GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 2/2008
Garantire i diritti, risolvere i problemi

INTERVISTA al Prefetto di Roma Carlo Mosca
a cura di Pio MARCONI


- Nato a Milano nel 1945, ha frequentato la Scuola Militare ‘Nunziatella’ di Napoli e si è laureato in Giurisprudenza e Scienze Politiche.
-Già docente di Diritto Penale presso l’Università La Sapienza di Roma, insegna nella Facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano e presso la Scuola di Perfezionamento delle Forze di Polizia.
- E' autore di numerosi saggi in Diritto Penale, Amministrativo e di Polizia. Tra i testi più recenti ‘Il coordinamento delle Forze di Polizia’, Cedam, 2005 e ‘Frammenti di etica prefettorale’, Rubettino, 2006.
-Prefetto dal 1993, ha ricoperto numerosi incarichi tra cui Vice Direttore del SISDe, Direttore della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Direttore dell’Ufficio Legislativo Centrale e Capo di Gabinetto del Ministro dell’Interno.
-E' stato Presidente dell’Associazione europea dei rappresentanti dello Stato e Presidente dell'Associazione dei Prefetti italiani.
-Dal 3 settembre 2007 è il Prefetto di Roma.



Il Prefetto di Roma, insieme con i Prefetti di Napoli e di Milano, è stato nominato Commissario delegato con l’incarico di affrontare le emergenze sociali relative alla presenza sul territorio di consistenti comunità nomadi. Un fenomeno che si è aggiunto a quello della immigrazione e che si manifesta in costante crescita. Le ordinanze con le quali ai Prefetti di grandi centri urbani sono state affidate le nuove funzioni di Governo non si limitano a disegnare compiti di ordine pubblico. Nei testi prevalgono temi e obiettivi sociali: rilevamento delle presenze, ripristino delle aree uniti ad azioni positive di integrazione e alla ricerca della cooperazione degli interessati per la creazione di nuovi insediamenti vivibili.
Nelle ordinanze di nomina dei Commissari delegati si legge una nuova filosofia dei rapporti tra centro e periferia. I Prefetti di tre grandi città non sono chiamati semplicemente a portare la volontà dell’esecutivo nelle aree nelle quali operano. Su di essi grava l’onere di registrare i bisogni della comunità, di analizzare le necessità di singoli gruppi sociali, di predisporre rimedi, di favorire una soluzione partecipata dei conflitti, di organizzare l’opera di prevenzione.
Su questi temi, alcune domande a Carlo Mosca, Prefetto di Roma e delegato per gli interventi sull’emergenza nomadi. Su quali linee egli intende procedere? Come intende garantire l’esercizio dei diritti fondamentali a chi vive in una comunità e a chi vi è presente in una condizione che spesso non è il frutto di una libera scelta? E poi, anche interrogativi più vasti. Come rispondere ad un diffuso bisogno di sicurezza? Come coordinare l’azione dei Prefetti con i bisogni della società civile?
Si tratta di questioni suggerite da crescenti allarmi sociali ma anche da un configurarsi nuovo dei rapporti tra cittadini e istituzioni. L’Italia degli anni 2000 non può essere dipinta come un paese travolto all’improvviso dalla cultura securitaria, da campagne di “legge e ordine", da pulsioni repressive. L’Italia degli anni 2000 è un paese civile nel quale le comunità riflettono serenamente sul tema della sicurezza mostrandosi pronte a collaborare con le istituzioni. Con il coraggio degli imprenditori siciliani decisi a stroncare la pratica dell’estorsione e l’arroganza mafiosa, con il senso di responsabilità di tanti amministratori e di tante comunità locali decise a non tacere di fronte alla illegalità, a non chiudere gli occhi di fronte a una criminalità che ferisce i più deboli.




