le possibili saldature tra i banditi e il terrorismo. Lo scenario raccontato dall’impareggiabile Frederick Forsyth nel libro “L’Alternativa del diavolo” – una superpetroliera in ostaggio di pericolosi estremisti – e le analisi di un altro grande scrittore, William Langewiesche, autore del “Terrore del mare”, hanno acceso i riflettori, con grande anticipo, sui pericoli che corriamo. Su come guerriglieri “a bassa tecnologia” – in fondo serve un battello veloce, qualche mitra – possano diventare un costoso fastidio. è lungo queste “rotte” che cercheremo di navigare per spiegare quello che sta accadendo in Somalia e ciò che potrebbe seguire mettendo insieme le fonti ufficiali, i rapporti di istituti di ricerca e le notizie giunte quotidianamente da quell’inquieto angolo di mare. I numeri L’International Maritime Bureau (IMB), in un primo dossier diffuso in settembre, ha rilevato come, su scala globale, la pirateria sia cresciuta del 10 per cento. Nel 2007 si sono verificati 269 attacchi contro i 239 del 2006, una chiara inversione di tendenza rispetto a quanto registrato dal 2003. Un aumento imputato dall’IMB, basato in Malaysia, a quanto è avvenuto in Nigeria e in Somalia. In quest’ultimo Paese nel periodo gennaio-novembre 2008 sono state assalite 94 navi (120 secondo altre fonti) e di queste 38 sono state catturate. Alla data del 23 novembre erano ben 17 le unità ancora nelle mani dei banditi. Secondo lo studio, i corsari sono diventati anche più violenti: oltre 300 marinai presi in ostaggio, cinque uccisi e tre dispersi. Le armi da fuoco sono state impiegate in almeno 72 episodi, con un incremento del 36 per cento rispetto al 2006. Allarme anche in Gabon dove, in un paio di eventi, hanno agito bande consistenti e così sfrontate da scendere a terra per svaligiare alcune banche. In Asia, le coste indonesiane restano una delle situazioni più difficili, con almeno 43 attacchi, mentre è migliorato il quadro in Bangladesh, con soli 15 assalti (47 l’anno prima). Se spostiamo il focus sulla Somalia e consideriamo anche gli ultimi mesi, il trend è grave. E, oltre ai numeri, la grande attenzione sul Golfo di Aden è motivata dall’alto valore strategico. Ogni anno transita lungo questa importante via d’acqua una media di 20 mila navi e circa 3,4 milioni di barili di petrolio che rappresentano – per difetto – circa il 4% del petrolio mondiale. Quanto ai guadagni illeciti le valutazioni variano con una forbice piuttosto ampia: si va dai 30 milioni di dollari ai 150 (questo dato è stato indicato dalle autorità keniote). Una cifra non precisa. è difficile stabilire la reale somma sborsata dagli armatori per riavere la propria nave: i sequestratori possono accontentarsi di 500 mila dollari ma di solito la media oscilla tra 1-2 milioni di dollari e i 5. In questi mesi si è preferito pagare per salvare carichi che valevano 10 volte tanto e per evitare perdite tra i marittimi. Il ripetersi delle incursioni ha, però, contribuito ad un rialzo delle assicurazioni non solo per i cargo ma anche per la copertura dei marinai. Cifre – realizzate con calcoli approssimativi – rilevano che il costo della copertura assicurativa per un mercantile che attraversa il Golfo di Aden è passato da 900 dollari a 9000 dollari, che vuol dire un totale di oltre 160 milioni di dollari all’anno. I sindacati e le compagnie britanniche hanno poi concluso, alla fine di ottobre, un accordo che prevede un raddoppio della paga per il personale durante il periodo di transito nell’area, equiparata a “zona di guerra”. Un corridoio che corre parallelo ad una linea immaginaria che parte dal Capo Guardafui (Nord della Somalia) e raggiunge ad Est la punta estrema dell’isola di Socotra. Dopo il sequestro della petroliera saudita “Sirius Star”, un mostro di oltre 300 mila tonnellate, si è prodotta una seconda onda d’urto. Alcune Compagnie armatoriali hanno deciso di evitare il canale di Suez, scegliendo di circumnavigare l’Africa. I primi a compiere il passo i dirigenti della danese Moller Maersk, una delle società più grandi al mondo (possiede una cinquantina di petroliere) mentre la norvegese Frontline e la Intertank non hanno escluso di fare lo stesso. La mossa comporta un prolungamento del viaggio dai 12 ai 15 giorni, con un costo supplementare di 20-30 mila euro al giorno per ogni petroliera. Le società hanno precisato che la misura riguarderà solo le unità più lente e con i bordi bassi – come le petroliere a pieno carico – mentre gli altri mercantili seguiranno la via tradizionale. Se la crisi dovesse proseguire, è chiaro che vi sarebbe un forte impatto per l’Egitto che trae risorse dal pedaggio delle navi che usano Suez. Attualmente il traffico petrolifero lungo il Canale rappresenta solo il 17% dell’intero volume e solo le navi medie lo utilizzano. Ma le autorità egiziane hanno in programma di terminare entro la fine del 2009 un piano che dovrebbe permettere il transito anche a navi più grandi e ciò porterebbe al 64% il traffico petrolifero. L’allarme de Il Cairo è legato anche ad una contrazione dei movimenti marittimi, dovuta alla crisi economica. In ottobre i ricavi sono stati pari a 467.5 milioni di dollari contro i 504.5 milioni di agosto, con un passaggio record di 1993 navi. Gli esperti hanno anche provato a valutare l’impatto globale del fenomeno pirateria sull’economia. Di nuovo i numeri volano e dunque il dato è relativo: da 1 a 14 miliardi, a seconda di chi lo considera un fatto cronico o invece un’emergenza assoluta. Pesanti anche le conseguenze umanitarie. I corsari hanno preso spesso di mira i mercantili che trasportano aiuti per la popolazione somala. Da anni sconvolto dalla guerra civile, con un’autorità che è solo di facciata, il Paese ha disperato bisogno dell’assistenza dell’Onu per sfamare qualcosa come 2.4 milioni di essere umani. Ed entro la fine dell’anno, secondo fonti del Palazzo di Vetro a New York, il