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GNOSIS 3/2008
La fabbrica del terrore in movimento

Al Qaeda vent’anni dopo
... e venne l’ora del dissenso


Guido OLIMPIO


da www.johnfenzel.typepad.com
Al Qaeda vent'anni dopo non è più così monolitica come appariva all'indomani dell'11 settembre. L'organizzazione terroristica fondata da Osama Bin Laden è molto cambiata e giungono, dal suo interno, segnali di un dissenso sempre più aperto. Guido Olimpio ha analizzato documenti e approfondimenti di studiosi e ricercatori sul fronte del terrorismo, che non sempre conducono a conclusioni univoche.
Le informazioni di intelligence, lo studio attento dei documenti disponibili e di quanto appare su Internet, consentono comunque di stabilire che la politica stragista ha provocato forti dissensi, soprattutto nell'ultimo periodo: lo stragismo islamista ha alienato non solo talune teste pensanti della Jihad, ma con le uccisioni indiscriminate gli estremisti si sono trovati contro quegli stessi che volevano trasformare in seguaci.
Oltre le strategie e le tattiche dei terroristi, a scavare un fossato all'interno del movimento c'è anche una questione ideologica che provoca crepe evidenti già emerse in due avamposti importanti per Al Qaeda: l'Iraq e l'Algeria. Ma la crisi tutta interna all'organizzazione non significa il tramonto di Al Qaeda. Mancata la prova delle Olimpiadi di Pechino, per alcuni analisti sono le elezioni presidenziali americane il prossimo appuntamento con il terrore islamista. Ma, come sottolinea Guido Olimpio, non sempre le previsioni degli analisti hanno colto nel segno.





Nell’agosto del 1988 Osama Bin Laden ed un pugno di seguaci hanno fondato la “base”, Al Qaeda. Vent’anni dopo il marchio tiene ancora, anche se la “fabbrica di morte” che lo ha creato lamenta problemi, contrasti interni e difficoltà a mantenere l’unicità del “prodotto terroristico”. Per il Califfo aver raggiunto il ventennio è già un successo. Poche organizzazioni eversive sono riuscite a farlo, senza venire meno ai propri ideali e alle loro pratiche. Ma proprio perché il percorso è stato così lungo, è inevitabile che compaiano voci fuori dal coro, dissonanti da quella del leader.
E infatti tra le file dei jihadisti serpeggiano forme di dissenso. Sono manifestazioni limitate a pochi intellettuali e con ridotte conseguenze sul campo, sufficienti però a disturbare le guide spirituali del movimento. Osama e il suo compagno di lotta, Ayman Al Zawahiri, hanno dovuto reagire e tirare le redini. Non lo avrebbero fatto se non avessero scorto un’insidia nascente.
Quella di Al Qaeda potrebbe essere una crisi dovuta alla tendenza dei capi a coprire quante più crisi possibili, a intervenire in ogni conflitto che coinvolge i musulmani (e gli Stati Uniti), a provare a soffiare su ogni focolaio, senza però avere le leve giuste per determinare i meccanismi. Ma il dissidio può trasformarsi in qualcosa di più profondo. Perché non è solo una questione ideologica a mettere zizzania - una fessura che gli occidentali provano ad ampliare con manovre di contro-informazione - ma sono le strategie e, di conseguenza, le tattiche stesse dei terroristi, a scavare un fossato all’interno del movimento. E le crepe più evidenti sono emerse in due avamposti importanti per Al Qaeda: l’Iraq e l’Algeria.
In questi due Paesi lo stragismo islamista ha alienato non solo talune teste pensanti della Jihad. Uccidendo in modo indiscriminato, gli estremisti si sono trovati contro quegli stessi che volevano trasformare in seguaci. Se sul territorio iracheno il pendolo non è più dalla parte di Al Qaeda è anche a causa dei massacri compiuti tra civili inermi. Gli eredi di Al Zarkawi volevano creare la guerra civile sciiti-sunniti, invece hanno esasperato le relazioni all’interno del campo sunnita. Coloro che erano stati, per un certo periodo, alleati e complici di Al Qaeda, hanno imbracciato il fucile contro i seguaci di Osama, spingendoli sulla difensiva. Una più intelligente strategia – chissà perché non l’hanno adottata prima – ha portato il Pentagono e il Governo di Baghdad a stringere un patto con le tribù sunnite, ha creato un’interazione tra popolazione e autorità, ha sfruttato gli errori dei terroristi. I clan sono stati ricompensati non solo con il denaro (tanto), ma anche riconoscendo un ruolo che è forse insostituibile. I mesi a seguire diranno se il patto – temporaneo e fragile, fatto di interessi e non di condivisione di obiettivi – possa essere trasformato in qualcosa di duraturo.
In questa fase di estrema incertezza la stessa evoluzione qaedista appare tumultuosa e si presta a giudizi diversi, al punto che gli esperti litighino sullo status dell’organizzazione.
Da un lato c’è chi la vede in fase calante, priva ormai di una struttura gerarchica vera, dall’altro c’è chi sostiene che, malgrado gli evidenti problemi, sia sempre un nemico pericoloso in grado di ripetere un 11 settembre in qualsiasi momento. Posizioni contrapposte, favorite dalla particolare natura del movimento creato da Osama. Come osserva l’esperto Steve Simon, lo studio di Al Qaeda è più arte che scienza.
E dunque lascia molto spazio all’interpretazione personale, a volte sganciata dai fatti, dai numeri e dalla realtà. Nelle pagine seguenti ci soffermeremo su quanto è avvenuto durante gli ultimi due anni all’interno della nebulosa terrorista, metteremo a confronto il giudizio degli analisti, cercheremo di pesare – per quanto possibile – la vera forza di un fenomeno che ha cambiato, comunque, la vita dell’Occidente e del mondo musulmano.