Con l’ordinanza del 30 maggio 2008 il Presidente del Consiglio dei Ministri l’ha nominato Commissario delegato per gli interventi sui campi nomadi. L’ordinanza segue il decreto del 21 maggio sullo stato di emergenza per gli insediamenti di comunità nomadi in Campania, Lombardia e Lazio. Le sono stati attribuiti compiti di monitoraggio, di accertamento della legittimità delle presenze, di identificazione di siti idonei alla realizzazione di aree autorizzate, di politica sociale, sanitaria, scolastica. Ruoli distanti da quelli classici del Prefetto giurista/generalista. Compiti che richiedono conoscenza/sensibilità sociale, saggezza politica, velocità nella decisione. Il decreto prefigura un Prefetto che risolve rapidamente i problemi e che non si limita ad inquadrarli sul piano tecnico giuridico! Come si prepara ad affrontare i nuovi compiti?
Negli ultimi anni il Prefetto, riscoprendo la sua antica vocazione di garante della libertà uguale e solidale, con spirito di servizio e con elevato senso etico, ha rinnovato la sua capacità di agire nell’area delle conoscenze, della prevenzione, della composizione dei conflitti sociali, della gestione dell’emergenza, della promozione dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, della tutela delle leggi generali, del raccordo dei pubblici poteri.
Un ruolo particolare come si vede in quanto ruolo di garanzia e di chiusura del sistema. Un ruolo da affinare per garantire un contributo effettivo al cambiamento convinti che la formula di uno Stato leggero significa pretendere uno Stato più efficiente perché meglio attrezzato a rispondere alle vere esigenze dei cittadini.
Sabino Cassese con rara efficacia ha indicato nel Prefetto un risolutore di problemi, un risolutore che quindi - dico io - merita rispetto perché si fa carico di dare risposte ai problemi della gente comune, perché al tempo stesso affronta la realtà con pragmatismo e con quel patriottismo costituzionale che esprime lealtà ai valori fondamentali della democrazia repubblicana.
Un Prefetto quindi garante dei diritti civili e dei diritti sociali in grado di curare la coesione sociale, quella istituzionale, quella ordinamentale, in sintesi la coesione nazionale la quale consente di poter affermare l’unitarietà dell’intera Repubblica.
Con questa visione che è poi significativa di una missione importante al servizio dei cittadini del nostro Paese, il Prefetto è oggi in grado di affrontare anche compiti diversi da quelli tradizionali o che possono apparire tali perché poi in sostanza si rifanno a quella tradizione antica ma sempre attuale di essere un servitore dello Stato che combatte ogni giorno nella trincea della complessità per rendere il Paese più moderno e funzionale agli interessi generali dei cittadini.

C’è un punto del decreto di nomina sul quale occorre soffermarsi. Il decreto non le affida solo l’onere delle espulsioni o del ripristino dei siti abusivamente occupati, ma anche funzioni di stimolo orientate a un tipo nuovo di inserimento sociale. Il decreto parla di “monitoraggio e promozione delle iniziative poste in essere nei campi autorizzati per favorire la scolarizzazione e l’avviamento professionale e il coinvolgimento nelle attività di realizzazione o di recupero di abitazioni". Se non capisco male si ipotizza la partecipazione degli interessati al recupero degli ambienti e alla costruzione di aree di residenza vivibili e civili. Un cambiamento che potrebbe fare da apripista ad una nuova concezione delle politiche sociali. Con quali mezzi intende procedere?
Anche quando il Prefetto nella sua qualità di autorità provinciale di Pubblica Sicurezza esercita tipici poteri di polizia, egli resta comunque, pure in tale ruolo, un Prefetto di garanzia, garanzia dell’esercizio di un diritto di libertà qual è quello di essere sicuri, un diritto che si confronta con altri diritti costituzionalmente espressi e che richiede una capacità di bilanciamento, di sensibilità nel valutare quale delle libertà a confronto debba in quel momento prevalere, quale sia la decisione più prudente per rendere effettiva la percezione di un sostanziale rispetto della dignità di ogni persona.
Il Commissario delegato per gli interventi sui campi nomadi è quindi un garante di politiche integrate che accanto alla prevenzione tipica di polizia, vedano affermarsi la prevenzione sociale, quella situazionale, quella precoce e quella comunitaria in maniera che venga ad essere attivata una rete civica capace, ciascuna per la sua parte di offrire risposte ai tanti bisogni.
Il Prefetto rappresentante del Governo e dello Stato ha il compito di riscoprire e rinnovare le tante reti che sono presenti sul territorio collegandole tra di esse, esortandole ad agire in vista di obiettivi comuni nel segno di una leale collaborazione e di un raccordo necessario a tutti e ad ognuno. Ciò allo scopo di raggiungere, nei tempi più brevi, i risultati più efficaci.
Tutto ciò vale anche per la questione dei nomadi o delle popolazioni senza territorio che meritano il più grande rispetto per la loro storia, per le loro vicissitudini a volte anche tragiche, per il loro bisogno di essere conosciuti e compresi, per l’urgenza di una loro integrazione che abbia anche il sapore di un loro riconoscimento e di un loro coinvolgimento nello stesso rispetto dei valori e delle regole vigenti nella nostra democrazia.