numero degli assistiti è destinato a salire a 3,6 milioni. Se si interrompe questa vena, per quei disperati non vi sarà scampo. Imbaldanziti dai successi e da una relativa impunità i pirati, dopo aver attaccato i mercantili pieni di viveri, hanno allargato la “pesca” a cargo con minerali, legno, sostanze chimiche, greggio. Sono state, invece, risparmiate le navi somale e quelle che trasportano beni diretti ai commercianti locali del mercato di Mogadiscio: un’immunità di fatto che alimenta i sospetti sulle collusioni e i rapporti tra pirati e autorità. In tre casi – ormai celebri – i corsari si sono imbattuti in carichi speciali. Il 21 agosto hanno sequestrato la nave iraniana “Deyanat” di 42.500 tonnellate, proveniente dalla Cina e diretta verso Rotterdam. A bordo, secondo il manifesto di carico, materiali industriali. Ma altre fonti – compresi alcuni pirati – hanno parlato di armi (destinate all’Eritrea?) e persino di veleni le cui esalazioni avrebbero causato vittime tra i predoni. Voci alimentate forse dal fatto che la società armatrice, l’Irisl, è finita nella lista delle società sospettate di trasferire tecnologia proibita. Una versione contestata aspramente da Teheran che ha esortato le potenze occidentali a muoversi per mettere fine al banditismo marino. Il 10 ottobre la “Deyanat” ha ripreso il suo viaggio, probabilmente dopo il versamento del riscatto. Ancora più clamoroso il caso della “Faina”, mercantile ucraino catturato il 25 settembre, mentre si dirigeva verso il porto keniota di Mombasa. Nelle stive c’erano 33 carri armati T-72, 150 lanciagranate Rpg 7, batterie anti-aeree, cannoni e circa 14 mila proiettili. Ufficialmente la partita di armi era destinata al Kenya, ma dopo pochi giorni sono stati gli stessi pirati a rivelare il trucco. Tank e razzi erano stati acquistati dal Governo autonomo del Sud Sudan, un’entità colpita da embargo Onu. La particolarità del carico ha avuto due conseguenze immediate. I corsari, nel chiedere il riscatto, hanno provato a giocare duro pretendendo, come prima condizione, 35 milioni di dollari. Poi sono scesi a 20, quindi a 8, poi a 5 e ancora a 3. Nell’ultima settimana di novembre il negoziato era ancora in corso. Dopo la “Faina” è toccato, come si è detto, alla “Sirius”, sorpresa non sotto costa ma ad 800 chilometri di distanza. Sembra che i banditi abbiano usato come nave-madre un rimorchiatore catturato in una precedente occasione. L’intero blitz sarebbe durato – parola di pirati – appena 16 minuti. La nuova Tortuga Fino a cinque anni fa, i mercantili che incrociavano lungo i 3025 chilometri di costa somala potevano essere al sicuro restando ad una distanza di 50 miglia marine. Oggi non lo sono più neppure a 200 o, come abbiamo visto, a 800 chilometri. Un segnale di come la pirateria abbia avuto una proiezione non solo numerica ma anche geografica. La Somalia è il luogo ideale per chi vuole agire fuori della legge. Dal 1991 non ha un Governo che abbia un controllo totale sul territorio, non dispone di Forze di sicurezza adeguate, è spezzata da rivalità e fedeltà ai clan. Se si aggiungono una situazione umanitaria catastrofica e il forte conflitto tra le autorità di transizione con militanti islamici, si comprende come l’illegalità abbia terreno fertile. Non è un caso che nel breve regno che ha visto gli integralisti delle Corti al potere la pirateria abbia patito un arretramento. I fondamentalisti volevano un controllo ferreo e non tolleravano deviazioni. Adesso che sono all’opposizione, incalzati da ripetute incursioni americane, sono pronti a fare lega con i criminali o a distanziarsi, a seconda degli interessi e dei momenti. I rapporti più accreditati indicano in almeno 1000 unità (altri parlano del doppio) il numero dei pirati. Cifra che va presa comunque con cautela, in quanto questi possono essere “a tempo pieno” – fanno questo e basta – oppure part-time, mescolando al brigantaggio attività legittime, come la pesca. I successi ottenuti negli assalti hanno sicuramente spinto decine di persone ad unirsi alle formazioni criminali. Non lo dicono solo gli ambienti marittimi, ma lo ammettono gli stessi abitanti della costa. Fonti di intelligence hanno individuato almeno quattro nuclei: i “Volontari della guardia costiera nazionale” a Kisimayo, i “Marines somali” ad Eyl e Harar Dheere, un gruppo nel Puntland e un altro nell’area di Markeh. Alcune formazioni – come ha denunciato il rappresentante speciale Onu per la Somalia, Ahmedou Ould Abdallah – godono dell’appoggio delle Autorità “provvisorie” e di quelle del Puntland. In una conferenza stampa, l’alto funzionario mauritano ha sostenuto che una parte del bottino è stata impiegata per finanziare l’attività politica del “presidente” Abdullahi Yusuf Ahmad. Quest’ultimo ha il sostegno del suo clan – Darod – e dei Majeerteen, che secondo informazioni concordanti, costituiscono la maggior parte dei bucanieri. Accuse che si estendono anche al “presidente” del Puntland, Muse: suo nipote è stato arrestato con una valigetta piena di dollari, probabilmente risultato di un riscatto. Soltanto negli ultimi tempi, sotto la pressione internazionale, le autorità del Puntland hanno adottato qualche misura – come la creazione di un tribunale – per contenere il fenomeno. Per avviare l’attività non serve molto. Una banda ha bisogno di due o tre battelli veloci, un sistema Gps (costo 125 dollari), una ventina di uomini bene armati (mitragliatrici, Rpg, probabilmente Sam 7 anti-aerei), eventualmente un radar (1875 dollari) e complicità di uomini a terra. Sono le sentinelle – alcune decine – che hanno il compito di vegliare sulla nave catturata. Nelle prime fasi di questa crisi i pirati lasciavano i porti – Eyl, Hobyo, Harar, Bosaso – e si lanciavano all’inseguimento dei mercantili, concentrandosi su quelli che avevano le fiancate più basse. Ma con il tempo – come dimostra il caso Faina – hanno allungato