La sfida del dottor Fadl

L’esempio più clamoroso di rivolta all’interno di Al Qaeda è incarnato dalla figura di Sayed Imam Al Sharif, meglio conosciuto come dottor Fadl. Vera guida spirituale e politica della Jihad egiziana, autore di testi fondamentali per gli estremisti, venerato come un dotto, era insieme a Osama nei giorni della fondazione. La sua presa di posizione – contenuta nel “Documento per la giusta guida dell’attività di Jihad” – è esplosa come una bomba. Un documento accompagnato da una serie di interventi sulla stampa, spediti via fax dal carcere egiziano di Tora, dove sconta l’ergastolo, Fadl ha messo in discussione le scelte di Osama, l’uccisione di civili, gli attacchi contro i regimi arabi che opprimono i musulmani.
Per l’ideologo l’11 settembre è stato una catastrofe, ha rappresentato un tradimento verso i talebani (che sarebbero stati contrari) e persino verso il nemico. Purista, profondo osservante, Fadl ha sostenuto che i 19 kamikaze sono entrati negli Stati Uniti con il visto e, dunque, dovevano comunque rispettare la legge dell’avversario. Parole di condanna, poi, per quelle fazioni che si sono finanziate con rapimenti e attività illegali.
Aspetto ancora più importante, il dissidente ha avanzato dubbi sulla legittimità dei vertici qaedisti, ritenuti inadeguati sotto il profilo della conoscenza religiosa. Ai suoi occhi sono degli ignoranti che hanno sfruttato la rabbia dei musulmani. Un attacco legato sia a questioni ideologiche che personali. Fadl, che ha svolto il ruolo di mentore di Ayman Al Zawahiri, ha accusato quest’ultimo di avergli sottratto e cambiato un testo poi diffuso tra i qaedisti. Una manipolazione del pensiero di Fadl per giustificare le successive mosse di Al Qaeda. Un affronto che l’ideologo non ha mai perdonato: in una delle dichiarazioni fatte uscire dalla prigione ha definito Al Zawahiri “un ciarlatano” sottolineando come l’attuale numero due di Al Qaeda abbia tradito – sotto tortura – i suoi compagni.
Sullo sfondo c’è poi una diatriba più profonda che ha opposto il “partito della giurisprudenza” (Fadl) al “partito dell’azione” (Al Zawahiri).
Il primo, pur mantenendosi su posizioni radicali, ha raccomandato prudenza nei passi da compiere: il movimento islamista sarebbe passato all’offensiva quando era ancora debole e impreparato. Ancora. L’ideologo egiziano ha invitato alla cautela nel prendere alla lettera quanto viene pubblicato sui siti islamisti – oggi grande fonte di ispirazione per i militanti – ed ha denunciato la “giurisprudenza della giustificazione”. Un richiamo a quanti sembrano adattare la Sharia (la legge islamica, ndr) ai loro obiettivi e trovano una base “giuridica” solo dopo aver compiuto un’azione.