La riforma del titolo V della Costituzione prevedeva una riscrittura delle competenze dei Prefetti e delle Prefetture. Non più l’organismo napoleonico ma una struttura integrata nel sistema federale e orientata a ottenere la leale collaborazione tra istituzioni che operano nell’ambito della sussidiarietà. Leggi ordinarie hanno già ridisegnato il ruolo dei Prefetti. In questi mesi emergono tuttavia funzioni sempre nuove. Il Prefetto deve garantire non solo la coerenza tra l’agire locale e quello statale ma anche un agire statale capace di interpretare direttamente i bisogni delle popolazioni. Come monitorare i bisogni sociali? Basta il collegamento con la rappresentanza politica? O è opportuno entrare in contatto con le reti e gli interessi della società civile?
Il legame dei Prefetti e delle Prefetture con il territorio e con i problemi della gente che vive sul territorio risale a oltre duecento anni fa quando a base della istituzione del corpo prefettizio fu posta proprio la volontà di mobilitare i Prefetti e le Prefetture nella significativa ricerca dell’interesse generale e del bene pubblico. è questa la ragione di un forte profilo identitario che non insegue il filo della memoria per esprimere una retorica superata di cui nessuno ha bisogno quanto invece serve a rinsaldare un pensiero forte teso ad investire nel futuro elaborando un progetto idoneo a garantire che il Prefetto possa continuare ad essere l’uomo dello Stato uguale. Occorre progettare il futuro realizzando la missione istituzionale che pretende che si faccia sintesi sul territorio attraverso il dialogo con le istituzioni locali e il costante ascolto delle esigenze dei cittadini. Questo fare sintesi esprime poi il contenuto dell’essenza del funzionario generalista che oggi deve affrontare le gra
ndi antinomie del presente governato dal globale ma anche dal locale, dalla cultura del mercato e dal bisogno di solidarietà.
A volte, fare il Prefetto significa anche esprimere un’utopia possibile nel credere alla presenza del plurale al posto del singolare, nell’avere fede che lo stare uniti vale molto di più che lo stare da soli nel perseguire un obiettivo comune.
Per fare tutto questo il corpo prefettizio ha nella duttilità uno degli elementi di forza della sua continuità; un corpo che non vive per sé per servire la comunità nazionale, che ha il vantaggio di essere unito intorno a ideali e valori perenni, che è stato istituito per garantire le libertà civili e sociali che sa accreditare, pure nel nuovo, la sua identità.
Proprio per tutto questo, il Prefetto deve essere in grado di curare l’efficienza di tutte le amministrazioni dello Stato affinché si ricomponga quel circuito di fiducia nei confronti delle stesse, ma deve essere al tempo stesso anche un suscitatore di energie di tutti i Governi del territorio affinché i bisogni della gente siano soddisfatti.
Nella realtà odierna in cui si apprezza la frammentazione come significativa di autonomia decisionale e di responsabilità adulta occorre che il Prefetto funzioni come un organo terzo capace di garantire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali dei cittadini, livelli essenziali e non minimi. Ecco perché occorre rinsaldare le reti territoriali, collegarsi con esse, valorizzare ogni effervescenza sociale che possa far intercettare ogni bisogno dei cittadini in maniera da conoscere meglio per poter poi ancora meglio governare democraticamente ogni fenomeno nell’interesse generale.
Nello stesso lavoro del Commissario delegato per l’emergenza nomadi sarà molto importante predisporre un reticolato sistema di relazioni con le principali associazioni rappresentative delle comunità nomadi ma al tempo stesso con i rappresentanti di quelle associazioni laiche e religiose che si sono impegnati, in questi anni, in quelle realtà conseguendo una consolidata esperienza di intervento.