il loro rapace uncino, intercettando il possibile. Ad alcuni di loro piace presentarsi come eco-guerrieri ed affermano di condurre la lotta contro i pescherecci d’altura stranieri, che vengono a saccheggiare le riserve ittiche somale, contro coloro che, in quei fondali, scaricano rifiuti tossici . Secondo questa versione gli abbordaggi sarebbero simili a delle operazioni di polizia. Altri possono esibire una sorta di “tesserino ufficiale”, essendo stati addestrati in passato grazie ad un programma di assistenza internazionale. Un ruolo che ha lasciato il posto a quello, più redditizio, di bandito. Senza voler concedere alcuna giustificazione ai pirati è, però, necessario riconoscere che la pesca illegale, a danno della Somalia, è un fatto assodato, con 800 battelli che ogni anno buttano le reti in queste acque. Non diverso il discorso delle scorie pericolose. Per colpire al largo, i pirati ricorrono ad alcune navi-madre. Normali pescherecci, yacht, rimorchiatori ed un paio di unità – l’Athena e la Burun, delle quali l’IMB ha diffuso delle foto – dalle quali si sganciano i motoscafi per tentare gli assalti. Le navi madre si muovono nell’area di Bab el Mandeb in cerca di prede e, quando ne scoprono una, agiscono con molta rapidità. Fonti Nato hanno calcolato che tra l’avvistamento e l’attacco passano appena 15 minuti. Ciò spiega come possa essere difficile prevenire l’incursione, se non si è vicini al mercantile o non sia presente un elicottero, angelo custode piuttosto efficace in questi frangenti. Lo Us Navy’s Office of Naval Intelligence, il 24 ottobre, ha fissato in un suo report l’analisi su 21 incidenti verificatisi nelle settimane precedenti. Ecco i punti chiave: - tutte le navi sono state assalite di giorno, nell’unico caso avvenuto di notte c’era una Luna al 94% di luminosità; - la velocità media delle navi attaccate era di 14 nodi, pochi in più avrebbero potuto forse evitare il peggio; - i cargo con bordi “bassi” sono stati gli obiettivi preferiti dai pirati; - gli assalti si sono concentrati in un’area compresa tra le seguenti coordinate: 46 gradi longitudine Est, 38 minuti Est e 50 gradi longitudine Ovest, 32 minuti Est e ciò significa che vi sono condizioni di mare, vento, correnti e posizione di partenza ideali per i corsari. Per bloccare i mercantili, i pirati eseguono manovre rapide, minacciano l’uso delle armi da fuoco, in alcune occasioni, i pirati hanno sparato con razzi contro-carro (tipo Rpg), tutte dimostrazioni di forza sufficienti a intimorire gli equipaggi. Una volta a bordo, i pirati possono chiedere l’aiuto di rinforzi per tenere a bada i marinai e fronteggiare possibili azioni repressive. Quindi, costringono il Capitano a fare rotta verso i porticcioli che costituiscono la Tortuga dell’Oceano Indiano. L’emittente televisiva britannica Bbc ha avuto la possibilità di visitare quello di Eyl ed ha documentato come la vita di questo villaggio di pescatori sia cambiata profondamente. Gli abitanti del posto si sono organizzati per sostenere questa particolare “industria” che ha portato un relativo benessere. C’è chi lavora come sentinella per sorvegliare le molte navi e le centinaia di ostaggi. C’è chi, invece, si occupa della logistica, preparando il cibo per i prigionieri. Non manca neppure un portavoce che, in diverse occasioni, ha rilasciato interviste, “spiegato”, minacciato. Pochi personaggi – fidati – tengono i contatti con mediatori. Spetta a loro condurre la trattativa per il riscatto. Le Compagnie armatrici sono costrette a pagare in contanti. I criminali si sono organizzati con macchinette conta-banconote e piccoli aggeggi che permettono di stabilire che non si tratti di valuta contraffatta. In alcune occasioni sembra che i negoziatori abbiano usato l’importante piazza di Dubai. Cambiavalute e uomini di fiducia dei corsari ricevono la somma pattuita garantendo ai loro clienti che il bottino sia al sicuro. Tutto può essere fatto a distanza, usando un telefono satellitare e le connessioni tribali, più importanti di un’affiliazione politica. Interessante il racconto fatto da un pirata, Abdi Garad, presentatosi come leader di una ciurma attiva al largo del Puntland. “Noi viviamo grazie al denaro dei riscatti. Possiedo una casa, due fuoristrada, tre telefoni cellulari, un telefono satellitare e un computer portatile”. Grazie ai soldi incassati è stato in grado di sposare altre due donne. E alcuni residenti di Garowe hanno ammesso che proprio per l’improvviso benessere è cresciuto il numero di banchetti suntuosi e matrimoni. “Per noi si tratta solo di affari – ha aggiunto Garad – lo consideriamo alla stessa maniera in cui altri considerano il loro lavoro. Io solco l’Oceano da tempo, non per pescare, ma per inseguire i cargo che entrano nelle nostre acque territoriali e che nessuno controlla, a parte noi. Difendiamo le nostre acque dagli stranieri che scaricano i loro rifiuti tossici e saccheggiano le nostre risorse. Un giorno dovranno ricompensarci per questo”. Sono felici anche i commercianti della zona, che garantiscono i rifornimenti prima delle scorrerie e sono pagati quando arriva il riscatto. Reportage giornalistici – comparsi su “New York Times”, “Los Angeles Times” – hanno disegnato scenari che sembrano tratti da un vecchio film su Barbanera o Morgan. Quando i pirati ricevono il riscatto tornano a terra e si può dire che aprono uno “sportello” – un tavolo, una cassa piena di denaro – davanti al quale si formano lunghe code di persone. Un corsaro di Bosaso ha spiegato così la ripartizione: 20% ai capi, 20% per finanziare le operazioni, 30% agli equipaggi, 20% alle autorità locali. Tanti soldi fanno felici molti. Le prostitute dei bordelli locali, chi vende carburante, chi costruisce. In un’area di Bosaso, chiamata la “Nuova”, spuntano come funghi belle abitazioni che contrastano con la povertà circostante. I dollari però possono “camminare”. Nel