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GNOSIS 1/2008
Vecchie questioni e nuove prospettive

Il Pakistan tra jihad
e tentazioni afghane


Renzo GUOLO


foto Ansa

Questo prezioso contributo fotografa la situazione nella quale è precipitato il Pakistan subito dopo il tragico attentato a Benazir Bhutto. L’autore, oltre ad esaminare i diversi fattori che hanno contribuito ad un così grave se pur non repentino evolvere degli eventi, sottolinea la pericolosa “radicalizzazione del panorama islamista pakistano” in atto. Ed è proprio a questo radicalismo, “molto più globale e moderno di quello locale e arcaico dei Taliban afghani“, che si deve prestare la dovuta attenzione, alla luce anche di possibili minacce che potrebbero coinvolgere “altri Paesi presenti nella missione Isaf”.


Il Pakistan è in fibrillazione. Molti sono gli avvenimenti che, nell'ultimo anno, hanno contribuito a generare tensione: l'attentato che ha ucciso Benazir Bhutto e il susseguente tracollo del patto di transizione che, sotto gli auspici americani, l'ex-premier, da poco rientrata in patria, aveva stipulato con Musharraf; le elezioni che hanno visto la netta sconfitta del Presidente a beneficio di leader e partiti considerati nemici storici, come il Ppp, dominato dalla famiglia Bhutto e la Lega Musulmana di Nawaz Sharif; la campagna di attentati suicidi seguita alla proclamazione dell'insurrezione del "jihad difensivo" nelle province del nord e nelle aree tribali; la scomposizione di vecchie e nuove alleanze occulte tra militari e Servizi di Islamabad da una parte e il complesso panorama del fondamentalismo pakistano e afghano dall'altro.
Elementi che disegnano un quadro politicamente e militarmente complesso, che promette di riverberare i suoi pesanti effetti anche sul vicino Afghanistan.
La morte della Bhutto ha prevedibilmente segnato anche il destino di Musharraf: battuto alle urne e non più leader delle Forze Armate , il Presidente potrà difficilmente resistere a lungo al potere. Le sue sorti sono legate ai nuovi equilibri politici e istituzionali post-elezioni ma anche a quanto avviene nelle Forze Armate, da sempre "custodi della nazione" e depositarie del controllo dell'armamento nucleare; oltre che dalle intenzioni degli Stati Uniti, che guardano con favore alla nascita di un governo guidato dal Ppp che metta fine alle ambiguità dei militari e dell'Inter-Services Intelligence (Isi) (1) nei confronti dei Taliban: quelli oltre confine e quelli di casa propria. Ambiguità che in passato avevano riguardato, mentre governava, la stessa Benazir (2) .
Quello tra Pakistan e forze islamiste afghane è un legame di lunga data: risale ai tempi del jihad antisovietico in Afghanistan, durante il quale il "Paese dei puri" è stato retrovia logistico e strategico delle forze in armi che si opponevano alla presenza sovietica a Kabul.