La questione sicurezza ha vissuto diverse fasi nel nostro paese. Abbiamo avuto due periodi nei quali l’emergenza consisteva nella difesa dello Stato da grandi fenomeni di eversione e di crimine organizzato: la lotta armata prima, la mafia militare dopo. Oggi viviamo una terza stagione, quella dell’attacco diffuso alla società civile, della criminalità multiforme, della penetrazione delle mafie straniere, della continua innovazione criminale (si pensi all’informatica). I vecchi strumenti di prevenzione e di repressione sono ancora adeguati? In particolare sono ancora adeguate quelle strutture di coordinamento e di monitoraggio della sicurezza introdotte negli anni dell’emergenza. I comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza sono ancora funzionali? È opportuno cambiarne la struttura? Come? Chi porvi al vertice? Il ruolo del sindaco del capoluogo, già riconosciuto dal nuovo ordinamento dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza (la legge 1 aprile 1981, n. 121), è sufficiente? Si può ampliarlo? Quale ruolo per gli altri sindaci? Il comitato deve essere un organismo di consulenza del Prefetto? O qualche cosa di diverso?
Oggi la sicurezza è questione che va affrontata sotto vari profili. Essa è coniugata e declinata in vari modi e ormai ciascuno di noi è abituato a parlare di sicurezza anche al di fuori dei tradizionali modi tipici di un’epoca in cui la sicurezza era solo vista in chiave di polizia.
Il nostro Paese ha in effetti vissuto momenti di emergenza significativa quando è stato aggredito dalle perniciose manifestazioni del terrorismo e della mafia. Ed è forse per questo che preferirei che oggi si utilizzasse con cautela il termine emergenza laddove con esso si voglia cogliere il fenomeno della criminalità diffusa che spesso è la causa vera di un’insorgente diffusione di paura di insicurezza e di sfiducia nelle istituzioni preposte a garantire una pacifica convivenza civile.
Non vi è dubbio che gli strumenti investigativi oggi siano così sofisticati e moderni da poter contrastare efficacemente le nuove forme di aggressioni mafiose e terroristiche in tutte le loro specificità ed è altrettanto indubbio che con un intelligente e penetrante controllo del territorio si possa ridurre e debellare la cosiddetta microcriminalità violenta.
I risultati raggiunti dalle Forze di polizia sul versante delle statistiche criminali sono indicativi di un’efficienza e di una efficacia che certamente possono migliorare ma che già allo stato attuale sono più che soddisfacenti. Eppure, ciò non basta per ridurre quel senso di insicurezza che molta gente avverte con sempre maggiore difficoltà. è proprio questo il motivo per il quale ho maturato il convincimento, da qualche anno, che le politiche di prevenzione e repressione di polizia debbano accompagnarsi a tutte le altre di prevenzione sociale, situazionale e comunitarie in uno sforzo comune di tutti i Governi territoriali. Ciò per fornire un quadro di risposte coese e funzionali alle esigenze avvertite dalla gente.
In questo senso, i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica sono ancora funzionali se riescono, come avviene nella maggior parte dei casi, a mettere insieme tutti coloro che hanno responsabilità della cosa pubblica sul territorio per delineare insieme una strategia capace di migliorare i risultati. Questo garantendo pari dignità a tutti coloro che partecipano alla gestione dell’organo collegiale ma sempre riconoscendo comunque la primazia dell’organo statuale, visto che è la nostra Costituzione a considerare la materia della sicurezza di competenza esclusiva dello Stato e come tale ad assicurare una primazia capace di esprimere pure la necessità di garantire in maniera unitaria e non frantumata la sicurezza su ogni parte del territorio nazionale.
Dal 1981, anno della legge di riforma della Pubblica Sicurezza, molte sono state le integrazioni e le modifiche che hanno riguardato lo stesso Comitato provinciale soprattutto per quanto riguarda la presenza dei sindaci e dei presidenti di provincia che è giusto abbiano una voce sempre maggiore nella definizione delle politiche di sicurezza locale soprattutto quando i cittadini chiedono un loro intervento più incisivo nell’eliminazione del degrado sociale e del degrado urbano che tanto affliggono le città e tanto compromettono la sicurezza civile.