senso che sono stati reinvestiti per acquistare il khat – una droga molta popolare nel Corno d’Africa e nello Yemen, ma anche in Europa – legname, pietre preziose, armi e trasporti di clandestini (centinaia di loro muoiono ogni anno nei naufragi). Altre risorse hanno alimentato il traffico di carbone da legna, conosciuto come ”oro nero”. Prodotto in Somalia, viene esportato verso gli Emirati Arabi ed altri Paesi del Golfo, dove c’è una domanda crescente. Più difficile stabilire se una porzione dei riscatti sia finita al movimento islamista Shabab, attivo in Somalia. Vi sono numerosi indizi a riguardo ed è probabile che i militanti abbiano preteso una sorta di tassa rivoluzionaria. In altri casi vi sono stati contrasti, risolti a colpi di fucile. Certamente, una fetta della “torta”, è arrivata ai signori della guerra per ottenere la loro protezione o, quanto meno, la neutralità. I rapporti di interesse o tattici con i miliziani aprono poi il capitolo armi. I pirati, rispetto ai loro antenati dei Caraibi, non sono costretti a munire i loro vascelli di cannoni. Però devono essere in grado di far paura. Il teatro somalo, insieme a quello yemenita, offre una buona disponibilità di prodotti bellici. Sui battelli d’assalto sono sistemate mitragliatrici di produzione russa o cinese, spesso affiancate dagli immancabili Rpg, costruiti per fermare i blindati e trasformati, a queste latitudini, in moderne colubrine. Strumenti di morte che costituiscono il modesto arsenale dei banditi schierati a protezione dei porti. Segnalazioni dell’Intelligence hanno avvertito sulla possibile presenza di sistemi anti-aerei portatili, del tipo Sam 7. Un paio sono stati usati nel 2002 – per fortuna senza successo – contro un jet passeggeri israeliano a Mombasa. Un fallito attacco di una cellula qaedista che opera da un decennio sull’asse Kenya-Somalia. Quanto all’arma individuale i pirati non hanno troppa scelta: il Kalashnikov in tutte le sue versioni. Russo, cinese, ucraino e “taroccato”. Infine, vale ricordare che i criminali sembrano cercare di migliorare la loro Intelligence. Impossibile stabilire quanto ci sia di vero ma alcuni di loro hanno sostenuto di avere spie nei principali porti – in particolare Dubai – che li informano sui carichi delle navi dirette verso il Golfo di Aden.
Le flotte Fino all’estate del 2008, la risposta internazionale al fenomeno della pirateria è stata a corrente alternata e spesso in ordine sparso. Molti Paesi si sono impegnati nel contrastarlo in abbinamento alla lotta al terrorismo. Sforzi importanti appesantiti da un problema di fondi, da una volontà non sempre ferrea e dai troppi impegni. Oggi i dispositivi navali sono chiamati ad operare in molti scacchieri (dal Libano al Golfo) con un conseguente assorbimento di risorse.La Marina italiana è stata tra le prime a partecipare alle missioni contro il binomio pirati/terroristi. Prima nelle acque dell’Oman, quindi in Africa. Significativa, per rimanere ad eventi recenti, la campagna di sorveglianza marittima “Medal 08” che ha portato il pattugliatore d’altura “Comandante Borsini” e il rifornitore di squadra “Etna” nel Golfo di Aden. Le due unità hanno operato dal gennaio 2008 fino all’estate scorsa, collaborando con altre Marine occidentali. Non si è mostrato solo bandiera ma si è agito: il 22 aprile, per esempio, il “Borsini” ha sventato un attacco contro la petroliera “Neverland”. Negli ultimi sei mesi, poi, in concomitanza con l’aumentare delle scorribande, abbiamo assistito ad un proliferare di iniziative che hanno spaziato dagli Stati Uniti alla Nato, passando per l’Unione Europea e gli interventi unilaterali. C’era e c’è la voglia di fare ma a tratti è sembrato che mancasse un reale coordinamento e anche il desiderio di andare fino in fondo. Tanto è vero che nella prima fase le Marine hanno preferito limitarsi alla scorta e non all’atto preventivo. Anche perché le Forze sul mare non sono poi così ampie. Inoltre, poiché il nemico non è una flotta ma un pugno di barchini, servirebbero reazioni rapide. Alcuni osservatori, proprio per la proliferazione di interventi, hanno auspicato la presenza di una nave comando ma ciò comporta che protagonisti, appartenenti a schieramenti diversi (pensiamo ai russi o agli indiani), accettino la supervisione esterna. Sul piano internazionale agisce dal 2001 la Task Force 150, che dipende dalla Quinta Flotta americana in Bahrein ed è composta da Canada, Danimarca, Francia, Germania, Pakistan, Gran Bretagna, Stati Uniti. In passato vi hanno aderito Australia, Italia, Olanda, Nuova Zelanda, Portogallo, Spagna e Turchia. Il comando è a rotazione e l’area di competenza è piuttosto ampia in quanto comprende Golfo di Aden, Golfo di Oman, Mare Arabico, la parte occidentale dell’Oceano Indiano. A disposizione della Task Force una quindicina di navi. Un numero discreto – hanno sventato 12 arrembaggi – ma che è ritenuto al di sotto delle esigenze. Lo dicono i fatti. Durante la crisi della “Faina”, nonostante il notevole dispiegamento e l’attenzione massima, i corsari hanno potuto rilasciare alcune navi, catturarne altre, ricevere riscatti. Il colpo più clamoroso quello che ha portato al sequestro della superpetroliera saudita. Con l’incremento degli attacchi, alcuni Paesi hanno deciso di aumentare in modo autonomo (o in parallelo alle strutture esistenti) la capacità d’intervento. I francesi, in particolare, hanno impiegato il proprio apparato militare – sei navi – che dispone, a Gibuti, di un importante punto d’appoggio. E, sul piano diplomatico, hanno guidato gli sforzi che hanno portato alla risoluzione 1816 delle Nazioni Unite che permette di inseguire i corsari anche nelle acque somale. In aprile, Reparti speciali francesi hanno lanciato un raid – con uso di elicotteri e forse di Predator americani – per catturare una banda di predoni del mare responsabile della presa di ostaggi. Operazione