La sortita di Fadl ha rappresentato l’emerso di un lungo dibattito che ha coinvolto i principali dirigenti integralisti prigionieri nelle carceri egiziane. Detenuti in condizioni severe, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, hanno avuto tempo di riesaminare il loro passato e prendere coscienza degli errori compiuti.
Proprio la particolare situazione in cui vivono è stata usata da Ayman Al Zawahiri per replicare. L’altro dottore ha redatto a sua volta un libro di 200 pagine e lo ha diffuso su Internet ribattendo alle critiche. Il chiodo, al quale appende la sua difesa, è abbastanza scontato: Fadl e gli altri sono stati costretti a “pentirsi” e, comunque, hanno agito di concerto con le autorità egiziane. Osservazione non del tutto infondata visto che è molto strano – e il medesimo Al Zawahiri lo ha notato con sarcasmo – che un estremista possa usare un fax in una prigione di massima sicurezza, quale è Tora. La reazione furente e prolungata nel tempo con alcuni messaggi su Internet costituiscono la prova che il colpo di Fadl ha lasciato il segno.


Manovre libiche e saudite

La tempesta in Egitto ha avuto un fenomeno parallelo in Libia. Grazie alla mediazione di Noman Benotman, un ex membro del Gruppo islamico libico combattente, una delle tante costole qaediste, il regime di Gheddafi ha avviato una trattativa con i dirigenti islamisti in prigione. Benotman – lo conosciamo personalmente – era anch’egli in Afghanistan negli anni della crescita di Al Qaeda. Nel 2000 partecipa ad un summit con Osama che gli confida: Ancora un’operazione e poi smetto. Un’allusione all’11 settembre. Progressivamente Benotman prende le distanze dal movimento, non nasconde il suo disappunto per le conseguenze dell’attacco all’America e poi rompe definitivamente con gli ex compagni. Una posizione espressa con una lettera inviata ad Al Zawahiri.
I negoziati condotti dal mediatore infastidiscono le iniziative di Al Qaeda che, tra il 2006 e il 2008, cerca di mettere il suo timbro sulle formazioni che agiscono in Nord Africa. Una manovra consacrata dall’adesione del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento algerino alla “casa madre”: uno spostamento su posizioni internazionaliste benedetto dal cambio del nome in “Al Qaeda nella terra del Maghreb”. Un’evoluzione marcata dall’uso dei kamikaze, da attacchi contro bersagli stranieri, dal ricorso a Internet per la propaganda, dal tentativo di influenzare e controllare i militanti nei Paesi vicini.
L’iniziativa di Benotman ha rilievo perché si inserisce in un disegno più ampio che vede molti Paesi arabi non usare solo il bastone per contrastare gli islamisti. Algeria, Libia e Arabia Saudita uniscono la repressione a offerte di reinserimento per quanti rinunciano alla violenza. Una strada difficile, con risultati alterni, che tuttavia ha avuto il merito di uscire dalla semplice logica dello scontro ed ha offerto un’alternativa. è in questa cornice che alcuni importanti sheikh sauditi sono emersi dal cono d’ombra di Al Qaeda per denunciare iniziative non più accettabili.
Il caso più clamoroso è quello di Salman Al Awda. Una volta grande sostenitore di Bin Laden, punto di riferimento per terroristi, finito in prigione in Arabia Saudita e poi liberato, ha scorticato il suo “figlioccio”. Con una intervista rilasciata alla tv Mbc ha pronunciato poche frasi diventate famose: "Caro Fratello Osama, quanto sangue dovrà essere versato? Quanti innocenti… dovranno essere uccisi nel nome di Al Qaeda?". Quindi ha ricordato che Bin Laden "è un uomo semplice, senza credenziali religiose, ma che ha una personalità che attira".
Al Awda, per rimarcare la sua posizione, ha specificato di aver espresso critiche in passato nei confronti di Al Qaeda, evitando, però, di attaccare direttamente Osama. Sulla stessa lunghezza d’onda un altro famoso veterano della guerra in Afghanistan, l’algerino Abdullah Anas, oggi residente in Gran Bretagna. Per il mujahed il punto di rottura è stato rappresentato dalle bombe di Madrid e Londra: "Atti criminali, contrari alla legge islamica".
Più sfumati, infine, i rilievi del giordano Mohammad Al Maqdisi, per anni padre spiritualedi Al Zarkawi e con largo seguito negli ambienti integralisti. L’ideologo è stato tra i primi a condannare gli eccessi compiuti a Baghdad senza, però, rinunciare al radicalismo estremo. A lungo detenuto, è stato liberato di recente dalle autorità giordane per motivi di salute. La traiettoria di Al Maqdisi disegna uno scenario dove gli ispiratori della Jihad non si pentono e né abiurano. Attenuano solo le loro tesi violente con il pragmatismo, tendendo l’orecchio agli umori della strada.
Così sopravvivono alla reazione degli apparati di sicurezza, rimangono un punto di riferimento per i loro fedeli, proteggono le loro dottrine limitandosi a voltare le spalle quando viene sparso troppo sangue.