Il Pakistan ha sempre ritenuto importante, nell'intento di guadagnare profondità strategica, che l'Afghanistan gravitasse nella sua orbita. Non è casuale che, negli anni Novanta, Islamabad abbia appoggiato senza riserve la nascita dei Taliban: movimento che, con la sua politica d'ordine, metteva fine al caos della guerra civile esplosa tra i mujahidin, vincitori del "jihad contro l'ateismo", e riportava al potere a Kabul, dopo l'era tagika di Rabbani e Masud, elementi dell'etnia pasthun, maggioritaria in Afghanistan ma anche nelle regioni nordoccidentali pakistane. I pashtun considerano loro vero territorio il Pasthunistan, il Paese dei pasthun, formalmente diviso dalle frontiere di stato tra Pakistan e Afghanistan.
Anche Islamabad ne ha preso atto: tanto che le province nordoccidentali del Paese sono di fatto autogovernate e hanno rapporti molto labili con il potere centrale. Un legame, quello transfrontaliero pasthun, consolidatosi durante il jihad antisovietico, quando milioni di profughi afghani attraversarono il confine, riversandosi in quei campi dove i loro figli hanno frequentato le moschee deobandi, cuore pulsante del fondamentalismo pakistano.
In quelle moschee si sono formate le giovani leve di "studenti coranici" che, spinti dal piano dell'Isi, hanno alimentato le fila dei seguaci del Mullah Omar.
La carta pasthun è, dunque, sempre stata un'importante fattore di politica estera per il Pakistan.
Da qui la difficoltà dello stesso Musharraf di condurre, sino in fondo, "la guerra al terrore" secondo i desideri di Washington. Combattere i Taliban significa combattere i Pashtun e questa equazione rende problematico il ruolo di Islamabad. Tanto che, nel 2006, l'insoddisfazione ha indotto gli americani a premere su Musharraf perchè stringesse, con la Bhutto, un accordo che consentisse la formazione di un governo, guidato da Benazir, meno accomodante con i Taliban e meno ostile al premier afghano Karzai.
In cambio Musharraf avrebbe mantenuto la presidenza della Repubblica, anche se non il controllo delle Forze Armate. Intesa, imposta, che Musharraf ha accettato malvolentieri e subito svuotato. Il tremendo attentato di Karachi, lo stesso giorno del ritorno in patria della Bhutto, dopo otto anni di esilio, ha subito fatto capire all'ex-premier che il suo era un viaggio verso il baratro, proseguito con gli arresti durante lo stato d'emergenza proclamato da Musharraf e finito tragicamente a Liaqat Bagh.
Al di là della responsabilità effettiva della morte, attribuita da Islamabad al leader dei Taliban pakistani, Meshud Beitullah, la scarsa protezione offerta alla Bhutto di fronte alla concreta e prevedibile possibilità che fosse vittima di attentati rivela, quantomeno, un clima in cui molti guardavano con indifferenza a quel tragico finale.
La morte della Bhutto ha condotto ai minimi storici i rapporti tra Washington e Musharraf, da tempo accusato di fare poco contro il terrorismo. Nonostante l'Isi abbia migliaia di informatori in quelle zone e agenti operativi infiltrati nei gruppi radicali, né Bin Laden né Zawahiri, né il Mullah Omar, probabilmente rifugiati nelle aree tribali (Fata) o in città come Quetta, sono stati catturati o uccisi. Oltretutto, bande armate di Taliban afghani attraversano senza problemi le porose frontiere pakistane, che usano come retrovie per riorganizzarsi. La pressione americana su Musharraf, chiamato a intervenire con urgenza sul lato pakistano della "guerra afghana" o, in caso contrario, lasciare che fossero le forze speciali americane in Afghanistan a ripulire la Frontiera, è stata molto intensa nell'ultimo anno.
Del resto, dopo l'11 settembre, Bush ha puntato tutto sul Presidente-generale. Una scelta imposta dalla logica della "guerra al terrore". Nessun conflitto in Afghanistan può essere vinto senza l'appoggio pakistano: nel crollo sovietico degli anni Ottanta, Peshawar ha contato molto più che Jalalabad. Washington riteneva, inoltre, che le esigenze di sicurezza americane sarebbero state meglio comprese da un militare capace di garantire insieme stabilità politica interna e continuità all'alleanza con gli Usa. Entrambi, fattori necessari per monitorare anche la delicata issue dell'atomica pakistana. Un legame obbligato e privilegiato allo stesso tempo; tanto che, a partire dal 2001, gli Usa hanno versato nelle casse di Islamabad oltre 10 miliardi di dollari, ritenendo il Pakistan il più importante Paese alleato fuori Nato.
La scarsa volontà mostrata da Musharraf nel combattere gli islamisti radicali afghani che trovano rifugio nelle regioni del nord non è, però, solo il frutto delle sue personali inclinazioni. Dietro le oscillazioni del Presidente emergono le tradizionali visioni del mondo del nocciolo duro del potere militare, il cuore dell'elite punjabi che domina di fatto il Paese, dai tempi dell'indipendenza. Visioni che rispondono a una precisa definizione degli interessi nazionali pakistani, che esigono un Afghanistan debole e instabile. Tanto che, pur di riaffermarli, anche dopo il 2001, Islamabad ha guardato con favore alla ricerca di un compromesso con il "talibanismo senza Al Qaeda".
Un compromesso che mira a estirpare, dall'area, gli "stranieri": gli jihadisti arabi legati a Bin Laden e Zawahiri e quelli uzbeki, legati a Tahir Yuldashev, il leader del Movimento Islamico Uzbeko (Miu); ma punta solo a contenere la presenza dei Taliban, dividendo quest'ultimi in "buoni" e "cattivi" ed usando i primi per tutelare gli interessi nazionali pakistani nel nuovo great game, in corso da tre decenni nell'area.
Un progetto, quello di Islamabad, che persegue molteplici obiettivi: avere un governo amico a Kabul che includa i Taliban afghani e permetta di recuperare la mancata e agognata profondità strategica; la possibilità di far passare in futuro, attraverso le province afghane, oleodotti e gasdotti destinati ai porti pakistani; ottenere una maggiore stabilità nelle regioni settentrionali del Paese, attraverso l'alleanza transfrontaliera pashtun. Ma, come insegna la stessa esperienza americana con i gruppi del jihad antisovietico, fare da apprendisti stregoni con i movimenti radicali islamisti è sempre rischioso: tali movimenti possono avere interessi che convergono temporaneamente e tatticamente con quelli di alcuni Stati, ma sono caratterizzati da una forte autonomia ideologica e da un disegno strategico che resiste a qualsiasi tentativo di eterodirezione.
La sconfitta alle elezioni politiche di Musharraf, sembrerebbe teoricamente rendere possibile una censura con quel progetto che contrasta con le esigenze degli Usa.

foto Ansa
Anche se l'eventuale presenza nella coalizione di governo del partito filoislamista di Nawar Sharif non rende semplice il passaggio. Un mutamento di linea che metta fine all'ambiguità pakistana pare possibile solo se la linea dura sostenuta dal Ppp nei confronti dei Taliban troverà l'avallo dei militari, guidati oggi da Ashfaq Parvez Kyani. Il capo delle Forze Armate, succeduto a Musharraf, si è formato a Fort Leavenworth ed ha buoni rapporti con gli americani; ma gli ambienti militari sono permeati profondamente, sin dai tempi di Zia ul Haq, dall'islamonazionalismo.
L'Isi, guidato oggi da Nadeem Taji, intrattiene, certo, rapporti meno stringenti con gli islamisti, ma i vincoli di geopolitica, assunti dai militari come imperativi strategici, non lasciano troppi spazi di manovra al brusco mutamento di rotta chiesto da Washington.
Sia i militari, sia la nuova coalizione di governo, dovranno comunque fare i conti con la ristrutturazione dello schieramento islamista, polverizzato da tempo in gruppi che hanno priorità, obiettivi e sponsor, diversi. Rimescolamento che mette in discussione molte strategie, palesi ed occulte con l'attacco delle Forze di sicurezza alla Moschea Rossa (Lal Masjid), storico luogo di mobilitazione sin dai tempi del jihad antisovietico e divenuto, nel tempo, sempre più fucina di elementi radicali.
Dalla metà del 2007 è stato proclamato, infatti, nelle province nord-occi
dentali e nelle aree tribali del Paese, un "jihad difensivo" che ha caratteri insurrezionali. Jihad che, secondo la logica islamista, trae origine nella "violazione" del patto occulto tra Musharraf e alcuni importanti ambienti radicali pakistani. Patto simboleggiato dall'accordo, siglato, nel 2006, dal governo di Musharraf con le tribù locali del Waziristan, regione il cui controllo è di grande importanza per la lotta al terrorismo qaedista. L'accordo affidava alle tribù locali il controllo interno del territorio; conferiva loro la possibilità di applicare la shari'a come fonte principale dell'ordinamento giuridico; prometteva la concessione dello stesso statuto amministrativo dei distretti del Nordovest, di fatto quasi indipendenti.
Il tutto in cambio dell'impegno dei gruppi locali di impedire le infiltrazioni di "stranieri" nel territorio e porre fine alle ostilità contro i militari inviati da Islamabad nella regione per rispondere alle sollecitazioni di Washington. Un accordo in realtà mai applicato: perché le tribù wazire non amano vedere accampato l'esercito nella loro regione; perché, causa la mutevolezza degli equilibri politici, religiosi e militari complessivi, Islambad non ha potuto concedere sino in fondo quello che aveva promesso.
Musharraf ritiene che il problema per Washington sia costituito esclusivamente da Al Qaeda e non dai Taliban. Al contrario, la ricorrente tentazione pakistana di rimettere in gioco i Taliban del Mullah Omar, sul quale da tempo è in corso un pressing perché divida definitivamente le sue sorti da quelle di Bin Laden, ha indotto Washington ad aumentare le pressioni su Islamabad.
Costretto a schiacciare con forza il pedale della repressione, Musharraf ha cementato le ostilità di gran parte della magmatica galassia radicale. Di quella galassia fanno parte gli "stranieri", ai quali l'Isi, che non gradisce presenze sul proprio territorio difficilmente influenzabili, dà la caccia con maggiore convinzione, come confermano le notevoli perdite che gli "stranieri" hanno subito negli ultimi mesi. Si tratta, in prevalenza, di qaedisti arabi e uzbeki, giunti nel nord del Paese nel 2002, in fuga dall'Afghanistan, la cui messa fuori gioco è assai spendibile sul piano delle relazioni con Washington. Vi sono poi i "nuovi Taliban", radicati in larga parte nelle tribù Meshud, nel Waziristan del sud, e tra il clan Haqqani, originario del nord della regione. Clan guidato, oggi, da Siraj Haqqani, che conta anche sulla collaborazione di un bellicoso gruppo di Uzbeki.
A guidare i Tehrik-i-Taliban Pakistan, i nuovi Taliban pakistani, è Beitullah Meshud che, nel dicembre 2007, ha fondato il movimento nel quale si riconoscono militanti provenienti dalle aree tribali Fata e dalle province del Nordovest. Il gruppo, che ha proclamato il jihad difensivo nei confronti di Islamabad, dispone di una milizia (laskhar) di almeno 30 mila uomini.
Quanto ai Taliban afghani, guidati ancora formalmente dal Mullah Omar, ma in realtà frantumati in diversi gruppi di potere e fedeli innanzitutto ai propri comandanti militari, non amano troppo i loro confratelli del Waziristan, colpevoli di aver concentrato gli sforzi nel jihad pakistano e sottratto risorse a quello afghano.
Dopo aver destituito il comandante militare Mansur Dadullah, troppo autonomo politicamente e, forse non troppo casualmente, catturato recentemente dai pakistani nella provincia sud-occidentale del Balucistan, il Mullah Omar ha preso le distanze anche da Beitullah Meshud. Mossa che sottolinea, ancora una volta, le "convergenze" tra le strategie del "Comandante dei credenti" afghano e il potere militare pakistano, che preferisce sbarazzarsi di tutti gli elementi locali scomodi e convogliarli verso l'Afghanistan, dove nei campi Taliban si addestrano già jihadisti provenienti dal Punjab, dal Belucistan, dal Sindh. Un’opzione che permette a Islamabad di mantenere un rapporto con i Taliban "buoni" e spingere il governo Karzai a negoziare con loro, tutelando in tal modo, anche, gli interessi nazionali pakistani.
L'emergere dei Taliban pakistani, infatti, non ha minato solo il vecchio potere tribale nel nord del Paese: ha letteralmente terremotato anche quello dei partiti religiosi, come la Jamiat e Islami di Maulana Fazlur Rahman, critici ma funzionali interlocutori del governo, dei militari e dell'Isi. La riorganizzazione sotto le insegne radicali di parte del movimento islamista pakistano mette in crisi il ruolo e la rendita politica di quei partiti. Essi non possono più presentarsi come i garanti della pace religiosa e come "pompieri" della predicazione violenta nelle moschee: quelle non registrate, più di 25 mila su 40 mila, sfuggono ormai alla loro influenza.
I radicali, contestano apertamente il ruolo di "cerniera" che quei partiti, massimizzando la loro rendita di posizione, hanno assunto nel sistema politico e ricordano come quegli stessi partiti abbiano, in passato, sostenuto Musharraf.
I radicali mirano invece a saldare le diverse anime jihadiste che operano nel Paese: quelle talibane e qaediste che operano a Nord; quelle che prosperano nei centri urbani del Punjab e del Sindh, regioni in cui si registrano già attacchi al logistico delle missioni Enduring Freedom e Isaf in Afghanistan; quelle disperse ma non rassegnate forze dei kashmiri, delusi dopo l'apertura all'India di Musharraf.
Spezzare questo nascente fronte combattente, prima che si organizzi e si radichi, è fondamentale per i militari di Kyani. Anche per stroncare la campagna di attentati suicidi che già destabilizza il Paese.
E per evitare che gli Usa intervengano direttamente nel Nord del Paese, dove le loro forze speciali impegnate in Afghanistan compiono già missioni che, adeguandosi alla tradizione locale, non si formalizzano troppo sul rispetto dei confini. Per evitare un simile sviluppo, che scatenerebbe tensioni nelle stesse Forze Armate, i militari vorrebbero ripartire dal ripristino del potere tribale messo in discussione dai nuovi Taliban.
Cercando di rivitalizzare l'accordo sul Waziristan, a condizione che i Waziri cessino le ostilità contro i soldati e che l'applicazione della shari'a, avvenga secondo i canoni interpretativi formulati dalle scuole vicine ai partiti religiosi, circostanza che restituirebbe loro quel ruolo di "cerniera" così contestato. Non è, quindi, casuale che l'attentato di Zarghon sia avvenuto mentre era in corso una jirga, un'assemblea dei
capi e dei notabili locali, che discuteva le nuove proposte di Islamabad. L'attacco mirava a punire esemplarmente i "collaborazionisti con il potere empio".
Una radicalizzazione che rischia di essere esportata. Gli islamisti radicali pakistani hanno legami a rete in tutto il mondo: come dimostrano le operazioni di polizia che hanno recentemente sventato attentati in Gran Bretagna e in Spagna.
Una minaccia che, dati gli stretti legami tra teatro pakistano e afgano, potrebbe estendersi anche ad altri Paesi presenti nella missione Isaf, Italia compresa. Anche perché il radicalismo pakistano appare molto più globale e "moderno" nel concepire la "guerra asimmetrica", di quello, locale e arcaico, dei Taliban afghani. Sulla bocca dell'incandescente vulcano pakistano sono affacciati in molti.

foto Ansa



(1) Secondo la legge l'Isi dovrebbe rispondere al premier. Nei fatti, dominata dai militari, l'Intelligence pakistana, che raccoglie informazioni riguardanti la sicurezza nazionale all'esterno e all'interno, ha sempre fatto riferimento al Capo di Stato Maggiore dell'Esercito.
(2) Fu durante il secondo mandato della Bhutto che il suo Ministro dell'Interno, Nasirullah Babar, in accordo con l'Isi, favorì la formazione e il reclutamento dei Taliban in Afghanistan.

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