Una crescente domanda di sicurezza si sta manifestando in tutte le società sviluppate. Non è un fenomeno né di destra né di sinistra: si leggano in proposito i programmi che dividono repubblicani e democratici negli Usa, o i programmi dei partiti che operano in Europa dell’alternanza tra popolari e socialisti. è la conseguenza del venir meno di antiche certezze, della crisi del Welfare. È la conseguenza dei nuovi conflitti prodotti dalla economia globale e dai movimenti globali delle popolazioni. è la ricerca di un nuovo ordine civile e il frutto di una nuova concezione della partecipazione politica. Ci sono richieste di autogestione dal basso della sicurezza: le ronde, l’associazionismo civico, l’associazionismo pilotato dagli enti locali. Bisogna contrastarle? O si può cogliere di esse aspetti positivi?
Sono favorevole a politiche di sicurezza condivise e partecipate dal momento che sono convinto che la partecipazione all’esercizio di un diritto importante di libertà come quello di essere sicuri, venga ad essere agevolato da tale consapevolezza e partecipazione. Condividere e partecipare alla definizione di strategie di sicurezza non può però significare l’accettazione di forme di autogestione della sicurezza stessa. Il fenomeno delle ronde non può quindi essere condiviso quando esso intende farsi carico della sostituzione delle Forze di polizia ritenute, a torto o a ragione insufficienti o inadeguate rispetto alle missioni loro conferite. La sicurezza è compito affidato allo Stato, alle Forze di polizia, a quanti rivestano la qualità di ufficiali e agenti di Pubblica Sicurezza e quindi siano titolati ad impiegare la forza pubblica che è legale in virtù proprio di questa legittimazione. Per altro verso siccome l’attività concernente la sicurezza e quella in particolare di controllo del territorio possono
constare di tre distinte fasi: l’osservazione, la vigilanza, la sorveglianza e siccome soltanto le ultime due presuppongono poteri di accertamento, di identificazione e di coercizione, ben può immaginarsi in un’ottica coordinata e raccordata comunque dalle autorità di Pubblica Sicurezza che possa esservi uno spazio per l’attività di osservazione che deve comunque tradursi nel costante e continuo riferimento agli organi cui la legge affida la titolarità del potere di polizia.

La politica verso i migranti e le comunità nomadi tocca solo un aspetto della sicurezza. Ve ne sono anche altri. Da circa venti anni i paesi sviluppati si impegnano in un’opera continua di aggiornamento normativo e di innovazione strategica. Alcune soluzioni hanno avuto grande risonanza. La tolleranza zero dell’amministrazione civica di New York e del sindaco Giuliani è diventata uno slogan. è ancora una ricetta? Ha controindicazioni?
Da molti anni i Paesi sviluppati sono effettivamente impegnati nella ricerca di soluzioni operative capaci di ridurre il tasso di criminalità diffusa che in particolare nelle grandi metropoli è fonte di gravi preoccupazioni ed è un sentimento di sfiducia nelle istituzioni sempre più crescente. Sono due comunque le teorie e le soluzioni che hanno esercitato maggiore fascino e che hanno avuto una più consistente applicazione: quella della tolleranza zero e quella della cosiddetta “finestra rotta". Anche in tali casi si tratta di approcci fondamentalmente differenti. Da una parte la tolleranza zero è classica espressione di una politica di sicurezza repressiva di polizia mentre “la finestra rotta” si gioca tutto sul versante della prevenzione non tanto di polizia ma di competenza di quei Governi del territorio i quali sono in grado di intervenire con immediatezza rispetto ad ogni fenomeno di degrado civile con l’intendimento di annullare con la maggiore immediatezza la presenza e l’efficacia di tale degrad
o. So che molti sono favorevoli alla prima soluzione e molti altri alla seconda. Ritengo che possa essere più opportuno aderire alla tesi che veda l’una e l’altra messe insieme, dosandole di volta in volta e a seconda delle situazioni specifiche, optando così per una soluzione mista dove lo spessore di presenza dell’una teoria o dell’altra resti affidato alla conoscenza e all’esperienza del decisore. Resto peraltro dell’idea che accorte ed incisive politiche di prevenzione producano ove convenientemente strutturate dei margini di risultati molto più positivi di quello che si possa immaginare.