ripetuta in settembre dal Commando Hubert (Marina) per liberare due cittadini francesi catturati insieme al loro yacht. Secondo indiscrezioni, nel primo blitz, i militari avrebbero usato la pista abbandonata di Berbera, nel nord del Somaliland. Una posizione avanzata ideale per sostenere un’incursione di quel tipo. Il 23 ottobre hanno poi neutralizzato due imbarcazioni veloci, confiscato armi e arrestato nove pirati poi consegnati alle Autorità somale del Puntland. Dopo la Francia, si è mossa la Spagna, interessata alla protezione dei suoi pescherecci, spesso obiettivo di aggressioni. Madrid ha inviato un ricognitore P3 Orion, seguito da un Hercules da trasporto, con una novantina di uomini, tra tecnici, equipaggi ed elementi delle Forze speciali. Proprio il P3 ha sventato, il 28 ottobre, un assalto ad una petroliera lanciando tre fumogeni vicino alle imbarcazioni. Si era a 210 chilometri a nord dalla costa somala. Sempre nella zona hanno agito danesi e olandesi – che hanno messo a disposizione una nave a testa – e la Royal Navy con due unità. In un’occasione i marines britannici hanno ucciso alcuni pirati e arrestati altri. Oltre a pattugliare, le forze combinate hanno contribuito a creare un corridoio di sicurezza che taglia il Golfo di Aden, una via d’acqua dove sarà più marcata la sorveglianza. è il “Maritime Security Patrol Area” (Mspa), attivato su impulso del comando della Task Force 150. Un’area che dovrà essere monitorata con maggior attenzione dai mezzi aeronavali con l’aiuto di altri contingenti. Alla fine di settembre l’Unione Europea – sotto la presidenza francese – ha costituito una “cellula di coordinamento” per gestire una nuova spedizione affidata ad una decina di Paesi che contribuiranno con mezzi o sostegno finanziario. Tra questi: Francia, Belgio, Cipro, Germania, Lituania, Olanda, Spagna, Portogallo e Svezia. Il comando è basato a Northwood (Gran Bretagna) e con inizio missione a dicembre. Probabile l’utilizzo da 4 a 6 navi, appoggiate da mezzi aerei. Un portavoce ha spiegato il modello operativo: l’unità scorta un convoglio di navi in uscita dal Golfo di Aden e, successivamente, prende in carico quelle che procedono in senso inverso. Una procedura che ovviamente comporta dei ritardi: i mercantili possono essere costretti ad aspettare dalle 24 alle 48 ore. L’azione dell’Ue segue quella sotto l’ombrello della Nato. Ad ottobre, accogliendo un appello dell’Onu e delle Associazioni umanitarie internazionali, l’Alleanza Atlantica ha messo a disposizione la “Standing Naval Force Mediterranean-2” (Snfm-2), la task force di solito schierata nel Mediterraneo e formata da sette unità in rappresentanza di Stati Uniti (con il “The Sullivans”), Turchia (“Gocova”), Grecia (“Themistokles”), Gran Bretagna (“Cumberland”), Germania (“Rhon” e “Karlsruhe”) e Italia (“Durand De La Penne”). Ed è proprio un italiano, l’ammiraglio Giovanni Gumiero, a guidare la flottiglia che ha un compito primario: scortare, su richiesta, i mercantili del Programma alimentare mondiale che portano gli aiuti alla Somalia. Inoltre è prevista una serie di attività in collaborazione con le Marine del Golfo. Difficile pensare che possano bastare e peraltro il dispositivo ha un limite temporale (dicembre) e deve essere rinnovato. In ogni caso il 27 ottobre tre unità – tra cui il “Durand De La Penne” – hanno concluso la prima missione di scorta che verrà probabilmente estesa anche alle petroliere di quattro grandi compagnie che hanno chiesto la protezione atlantica. Il “Cumberland” è stato invece protagonista di un intervento cerca e distruggi. Misure militari che la Nato vuole rendere più mirate realizzando – sono le parole del segretario generale Jaap de Hoop Scheffer – “un sofisticato network di intelligence”. Un obiettivo raggiungibile con l’adozione del “Maritime situation awareness”, un programma che darà la possibilità di monitorare quello che avviene nell’Oceano, di condividere dati tra unità impegnate e autorità costiere, di seguire il “comportamento” delle navi segnalate. Un sistema simile a quello già attivo nel Mediterraneo e coordinato dal comando di Nisida (Napoli). Sulla scia occidentale e perché preoccupati dalle conseguenze economiche, si sono attivati altri Stati. La Lega araba e i paesi del Golfo Persico hanno avviato consultazioni per coordinare le iniziative. La Malaysia ha inviato tre navi (alla fine di ottobre era rimasta solo il “Mahawangsa”), la Corea del Sud e il Giappone hanno offerto la loro disponibilità a partecipare all’attività di polizia. Significativo l’impegno dell’India, pressata dai propri armatori a proteggere i connazionali imbarcati. è così intervenuta la moderna fregata “Tabar”, protagonista di un caso controverso. Il comando indiano – a novembre – ha annunciato l’affondamento di una nave-madre, sorpresa durante un assalto. Ma in seguito si è scoperto che in realtà si trattava di un peschereccio thailandese che stava per essere abbordato dai bucanieri: 14 i dispersi. La storia è emersa perché per un marinaio tratto in salvo ha raccontato la sua versione. New Delhi ha replicato sostenendo che dall’imbarcazione erano partiti degli spari verso la fregata. Un incidente accompagnato da critiche della Marina indiana all’indirizzo degli occidentali, giudicati troppo morbidi nei confronti dei criminali. Non meno interessante, ma per ragioni diverse, la reazione russa. Mosca, dopo il sequestro della “Faina”, ha distaccato una delle sue navi della Flotta del Baltico, la fregata “Neutrashimy”. Per alcuni osservatori, la Russia ha colto l’occasione per ritornare in una regione dove una volta possedeva punti d’appoggio importanti. Un’analisi rafforzata dalla possibile riapertura di una presenza fissa in un porto dello Yemen. Contatti che vanno in questa direzione sono già in corso tra Sanaa e Mosca. Senza nascondere le ambizioni, Sergei Mironov, presidente del Senato e molto vicino al Cremlino, ha sottolineato che i porti yemeniti non serviranno solo da normale scalo, ma avranno una funzione strategica. Interessi che non è solo la Russia a coltivare. L’incrociare di così tante navi – oltre 30 a fine ottobre, secondo fonti ufficiose – che issano le bandiere dell’Ue, della Nato, degli Stati Uniti, dell’India e di quanti altri hanno deciso di esserci, si presta ad una doppia lettura. La prima è che ci si è mossi per ristabilire la legalità. La seconda è che la nobile causa offre l’opportunità di presidiare una regione che fa da cerniera tra i mercati dell’Asia, le rotte del petrolio e un continente conteso quale è l’Africa. Un ulteriore segnale del grande interesse viene dalle iniziative anti-pirateria allo studio anche lungo le coste occidentali africane con unità europee e statunitensi. Qualche osservatore ha parlato di una riedizione, in chiave marittima, del Grande Gioco, la sfida che oppose russi e britannici per il controllo dell’Asia Centrale a partire dalla metà del 1800. Le contromisure Il vice ammiraglio americano Bill Gortney (Quinta Flotta) e il commodoro britannico Keith Winstanley hanno ipotizzato che le compagnie armatrici provvedano direttamente alla sicurezza dei loro mercantili. Affidandosi a contromisure passive e guardie armate. Idea, peraltro, non inedita. Nel novembre del 1999 il Puntland conclude un accordo con la società “Hart Security” che prevede la formazione di 70 uomini che dovranno rappresentare una sorta di guardia costiera. Viene acquistata una vedetta, mentre le armi sono comprate sul mercato locale. Il finanziamento dell’operazione è affidato alla tasse sulla pesca. Ma tutto si chiude nel 2002 quando la “Hart” si ritira perché il Puntland non mantiene gli impegni. Un subcontratto – nel 2000 – è siglato dalla “Pidc”, ma di nuovo gli esiti non sono confortanti. Tra il 2002 e il 2005 tocca alla “Somali Canadian Costguard”, chiamata ad intervenire nel Puntland. Però sorgono dubbi quando tre membri sono arrestati per pirateria in Thailandia. Nel 2005 il testimone passa ai sauditi della “Al Habibi” che non sono in grado di iniziare il lavoro, a causa della situazione sul terreno. Nel novembre di quell’anno il Governo provvisorio firma un contratto da 50 milioni di dollari con la “Top Cat” americana che promette “soluzioni rapide”. Ma l’intesa è bloccata dal Dipartimento di Stato che vede qualcosa di poco chiaro nella compagnia. Nel maggio 2008 spuntano i francesi della “Secopex”. Grande annuncio con rullo di tamburi per un contratto da 200 milioni di dollari, finalizzato alla protezione marittima. Progetto che tuttavia si scontra con la mancanza di fondi. Buon ultimi e con un nome da difendere, quelli della “Blackwater”, la società diventata famosa in Iraq e messa sotto accusa per i metodi usati. Nel tentativo di riciclarsi in un nuovo mercato, la compagnia si è offerta di operare nel Golfo di Aden, schierando la “McArthur”. Si tratta di una nave oceanografica riadattata per missioni di sicurezza. Può ospitare un buon numero di contractors – oltre 30 – dispone di un ponte di volo per due elicotteri “OH 6 Little Bird” e di tre gommoni. Il presidente della Blackwater, l’ex commando Erik Prince, ha sostenuto che una dozzina di compagnie armatrici lo avrebbero contattato per valutare la possibilità di un accordo. La “McArthur” concentrerebbe la sua azione nel Golfo di Aden facendo da scorta a convogli mercantili. Un riadattamento marittimo delle sue tecniche impiegate – non senza polemiche – nel difficile teatro iracheno.
Più fattibili le difese passive. Su alcune unità sono stati installati sistemi acustici particolarmente potenti in grado di investire con onde sonore gli aggressori. In almeno un paio di casi – nel 2005 e nel 2008 - sono riusciti a neutralizzare i pirati. Nella prima occasione il Capitano della “Seabourn Spirit”, nonostante i banditi avessero sparato un razzo con un Rpg, ha manovrato e poi centrato con un raggio acustico l’imbarcazione corsara. Quest’anno è stato invece un team della società inglese APMSS, imbarcato su una petroliera, a mettere in fuga gli assalitori. L’arma è composta da una sorta di megafono collegato ad un lettore Mp3: a mille metri è già efficace, a 100-200 metri gli effetti sono dolorosi e si può perdere anche l’udito. La compagnia offre squadre di tre uomini che per 20 mila euro di “noleggio” restano a bordo il tempo necessario al transito nelle acque pericolose. Gli iraniani, dopo il sequestro della -“Deyanat”, hanno invece steso del filo spinato lungo le fiancate. Altri capitani hanno fatto ricorso agli idranti, anche se ciò può esporre i marinai al tiro dei banditi. Tra le società che hanno strappato contratti la “Hollowpoint” (Mississipi) – specializzata nel condurre negoziati per i riscatti -, la “Drum Cussac” (ha registrato un incremento del 50%), la “Hart” (guardie a bordo), la “Olive Group” (sicurezza) e la Eos (sistemi di protezione passiva). Esperti navali hanno rilevato come le moderne navi militari siano a volte troppo sofisticate per i compiti anti-pirateria. I missili servono a poco contro i motoscafi veloci e sono per giunta costosi. Forse sarebbe meglio impiegare – aggiungono – unità più piccole, dotate di un cannoncino e qualche mitragliatrice. E, cedendo a qualche suggestione del passato, hanno teorizzato – e rimarchiamo che si tratta di pura teoria – l’installazioni di “pezzi” a bordo di mercantili. Un ricordo dei cargo armati usati durante il primo e il secondo conflitto mondiale. Più praticabile l’ipotesi di ricorrere alle “civette”. Navi che sembrano civili ma nascondono in realtà marines ben armati, in grado di mettere fuori combattimento i pirati. è ciò che fece nel febbraio 1832 il commodoro John Downes per infliggere una pesante sconfitta ai pirati di Quallah Battoo, Sumatra. Mimetizzò il “Potomac” da nave danese e colse di sorpresa i fortini tenuti dai corsari responsabili del massacro, avvenuto un anno prima, sulla “Friendship”. Ma tutte le iniziative – salvo situazioni d’emergenza – richiedono una copertura legale e diplomatica. “Una volta li avremmo spazzati via dal mare a cannonate. Oggi tendiamo ad essere più civili, politicamente corretti”, ha osservato il Capitano Douglas Hard che insegna diritto marittimo alla Us Merchant Marine Accademy di King Point (New York). Affermazione che tiene conto dei problemi di legge e ricorda come sia lontana la condanna per “impiccagione al pennone più alto”. Cosa si fa quando hai tra le mani un pirata? Dove lo processiamo? Di nuovo, le risposte sono state casuali. Un ammiraglio francese ha suggerito di dichiarare illegale la presenza di armi a bordo sulle navi che transitano nel Golfo di Aden. Chi viene sorpreso può essere arrestato: ciò permetterebbe interventi preventivi contro i finti pescatori. In ambienti europei si è discussa la possibilità di creare una Sezione speciale presso il Tribunale internazionale dell’Aja. L’Onu, in stretto coordinamento con i Paesi Nato, è al lavoro per varare una nuova Risoluzione che fissi i paletti legali e sottolinei i poteri di intervento. Gli indiani hanno evidenziato che la Convenzione del 1838 fornisce una sufficiente copertura legale. I danesi, dopo essere riusciti a prendere un gruppo di pirati, li hanno rimessi in libertà in quanto nessuno voleva farsi carico del processo. Mista la risposta francese. In un caso hanno trasferito in Francia una mezza dozzina di criminali e li hanno sottoposti a giudizio. In una seconda occasione – a ottobre – li hanno “passati” ai Dirigenti del Puntland, nonostante vi siano sospetti di collusione. Ombre consistenti che le Autorità e taluni clan hanno cercato di allontanare con molte promesse e qualche iniziativa. Un mercantile indiano, ad esempio, è stato liberato il 21 ottobre dopo una furiosa battaglia tra miliziani e corsari. Tre giorni dopo il Puntland ha annunciato la costituzione di un tribunale speciale che dovrà giudicare, “secondo la legge islamica, 23 bucanieri. I timidi passi dei somali hanno incoraggiato il Dipartimento dei Trasporti britannico a studiare una proposta che autorizzi la Royal Navy ad “abbordare, confiscare le navi ed arrestare i pirati” per poi affidarli a Mogadiscio. In base a nuovi ordini, i marinai di sua Maestà potranno usare la forza per neutralizzare i vascelli corsari e affondarli. Può sembrare una precisazione scontata, eppure non lo è in quanto la “legge del mare” non permette la distruzione dei battelli. Con una provocazione usata per enfatizzare le questioni da superare, un alto funzionario inglese ha affermato: “Se trasferissimo dei corsari a Londra correremmo il rischio di dover rispondere ad una loro richiesta d’asilo politico”, visto che provengono da una zona di guerra. Dubbi rimarcati dall’ammiraglio americano Mark Fitzgerald, dal quale dipende la task force Nato. Parlando in modo franco, il militare ha sottolineato i maggiori problemi per chi è chiamato ad operare: l’estensione geografica del teatro, che impedisce di essere presenti ovunque; la difficile classificazione di chi è pirata, visto che spesso lo diventa solo nel momento in cui attacca un’altra nave. Senza regole di ingaggio precise le unità possono fare della dissuasione o muovere in soccorso mentre è evidente che per i controlli preventivi servono forze maggiori. E non è un caso che l’ammiraglio, lasciando capire quale sia la sua preferenza, abbia sostenuto che forse è più pratico limitarsi al lavoro di scorta evitando insidiose mine legali. Una prudenza emersa anche davanti alla possibilità di decretare un blocco navale della Somalia, misura sollecitata dall’International Association of Indipendent Tanker Owners, associazione che rappresenta il 76% delle flotta petroliera. Il terrore Il Golfo di Aden non è solo infestato dai corsari. Nel tratto di mare si sono verificati, in passato, i due più gravi episodi di terrorismo marittimo. Il 12 ottobre 2000, un attentatore suicida qaedista si è lanciato con un barchino contro la nave da guerra americana “Cole” (17 morti, 39 feriti). Azione ritentata due anni dopo – 6 ottobre – nei confronti della petroliera “Limburg” al largo di Makalla. I Servizi di sicurezza e i comandi delle diverse Marine sono costantemente in guardia sul pericolo eversivo. E ora si teme una saldatura dei pirati con gli affiliati di Osama; un patto che può maturare per due ragioni. Primo. Conviene economicamente alle due parti vista l’entità dei riscatti ottenuti. Secondo. Un atto terroristico può accadere perché esiste l’opportunità: e il mare la offre. Può essere arduo dirottare un aereo o attaccare un aeroporto, è invece possibile assalire un mercantile o una nave da crociera. Sono i classici bersagli “soft” e l’esperienza insegna che i terroristi tirano la lancia dove non c’è corazza. Oppure, gli estremisti potrebbero adottare anch’essi la tattica della “civetta”. Utilizzano una vecchia carretta, fingono di essere vittime di un abbordaggio e chiedono aiuto. Quando la nave militare si avvicina provocano un’esplosione. Un pericolo considerato concreto. Durante i controlli nelle acque del Golfo Persico le unità della Nato si tengono a distanza di sicurezza, mandano gli elicotteri in ricognizione, affidano l’ispezione a team armati che raggiungono il cargo con due veloci gommoni. Uno accosta, un secondo rimane in appoggio. Rischi che hanno indotto a imbarcare aliquote di forze speciali (San Marco, Comsubin per l’Italia) e l’armamento ideale per fermare un battello-bomba. Una simulazione già provata negli ambienti dell’Intelligence ha ipotizzato che un commando si impadronisca di una petroliera, la blocchi in uno degli “imbuti” marittimi (Hormuz, Malacca, Aden) e lanci una sfida che ha implicazioni molteplici. Chi tratta con i criminali? Possono farlo separatamente o tutti insieme gli armatori, il Paese al largo del quale è in corso il dramma, i Governi degli equipaggi coinvolti, i proprietari del carico. Attori politici con diritto di parola ai quali si aggiungono i responsabili militari nel caso – come avviene in Somalia – stiano agendo flottiglie internazionali. E dunque, per stare all’esempio la Task Force 150, la Nato, la cellula Ue, l’Onu, la Russia. Le simulazioni trovano riscontri in quello che minacciano gli estremisti. In aprile militanti yemeniti hanno invocato il rilancio della lotta sul mare, in particolare nel Golfo di Aden. “è una necessità strategica”, affermano. E gli islamisti somali, all’annuncio della mobilitazione Nato, hanno dichiarato guerra a coloro che “intendono colonizzare la Somalia e diffondere il Cristianesimo con la scusa della lotta alla pirateria”. Minacce seguite da tensioni con i corsari, dopo la cattura della “Sirius”: i militanti non avrebbero gradito il sequestro di una nave appartenente ad un paese musulmano. Ma proprio il caso della superpetroliera è sembrato confermare le paure di chi teme sorprese eversive. Nuovi episodi di quella che può diventare una guerra asimmetrica, con pochi barchini capaci di beffare le grandi flotte. Basta tenere a mente i seguenti punti. - La Somalia ha dimostrato in passato come i qaedisti siano riusciti ad infiltrarsi nella crisi locale. Sono presenti da oltre un decennio, hanno sponde, reclutano, fanno propaganda (classica e su Internet). - La mancanza di Autorità centrale a Mogadiscio concede spazi invitanti agli estremisti, apre orizzonti per chi vuol agire al di fuori della legge, ostacola l’azione repressiva. - Nello Yemen i gruppi jihadisti continuano a riprodursi e guardano oltre i loro confini, in particolare l’Arabia Saudita. La loro vocazione è quella di creare danni (rifornimenti petroliferi, impianti, trasporti) con ripercussioni internazionali. Il Mar Rosso è pieno di bersagli. - Nella regione c’è una tradizione di terrorismo marittimo come testimoniano gli attentati al “Cole” e alla “Limburgh”. - I pirati possono risolvere i problemi logistici (base di partenza, battelli, coperture) degli eversori. Conclusione La sfida della pirateria non riguarda uno Stato in particolare ma è un problema internazionale. Affermazione che tuttavia non trova tutti d’accordo. Negli Stati Uniti non sono mancate prese di posizione che hanno ridimensionato il pericolo, altre hanno considerato quanto avviene come qualcosa di “cronico” e altre ancora come un ulteriore indizio del “disordine mondiale” al quale dovremo abituarci. Se davvero si vuole trovare una soluzione corale serve una linea comune, che si spogli di piccoli e medi interessi. Fissati i paletti d’intervento, la parola passa ai militari. La flottiglia ha bisogno di un centro di controllo e comando che possa usare al meglio le Forze disponibili. Un intervento che non può fare a meno di un supporto dell’Intelligence. La caotica situazione in Somalia, sotto questo aspetto, può essere un vantaggio. Le divisioni, la molteplicità di gruppi e il frastagliato quadro politico sono tutti ganci ai quali le Intelligence possono appendersi per poter carpire le informazioni sui pirati. Non basta sequestrare questo o quel finto peschereccio e catturare una gang. Serve bloccare il meccanismo che permette ai banditi di incassare il riscatto, bisogna scoprire i cassieri, occorre neutralizzare le sponde economiche, smascherare come il denaro viene reinvestito. Mansioni che spettano agli 007, non ai marinai. E per la riuscita di questa missione è fondamentale la collaborazione degli armatori. Accettare la trattativa con i briganti, con il conseguente pagamento del riscatto, costituisce un incoraggiamento a delinquere. Una situazione che abbiamo già vissuto per gli ostaggi in Iraq e in Afghanistan. Ma è chiaro che se chiediamo fermezza dobbiamo dare sicurezza a chi commercia sul mare. Una meta che non si consegue neutralizzando i barchini, “noiosi” quanto si vuole ma che sono poca cosa rispetto ad una moderna unità. Molti esperti avvertono che il cuore è sulla terra ferma. è probabile che davanti a munite navi da guerra le ciurme si faranno solo più caute ma – come si è visto – non rinunceranno al loro “lavoro”. Per questo gli strateghi insistono: senza lo smantellamento della Tortuga non ci sarà vittoria sulla pirateria. Un’indicazione giusta che si scontra con i problemi del presente e i fantasmi del passato. Un intervento terrestre è possibile, a patto che sia limitato a incursioni “mordi e fuggi“(lo hanno fatto francesi e americani) con il ricorso ad unità di commandos elitrasportate. Oppure servendosi, con una rischiosa scelta, dei clan, protagonisti di una “guerra segreta”. Un’estensione del conflitto che viene già combattuto nell’ombra contro gli islamisti Shabab. I Governi occidentali, memori di quanto è avvenuto con la missione “Restore Hope” (1) , possono permettersi dei blitz, ma non spedizioni che somiglino ad un’invasione. Un’alternativa – se mai sia praticabile – è quella di dare una mano alle Autorità somale e di “convincere” i clan coinvolti nei traffici a smetterla. Non è detto che funzioni. Chiederanno qualcosa in cambio e il timore di finire in un ginepraio è radicato. In questi anni si è visto come il controllo di un’emergenza – ad esempio quella dell’immigrazione illegale – diventi uno strumento di pressione se non di vero ricatto nei nostri confronti. Oggi come nel 1991 c’è un’emergenza umanitaria che può aiutare a piegare certe resistenze, però non appare sufficiente a favorire iniziative rischiose. L’impressione è che ci si accontenti di tenere sotto controllo le scorrerie, con soluzioni di medio termine. Dunque passi dosati. E il mare che è troppo ampio per poter essere sorvegliato completamente, appare improvvisamente angusto. |
(1) Nel dicembre 1992 una Forza multinazionale, della quale faceva parte anche l'Italia, é intervenuta in Somalia.
|