Foto Ansa- Osama Bin Laden ed Ayman Al Zawahiri


L’impatto

Raccontate, sviscerate fino all’ultima sillaba, commentate, le prese di posizione dissidenti sono state viste come uno spartiacque decisivo da quanti vedono nero nel futuro di Al Qaeda. Ma non sono mancati coloro che le hanno ridimensionate. Per Michael Scheuer, ex capo della Alec Station, l’unità Cia che coordinava la caccia a Osama, le dichiarazioni sono importanti, però non toccano le basi fondamentali del qaedismo ed hanno scarso impatto sulla “strada”. Anzi, agli occhi di molti giovani, affascinati dall’integralismo violento, i dissidenti appaiono come dei disfattisti, che accettano di sottomettersi all’avversario. Sul quotidiano Al Hayat, Murad Al Sishani aggiunge alcuni punti:
1) la rissa ideologica tra riformisti e puri non è cosa nuova. è dagli anni ’80 che litigano, mischiando ambizioni personali e questioni di fondo;
2) il messaggio di contestazione non sembra venir recepito da una larga audience: ossia è “letto” solo da una categoria di intellettuali;
3) l’area di reclutamento per i vertici di Al Qaeda si è spostata dall’Egitto all’Arabia Saudita e, più di recente, in Algeria. Il movimento si è spezzettato e decentralizzato. Forse il qaedismo è in declino, ma all’opposto raccoglie consensi il salafismo, interpretazione ultradicale dell’Islam.
Il partito dei diffidenti, poi, riconosce che la denuncia di Fadl o Al Awda è inficiata da un aspetto non secondario: entrambi vi sono arrivati dopo aver conosciuto la prigione. Dunque: quanto è genuina? è il frutto di un baratto con chi ha in mano il loro destino? Dubbi legittimi che diventano colpe agli occhi di qualsiasi militante. E, infatti, è stato il tasto su cui ha più insistito Al Zawahiri nella sua polemica on-line.


La tesi Sageman

Il confronto sui massimi sistemi della Jihad si è riprodotto, in campo occidentale, sull’attuale consistenza di Al Qaeda. A far rumore l’ex agente Cia e psichiatra Marc Sageman, autore del libro “Leaderless Jihad” e oggi consulente del Dipartimento di Polizia di New York. La sua tesi è che il movimento è passato da una organizzazione strutturata e guidata dalla gerarchia qaedista ad una moltitudine informale di gruppi locali che tendono a emulare i predecessori. Sono amici o vicini di casa che si radicalizzano insieme, crescono insieme e finiscono per agire insieme. è la tesi della “banda di ragazzi”, quella delle cellule spontanee. Un tema che abbiamo affrontato in un altro numero di Gnosis.
Sempre per lo studioso, il pericolo maggiore è in Europa in quanto è più facile che si formino queste realtà data la particolare situazione sociale delle comunità musulmane. Nella sua analisi è mutato anche il profilo dei mujaheddin.
Rispetto alle “truppe scelte” responsabili dell’11 settembre, le nuove reclute sono molto più giovani, con scarsa scolarizzazione e bassa – se non assente – preparazione religiosa. Nascono, vivono e diventano estremisti in Europa, per poi lasciarsi affascinare da uno slogan che Sageman sintetizza in "Jihad è bello".
Un’evoluzione caratterizzata da quattro passi:
1) rabbia morale per come sono trattati i musulmani nel mondo;
2) considerare questa rabbia come parte della guerra sull’Islam;
3) fusione di questi sentimenti con i problemi quotidiani che un giovane può avere in qualsiasi Paese;
4) mobilitazione o creazione all’interno di un network sociale: amici, parenti, etc..
Sageman, che sotto il fuoco della critica ha ritoccato qualche posizione, si è affrettato a sostenere che non vuole sottostimare la rilevanza di Osama e della “vecchia guardia”. Però insiste. A suo giudizio i radar dell’antiterrorismo devono essere puntati su quelli che Al Zarkawi chiamava i “leoncini”.
Il libro di Sageman si è intrecciato con alcune valutazioni dell’Intelligence statunitense – anche queste poi rivedute e corrette – che hanno iniziato a parlare di vittoria su Al Qaeda. Lo stesso Direttore della Cia, Michael Hayden, figura prudente e misurata, non ha nascosto la propria soddisfazione per i risultati conseguiti su diversi fronti. Non solo Al Qaeda è in ritirata in Iraq, ma sta perdendo “la battaglia delle idee”, un chiaro riferimento al dissenso interno e alla reazione negativa provocata dalle stragi. Robert Grenier, un ex alto dirigente della Cia e buon conoscitore della realtà terroristica, ha aggiunto: “Il peggior nemico di Al Qaeda è Al Qaeda stessa”. Volendo intendere che il movimento osamiano potrebbe autodistruggersi, dilaniato dalle faide intestine e da scelte controproducenti.
è stata poi la volta del segretario alla Homeland Security, Michael Chertoff, che, davanti alle telecamere di Fox Tv, ha dichiarato: “Oggi è l’Hezbollah l’A-team del terrore… Al Qaeda al confronto è una squadra di serie B”.


La risposta

Il quadro a tinte tenui ha inevitabilmente acceso la polemica. Con attacchi, anche aspri, da parte degli analisti che ritengono ingenuo e superficiale l’approccio di Sageman. Capofila di questa corrente è Bruce Hoffman, professore della Georgetown University e un’autorità negli studi sul terrore, essendosi dedicato alla ricerca ben prima dell’11 settembre. Lo studio di Sageman non ha basi scientifiche – è la sua affermazione – e troppe volte abbiamo celebrato il funerale della fazione di Osama.
“Al Qaeda è molto simile ad uno squalo – scrive – che è costretto a muoversi continuamente, non importa come e a quale velocità, altrimenti muore. Al Qaeda deve costantemente adattarsi e aggiustarsi agli sforzi dei nemici di bloccare i suoi piani e, al tempo stesso, deve identificare nuovi bersagli. La capacità di sopravvivenza è direttamente legata alla sua determinazione e all’amplificazione della propria ideologia”.
Hoffman, a sostegno delle sue argomentazioni, cita il National Intelligence Estimate del 2007 e altri documenti redatti fino all’estate 2008 dagli apparati di sicurezza statunitensi come da istituti di ricerca. Dossier dai colori decisamente forti. Vediamoli in sintesi.
*Resta la maggior minaccia alla sicurezza nazionale con la leadership centrale che continua a pianificare complotti “ad alto impatto” e spinge comunità estremiste sunnite a emulare i suoi sforzi e sostenere le sue capacità.
* E' un' organizzazione agile e flessibile, con una catena di comando che funziona dall’alto verso il basso e viceversa. Le capacità operative restano intatte.
* Ha creato un santuario ben protetto per i suoi dirigenti nell’area tribale pachistana (Fata), trovando sponda nella coalizione dei talebani locali, oggi guidati da Beithullah Mesud. In questa culla del terrore, i qaedisti assumono la funzione di “moltiplicatori di forza”, ossia provvedono ad assistenza militare e indottrinamento.
* Ha perso quadri importanti nel corso degli anni, ma ha dimostrato di saperli rimpiazzare mostrando, di nuovo, grande spirito di adattamento e iniziativa.
* Il network ha intensificato gli sforzi per reclutare cittadini con passaporto europeo. In marzo si è verificato un attacco condotto da un tedesco di origine turca. Uno dei tanti giovani partiti per Afghanistan e Pakistan.
* Alcune formazioni di ispirazione jihadista, come i talebani pachistani o il Movimento islamico uzbeko, hanno assunto il ruolo di cinghia di trasmissione del terrore. Accolgono, arruolano, preparano ideologicamente e militarmente reclute provenienti sia dal Medio Oriente che dall’Europa. Militanti a doppio uso. Possono andare in missione nel teatro afghano oppure vengono rispediti nei Paesi di provenienza, per organizzare attacchi. Indagini in Spagna e in Germania hanno confermato la presenza di cellule “radiocomandate”, anche se i rapporti gerarchici con l’area tribale non sono stati chiariti del tutto.
* L’importanza della Fata è testimoniata da un cambio negli spostamenti delle reclute. Oggi per gli americani è il settore afghano-pachistano la meta preferita dei volontari jihadisti. Al punto che numerosi militanti avrebbero deciso di lasciare l’Iraq per unirsi ai “fratelli” che operano ad Oriente. Movimenti dettati sia dalla partita che si gioca in quest’area sia dalle obiettive difficoltà dei qaedisti sul territorio iracheno.
* Osama e Al Zawahiri hanno dedicato diversi interventi propagandistici al nodo palestinese e ad Israele, lasciando in secondo piano il fronte iracheno. Uno “shift” interpretato come il tentativo di recuperare terreno giocando una carta sempre cara ai musulmani e allontanandosi da un quadrante – l’Iraq – dove i qaedisti sono chiaramente sulla difensiva. Al Qaeda – è l’interrogativo – rilancerà le sue azioni colpendo Israele?
* Le Olimpiadi di Pechino e le elezioni presidenziali americane: due avvenimenti “storici” che coincidono con il ventennale di Al Qaeda. Per i terroristi una duplice opportunità. In Cina, dove avrebbero potuto agire in nome della minoranza islamica degli uighuri (una componente separatista che ha trovato appoggi nell’onnipresente regione di confine afghano-pachistana sotto la bandiera del Movimento islamico dell’Est Turkestan), ci sono stati alcuni attentati con vittime, ma si è trattato di atti più dimostrativi che strategici. Negli Stati Uniti la scelta del Presidente invece è la classica occasione che potrebbe stimolare i qaedisti ad agire in modo molto più plateale. Ancora di più oggi, vista la profonda differenza sul tema della lotta al terrore tra i due candidati.
In aggiunta alle conclusioni statunitensi, Bruce Hoffman ha citato i reports dei Servizi di Sicurezza britannici. In particolare quello preparato dal MI5 che parla di almeno 2000 elementi di Al Qaeda attivi nel Regno Unito. Dopo gli attentati di Londra e Glasgow, i segnali emersi dalle dichiarazioni ufficiali sono che i terroristi potrebbero colpire ancora e in qualsiasi momento. Sulle caratteristiche del potenziale attentatore, però, le interpretazioni sono meno nette rispetto al parere di Hoffman.
Riesaminando la natura della cellula responsabile degli attacchi nel metrò (2005), si continua a discutere su quale fosse il vero link tra i kamikaze e la casa madre. Si è partiti dalla cellula auto costruita e semi-spontanea e ci si è poi concentrati sul viaggio in Pakistan fatto dal leader, Mohammed Siddique Khan, quale prova di un contatto operativo. In realtà, come ha notato il professor Samuel Rascoff dell’Università di New York, l’episodio si presta ad una doppia lettura. Senza la missione in Pakistan forse non ci sarebbe stato l’attacco del luglio 2005. Ma non vi sarebbe stato comunque se i terroristi non avessero scoperto il radicalismo tra le pareti di casa, in Gran Bretagna.
Stesse conclusioni se guardiamo alle bombe di Madrid (marzo 2003). Le condanne del tribunale hanno riconosciuto la colpevolezza di un gruppo di estremisti “locali” che hanno concepito la strage in Spagna. La morte degli esecutori ha sicuramente impedito di fare maggiore chiarezza e la fuga di alcuni sospetti, ben vicini al qaedismo, non ha permesso di far emergere il tanto cercato link. Ma andando indietro nel tempo e osservando la nascita delle prime cellule in Spagna si possono scorgere, perlomeno, dei vincoli che non sono esclusivamente ideologici.


La terza via

Tra i due schieramenti si è insinuata una terza via, aperta da addetti ai lavori, investigatori ed esperti. Convinti che nell’affrontare il terrorismo serva un approccio pragmatico e snello, pari a quello mostrato dai qaedisti. Per l’indiano B. Rahman hanno ragione sia Sageman che Hoffman. Un numero crescente di musulmani, feriti e accecati da quanto vedono, intraprendono il cammino della Jihad senza identificare se stessi in Al Qaeda. Lo studioso cita, per l’appunto, la strage di Madrid e si allarga poi a quanto avvenuto in questi mesi in Pakistan. I molti attacchi suicidi sono stati condotti dagli “adoratori” di Osama, senza aver ricevuto un ordine dal movimento. Per Rahman quanti ricadono sotto questa categoria hanno solo capacità tattiche e i loro obiettivi ne risentono. è invece la casa madre ad avere la forza per uno strike strategico come l’11 settembre. E l’esperto indiano condivide l’allarme di Hoffman: l’espansione del terrorismo individuale o delle cellule spontanee non deve indurre a pensare che Al Qaeda centrale sia divenuta inoffensiva.
Il giudice spagnolo Baltasar Garzon, che nel corso degli anni ha studiato con attenzione il fenomeno, è preoccupato dalle conseguenze negative. E consiglia di uscire dal dilemma “bianco o nero”. “Negli anni ’90 guardavamo ai gruppi sparsi, poi si è manifestata Al Qaeda, ora diciamo che non esiste più e che non rappresenta una minaccia come in passato. Stiamo facendo lo stesso errore di dieci anni fa”: sono le parole affidate al New York Times.
Anche Peter Bergen, che insieme a Paul Cruickshank aveva aperto il dibattito sul declino di Al Qaeda, ha preso carta e penna per precisare. E se non rigetta completamente le affermazioni di Sageman, è deciso nell’invocare la massima attenzione. “Il pericolo dei seguaci di Al Qaeda non si è estinto e l’influenza di Osama è più ampia di quella immaginata da molti analisti. La sua Jihad è ancora più forte di quando riuscì a fuggire dalle montagne di Tora Bora, nell’inverno 2001. I talebani stanno rinascendo in Afghanistan e le fazioni estremiste in Pakistan sono cresciute in modo aggressivo, da minacciare una città importante quale Peshawar. Gli islamisti in Europa e in Nord Africa continuano a godere della benedizione di Osama e del marchio di Al Qaeda”.
Il nocciolo duro si è probabilmente ridotto rispetto all’epoca d’oro pre-11 settembre. Stime dell’Intelligence egiziana parlano di 200 uomini, forse meno. Per gli americani il numero sale un poco: dai 300 ai 500. Sotto questo gradino, si muovono con grande intensità quelle fazioni legate da semplici rapporti ideologici. Probabilmente sono piccole, con ambizioni superiori alla loro vera consistenza, ma hanno le risorse per nuocere. Tre casi per rimanere nel concreto. In Algeria “Al Qaeda nella terra del Maghreb”, dopo rese e arresti, può mettere in campo al massimo 400 militanti. Pochi per cambiare la storia, tanti per semimare il terrore con le tattiche copiate nell’accademia qaedista, sufficienti per insinuarsi nei Paesi vicini (Tunisia, Mauritania, Marocco) con una presenza propria o attraverso una joint venture con nuclei locali. In Marocco la polizia ha annunciato di aver neutralizzato due focolai che avevano in animo di colpire obiettivi occidentali e turistici.
In Turchia un commando ha attaccato il consolato Usa di Istanbul: azione con scarse possibilità di successo e amatoriale che, tuttavia, conferma come il pericolo terrorismo abbia ancora radici.

- Marc Sageman da http://cache.daylife.com -
Le hanno tagliate più volte e si sono sempre riformate, traendo linfa dal vicino conflitto iracheno e dalle collusioni in Afghanistan/Pakistan.

Conclusione

Come spesso accade quando si seguono le mosse di una realtà mutante, quale è Al Qaeda, si può oscillare tra il “partito Sageman” e il “partito Hoffman”. Un’indecisione a volte determinata da una semplice sequenza di eventi – attacchi, minacce video – e da quanto è proposto dalle fonti ufficiali. Dunque serve molta prudenza. Gli anni seguenti all’11 settembre sono stati segnati da una concreta attività di prevenzione – forse non sapremo mai quanti
attentati sono stati sventati – ma anche da esagerazioni e manipolazioni.
Le paure vere sono state ingigantite da quelle finte, spesso gonfiate dagli stessi terroristi con la campagna martellante su Internet. Se è vero che i seguaci di Osama hanno di fatto distrutto quanto avevano guadagnato, usando i kamikaze tra civili inermi, è altrettanto vero che l’invasione dell’Iraq ha fatto il gioco non solo di Bin Laden ma di quanti considerano l’America “il Nemico” e si sentano giustificati ad usare ogni mezzo per combatterlo.
Detto ciò non sembra un’eresia sostenere che vent’anni dopo Al Qaeda sia più un’idea che un’organizzazione. O, come ha osservato il settimanale britannico “The Economist”, sia entrambe le cose. Ma non rinuncia, per quanto le è possibile, a provare a darsi un sistema ridotto a pochi, pochissimi, elementi. In linea generale ispira, nel particolare tenta di inserirsi e magari prova a mettere insieme quelle “forze speciali” – ancora pochi mujaheddin - che le hanno permesso di attaccare le Torri Gemelle. Mostra, al pari del suo leader – metà realtà, metà fantasma – i segni della vecchiaia. Forse ha anche attivato il codice di autodistruzione facendo a pezzi coloro che pretendeva di difendere e maledicendo chiunque non abbia accolto fino all’ultima virgola il suo verbo. In un mondo che gira a mille – e non più solo in Occidente – non basta promettere il Califfato, il Paradiso per i martiri e la fine del Faraone per dimostrare di avere un progetto.
Osama può vantarsi di spaventare i “crociati e gli ebrei”. Potrebbe tra qualche giorno rivendicare che se gli occidentali fanno fatica alla fine del mese è anche merito suo. Potrebbe aggiungere che se il petrolio è alle stelle è una conseguenza della sua guerra. In una intervista rilasciata nel 1998 aveva detto: “il prezzo giusto per un barile di greggio dovrebbe essere 144 dollari.” Ci siamo arrivati.
Anne Korin, direttore dello “Institute for the analysis of global security”, in una deposizione davanti alla Commissione esteri della Camera, ha spiegato che il grande balzo dell’oro nero e le difficoltà di bilancio saranno percepite dagli islamisti come una vittoria. Ci hanno attaccato, ci hanno trascinato in una guerra a tutto campo ed ora le nostre economie sono dissanguate.
Bin Laden non è però riuscito a convertire i piani della sua banda in un progetto politico realistico e quando ha avuto un’occasione con il conflitto iracheno ha lasciato che i suoi tagliatori di teste prendessero il sopravvento. è anche intervenuto, scrivendo messaggi, lanciando appelli obliqui per indurre i mujaheddin in Iraq ad evitare operazioni controproducenti. Scarsi i risultati. La branca locale, forse a corto di kamikaze, ha fatto indossare le cinture esplosive a donne e minorenni. Ed ha continuato sulla scia di sangue, a conferma che la sua agenda non coincide alla perfezione con i disegni del grande capo.
Peter Bergen e Paul Cruiskshank nel dare conto della frattura creatasi tra gli ideologi integralisti hanno preso in prestito l’affermazione di Wiston Churchill dopo la vittoria di El Alamein, nel 1942: “Questa non è la fine. Non è neppure l’inizio della fine. Ma è forse la fine dell’inizio”. Erano i primi di giugno. Un mese dopo, Bergen ha aggiustato il tiro: “L’arma più pericolosa di Al Qaeda è sempre stata l’imprevedibilità. Questo rende rischioso presentare Bin Laden come qualcosa di irrilevante. Finchè rimarrà latitante la Jihad non sarà mai priva di leader”. Un richiamo a tenere alta la guardia condiviso da quanti vanno oltre il qaedismo.
La minaccia, in quest’ottica, non sarà rappresentata soltanto dai fedeli di Bin Laden ma dal fascino per l’estremismo jihadista che continua ad attrarre giovani in Medio Oriente come in Europa.



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