CompStat è il nome dato dal Dipartimento di polizia di New York a una nuova concezione del monitoraggio del crimine e all’organizzazione della prevenzione. Con una raccolta periodica di informazioni il sistema consente di costruire mappe geografiche del rischio che favoriscono il continuo miglioramento delle strategie di contrasto. Il sistema è stato applicato con successo in altre città statunitensi. In Italia è possibile integrare la riorganizzazione della prevenzione con nuove tecnologie? è possibile passare dalla vecchia questione del coordinamento tra le Forze di polizia ad un coordinamento qualificato che consenta di identificare con certezza le questioni che meritano un intervento prioritario?
Anche in Italia si va progressivamente affermando la tecnica di costruire mappe geografiche del rischio in grado di allertare i responsabili delle Forze di polizia e favorire così il miglioramento delle strategie di contrasto. Le cosiddette mappe georeferenziali sono in grado ad esempio di poter verificare la quantità e la qualità del crimine presente non solo nelle città, ma nei municipi e nei quartieri di essa sino ad arrivare addirittura alle strade o alle vie della stessa città. Ciò consente di selezionare con intelligenza e con duttilità gli strumenti di contrasto, di concentrarli ove necessari, di affinarli e di renderli il più possibile produttivi di risultati utili. Consente altresì di affrontare le priorità in un ambito in cui il coordinamento delle Forze di polizia venga a trovare una sua specifica coalizione perché in grado di esaltare le singole specificità e professionalità rispetto ad una gamma di interventi differenziati proprio dalla qualità dei reati da contrastare. Il tema del coordinamento
resta comunque essenziale, anche se ritorna all’attenzione di molti la questione dell’araba fenice a volte difficile da ritrovarsi perché scarso è l’intendimento a farlo. Posso però affermare che dopo oltre un quarto di secolo la cultura del coordinamento tra le Forze di polizia è molto cresciuta e produce oggi significativi risultati in tante situazioni proprio perché è maturata la consapevolezza che insieme si può fare di più e meglio utilizzando le risorse al massimo ed evitando di sprecarle in inutili esercizi competitivi.

Quando si visitano i portali sulla sicurezza locale dei paesi di lingua inglese si rimane stupiti. Statistiche non reticenti sullo stato della criminalità. Informazioni sugli investimenti. Rendicontazione delle attività. Persino analisi costi/benefici. Il presupposto dal quale tali iniziative partono è che l’informazione sul delitto crea sicurezza! è possibile qualche cosa di simile anche in Italia?
Ritengo che anche nel nostro Paese, soprattutto negli ultimi anni vi sia una ricca messe di informazioni sullo stato della sicurezza e della criminalità. Ogni anno, a parte le statistiche ufficiali, vi sono tanti rapporti a cominciare da quello del Ministero dell’Interno che offrono chiavi di lettura attente e specializzate sui fenomeni criminali. Penso che si debba fare molto di più informando sugli investimenti e sull’analisi costi-benefici. Sia chiaro, questo è già possibile leggendo attentamente i bilanci dello Stato che però sono ancora di non facile acquisizione e interpretazione. Potrebbe essere certamente utile conoscere meglio quanto si spende per la sicurezza anche perché - ne sono convinto - si eviterebbe così di affermare con eccessiva facilità, che in Italia si spende troppo rispetto ad altri Paesi occidentali o che il numero degli appartenenti alle Forze di polizia può essere ridotto visto che altrove la sicurezza è garantita da un minor numero di addetti. E' materia purtroppo questa non adeguatamente approfondita e potrebbe invece trovare accoglimento in molte facoltà universitarie e in qualificati enti ed istituti di ricerca che pure non mancano nel nostro Paese. Auspico che ciò avvenga e auspico che soprattutto le università dedichino più spazio ad approfondire le politiche e le strategie della sicurezza, monitorandone contestualmente l’efficacia e l’efficienza e provvedendo contestualmente ad offrire ai decisori politici quelle opportune riflessioni per migliorare scelte ed interventi operativi.


da www.prefettura.roma.it



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA