Manca ancora una posizione condivisa Contro il terrorismo politica europea cercasi |
Ciro SBAILO' |
L'Europa Unita rappresenta ormai una realtà geopolitica di primissimo piano sulla scena mondiale. Ma ancora non c'è una coerente politica comune di lotta al terrorismo, benché su questo terreno si possa parlare di una "memoria condivisa" nel Vecchio Continente. Nell'articolo, si prendono in considerazione, innanzitutto, le varie possibili spiegazioni di questo deficit. Al riguardo, si rileva, tra l'altro, la tendenza a sommare, piuttosto che a integrare, le diverse esperienze, con il risultato di privilegiare gli aspetti tecnici su quelli propriamente politici. Viene, dunque, svolta un'analisi comparata dei principali percorsi costituzionali europei in materia di contrasto dei fenomeni eversivi e di gestione delle situazioni di emergenza: Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia e Germania. L'esperienza britannica si caratterizza per un approccio molto pragmatico, che consente all'Esecutivo di agire con ampia libertà, senza tuttavia che si formino ‘vulnera’ nel sistema delle garanzie. Mentre in Francia è decisivo il ruolo del Presidente della Repubblica, i cui poteri sono molto ampi, sottoposti però al controllo sia del Parlamento sia della giustizia costituzionale. Decisamente sbilanciata, in favore del garantismo, l'esperienza degli ultimi anni in Germania, dove il sindacato di costituzionalità ha un ruolo fondamentale nelle meccaniche istituzionali. L'Italia e la Spagna sono accomunate dal rifiuto della legislazione di emergenza - rifiuto confermato anche con l'acuirsi recente della minaccia terroristica. Emerge, dunque, un quadro variegato, nel quale, però, è possibile rintracciare una comune filosofia politica, ispirata ai seguenti principi: le democrazie hanno il diritto e il dovere di impedire che i diritti fondamentali vengano utilizzati contro l'ordine costituzionale; la libertà e la sicurezza non possono essere barattate; la lotta al terrorismo non può essere ridotta a questione poliziesca e giudiziaria, ma chiama in causa soprattutto l'Esecutivo, nel suo rapporto dialettico con il Parlamento. La costruzione di una comune politica contro il terrorismo può essere la via maestra per arrivare a un'effettiva integrazione costituzionale dell'Europa. L'assenza di una comune politica sul terrorismo Una politica europea sul terrorismo ancora non esiste. Dai recenti vertici dei ministri dell'Interno e della Giustizia dell'Unione emerge con chiarezza che gran parte dei Governi non intende rinunciare alle proprie prerogative in materia di sicurezza e di criminal policy. In generale, il sistema dell'unanimità ha funzionato finora come un freno. Si può votare a maggioranza solo se sono tutti d'accordo, il che significa - ci pare - che il cosiddetto "Wesphalian-Model" (Held) ha ancora la meglio sul processo d'integrazione. Bisogna prendere atto del fatto che l'Europa ha fatto molti più progressi nel campo economico e monetario piuttosto che in quello politico propriamente detto, laddove si identifichi la sfera propria ed esclusiva del Politico in quella attinente alla sicurezza dei cittadini e ai rapporti internazionali. La lotta al terrorismo, infatti, s'inquadra istituzionalmente nell'ambito del Terzo pilastro del Trattato di Maastricht, quello relativo alla cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni (CGAI). Ma la natura dell'attuale minaccia terroristica fa sì che il problema riguardi anche il Terzo pilastro, quello della politica estera, della sicurezza e della difesa comune (PESC), come stanno a dimostrare le molte risoluzioni europee in materia di terrorismo giuridicamente incardinate sia nel Secondo sia nel Terzo pilastro. Ma l'Europa continua a trattare il terrorismo come un problema d'ordine pubblico e di giustizia, privilegiando lo strumento del law enforcement, al contrario di quanto accade negli Stati Uniti, dove la questione è posta simultaneamente in termini di politica interna, di politica estera e di politica di difesa. Naturalmente, dalla Dichiarazione congiunta del 14 settembre 2001 sono stati fatti dei passi avanti. Ma nessuno sembra avere avuto un carattere politico decisivo. Ad esempio, la posizione comune sulla lotta al finanziamento del terrorismo (2001/231/PESC) comporta l'applicazione di idonee misure da parte degli Stati, in linea con quanto stabilito dall'ONU (risoluzione 1373/2001). In questo modo, i singoli Stati sono liberi di scegliere gli strumenti che vogliono per conseguire l'obiettivo condiviso. Si tratta di un chiaro segno della difficoltà a costruire una posizione comune. Qualche cosa di analogo può dirsi sia per la comune definizione dei reati terroristici, sia per gli scambi di informazione e le misure di rilevamento e catalogazione di dati personali sensibili. Nel primo caso, si tratta di una cornice entro la quale ciascuno Stato deve muoversi; nel secondo caso, non si va oltre una cooperazione tra Stati che vede l'Unione in veste di coordinatrice e non certo di guida. Profili di maggiore imperatività presenta, invece, il controverso mandato d'arresto europeo, che, tuttavia, insieme a Eurojust, rientra nell'ambito di decisioni prese ben prima dell’11 settembre, vale a dire alla Conferenza di Tampere del 15 e 16 settembre 1999. Inoltre, si tratta di una misura che riguarda la cooperazione giudiziaria, non la criminal policy né tanto meno la lotta al terrorismo, che è cosa ben diversa dal perseguimento dei reati ed è o dovrebbe essere, affidata ai Governi, non ai giudici. Sembra che la nuova minaccia terroristica metta seriamente in crisi la tradizione giuridica europea. Si tratta di un attacco di natura indiscriminata, che non punta, almeno apparentemente, a conseguire specifici obiettivi politici o territoriali, ma a creare una situazione di insicurezza generalizzata. Non ci sono concessioni da fare o trattative da intavolare: la dimensione del conflitto è globale, con riferimento non tanto alla sua estensione, quanto alla sua struttura. Esso è figlio della modernità "liquida" (Bauman), rispetto alla quale i paradigmi giuridici costruiti nell'ambito dello spazio "striato" europeo non hanno molta presa. Di fronte a questo tipo di minaccia, la stessa sintassi dello Jus publicum europaeum (Schmitt) - che evidentemente sopravvive alla crisi degli Stati nazionali - sembra inadeguata. Da questo punto di vista, l'Europa sembra avere tutti i difetti degli Stati nazionali del Novecento: centralismo, burocratismo, formalismo, opacità nelle procedure decisionali e così via. Ma non pare, in compenso, averne ereditato i pregi: difesa della sovranità interna ed esterna, monopolio nella politica estera e in quella di difesa, determinazione nell'affrontare le minacce. Condivisione della memoria storica e diversità delle esperienze costituzionali Le incertezze e l'incoerenza con cui in Europa si affronta la minaccia terroristica lasciano perplessi se si pensa che gli europei hanno un'antica familiarità con l'eversione e la violenza politica, siano esse di natura ideologica o di natura territoriale. Per restare ai tempi più recenti, basti osservare che negli ultimi trent'anni, il Vecchio Continente ha conosciuto tutte le forme principali di attacco alle istituzioni e alla convivenza civile, dalla lotta armata di natura etnico-nazionale a quella di natura politica, fino al terrorismo di matrice mediorientale. C'è, in Europa, una condivisione della memoria storica del terrorismo e, in particolare, dei rischi connessi allo scarso impegno delle democrazie nel difendersi dai propri nemici. Basti pensare al peso che ha avuto nella nostra cultura costituzionale, dal secondo Dopoguerra e fino agli anni Settanta, il dibattito intorno alla crisi della Repubblica di Weimar e al suo eccessivo "garantismo" nei confronti dei propri nemici interni. D'altra parte, ciascun Paese ha affrontato, negli anni, la minaccia terroristica come un problema interno, attraverso gli strumenti elaborati nell'ambito della propria cultura costituzionale. Sicché, quando s'è posto il problema di costruire una politica europea comune contro il terrorismo, s'è continuato ad adottare il paradigma del problema "interno", cercando non tanto di integrare le varie esperienze politiche europee nell'ambito di un nuovo e comune percorso costituzionale, quanto di trovare il minimo comun denominatore tra i vari Paesi, in una chiave essenzialmente non politica, ma, secondo i casi, tecnico-giudiziaria o tecnico-poliziesca. Per la costruzione di una policy europea in materia di lotta al terrorismo, dunque, occorrerebbe riconsiderare le diverse esperienze costituzionali allo scopo non tanto di trovare punti di sintesi e analogie, quanto di individuare una comune filosofia ispiratrice, sulla cui base costruire una politica integrata contro il terrorismo, non ristretta alle questioni di ordine pubblico. Ci limiteremo, di seguito, a prendere in considerazione le esperienze di alcuni dei principali Paesi europei che, oltre ad essere ora nel mirino del terrorismo internazionale, hanno avuto esperienza in materia di eversione o di violenza politica e i cui percorsi costituzionali, nel medesimo tempo, possono essere considerati idealtipici rispetto all'evoluzione del costituzionalismo occidentale: Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia e Germania. Pragmatismo e garantismo nell'evoluzione del sistema britannico: il crescente ruolo dell'opinione pubblica Naturalmente, occorre fare una distinzione di massima tra il Regno Unito, patria del Common Law, da una parte, e i Paesi eurocontinentali, di tradizione romanistica, dall'altra. Vedremo, poi, come una tale distinzione sia, nella sostanza, alquanto relativa, anche se utile sul piano analitico. Il modello anglosassone, originariamente caratterizzato da un rigoroso equilibrio tra la Corona e il Parlamento, ha visto man mano crescere il peso dell'Esecutivo e indebolirsi relativamente il ruolo di controllo del Parlamento. D'altra parte, una funzione sempre più incisiva è svolta dall'opinione pubblica, che rappresenta ormai il principale elemento di bilanciamento in chiave garantista del sistema. Il martial law è l'istituto principale per affrontare l'emergenza: originariamente utilizzato dalla Corona sotto l'occhiuta sorveglianza del Parlamento, è ora nelle mani del Premier, che può contare sull'appoggio della maggioranza parlamentare, di cui è capo. Sicché, il vertice dell'Esecutivo può agire in deroga ai diritti costituzionali in particolari situazioni. Il Parlamento interviene successivamente con un Indemnity Act, che vale come giustificazione a posteriori della condotta del Governo. La filosofia che anima questo meccanismo è che la limitazione nell'esercizio di determinati diritti non consegue da scelte del Governo, ma è il risultato del verificarsi di un'emergenza: ad esempio, il ricorso alla giurisdizione militare può spiegarsi col fatto che le Corti ordinarie possono non essere nelle condizioni materiali di operare; tanto è vero che la giurisdizione civile si riafferma non appena cessata l'emergenza, con effetti retroattivi. È importante tenere presente che non sono ammesse interferenze da parte dei giudici, cui non viene consentito di annullare o contestare le decisioni del Parlamento e del Governo. Il primato assoluto del Parlamento, che per molti aspetti sostiene il protagonismo del Premier, ha dato, però, vita a qualche problema nel processo di integrazione europea. Ad esempio, lo Human Rights Act del 1998 stabilisce che in caso di incompatibilità tra una norma europea e la normativa nazionale, la questione venga rimessa al Parlamento, che, in quanto ha emanato il Bill of Rights è l'unico titolato a disciplinarne l'attuazione. In questo senso, è possibile far leva sull'art. 15 CEDU per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che prevede, in caso di emergenza, il ripristino della sovranità degli Stati in materia di deroghe ai diritti fondamentali. Malgrado ciò, il peso dell'Esecutivo è andato via via aumentando. Con l'emanazione dell'Anti Terrorism Act del 2001, vengono consentite pesanti limitazioni al diritto alla privacy e alla libertà personale quando vi siano gravi pericoli per la sicurezza pubblica. In particolare, si prevede una forte prevalenza della catena decisionale amministrativa rispetto alla giurisdizione e ampi poteri alle forze di sicurezza e di intelligence. Secondo l'Anti terrorism Act del 2005, poi, se un cittadino straniero accusato di terrorismo non può essere estradato perché nel suo Paese di origine rischierebbe la pena capitale (Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione europea, art. 19 comma 2), allora può essere tenuto in carcere per un tempo indefinito. Il cittadino può appellarsi allo Special Appels Commission (SIAC), ma il Governo può utilizzare il proprio potere in materia di definizione di "minaccia terroristica" per aggirare l'ostacolo. Dopo una serie di ricorsi, s'è convenuto di dare al Parlamento facoltà di riconoscere al Ministro dell'Interno il potere di emanare Control Orders, vale a dire misure restrittive non necessariamente di carattere detentivo. Un ruolo fondamentale nell'istruzione della pratica viene svolto dall'MI5, il Servizio Segreto interno, i cui poteri in materia sono stati ulteriormente accresciuti dopo gli attentati del 7 luglio 2005, con il Terrorism Act del 30 marzo 2006. D'altra parte, un ulteriore giro di vite proposto dal Governo attraverso la previsione di una carcerazione preventiva di tre mesi, incontrò la dura opposizione dell'opinione pubblica e fu respinto dal Parlamento. A dimostrazione del fatto che il sistema possiede al proprio interno anticorpi contro la degenerazione autoritaria, pur se mancano norme scritte che limitino la sovranità del Parlamento. La conferma del primato della decisione politica in Francia Per quanto riguarda i sistemi dell'Europa Continentale, questi non vanno considerati come un blocco monolitico. Ci sono Paesi che hanno una chiara disciplina dello stato d'eccezione, come la Francia, la Spagna e la Germania. E altri, come l'Italia, dove non esiste nessuna esplicita "Costituzione d'emergenza". Tra i primi, bisogna, poi, distinguere, tra quanti prevedono forme di limitazione all'esercizio di taluni diritti, come la Francia e la Spagna, e altri, come la Germania, dove esistono solo limitazioni molto blande. Per quanto riguarda il sistema francese, la sua caratteristica può essere vista nel "paradigma repubblicano", in base al quale la sicurezza della Nazione è la pre-condizione per la difesa e la diffusione dei diritti e delle libertà. Un paradigma che è all'origine della stessa V Repubblica, a partire dalla crisi algerina del 1956, e che ritorna in tutti i momenti critici: il tentato colpo di Stato del 1961, la rivolta studentesca del 1968, la crisi nella Nuova Caledonia del 1985, l'attacco di al-Qaeda agli Stati Uniti, la rivolta nelle Banlieu del 2005. È indicativo il fatto che una delle principali misure d'emergenza - l'état d'urgence - non sia contenuto nella Costituzione: esso appartiene alla legislazione antecedente alla V° Repubblica, anche se segna in qualche modo la nascita di quest'ultima, in quanto venne utilizzato proprio in occasione della crisi algerina (legge 55-385/1955). La misura dura dodici giorni, salvo conferma del Parlamento, e consente di attuare una sorta di coprifuoco generalizzato, con il ricorso alla giustizia militare nei casi estremi. Quando fu adottato per reprimere la rivolta nelle Banlieu, nell'inverno 2005/2006, non si fece appello all'art. 15 CEDU. Il che diede adito a un ricorso, in quanto furono violate la libertà di domicilio (art. 9 CEDU) e quella di riunione (art. 11 CEDU). Ma il Consiglio di Stato riconobbe che l'emergenza poteva essere legittimamente gestita solo dal vertice dell'Esecutivo. Stando, invece, al testo costituzionale, il Presidente della Repubblica può assumere motu proprio poteri eccezionali, anche in deroga alle garanzie costituzionali (art. 16 Cost. francese). Deve, certo, trattarsi di un'emergenza molto grave e imminente, che riguardi la sovranità della Nazione. D'altra parte, non c'è controllo giurisdizionale, a meno che non si voglia rubricare in tale modo la consultazione obbligatoria, ma non vincolante, del Capo dello Stato con il Conseil Constitutional. L'eventuale bilancio, in sede giudiziaria o parlamentare, della condotta del Presidente è rimandata a dopo l'emergenza. Ma è ben difficile che si possa procedere contro un Presidente che, senza grandi sforzi, può rivendicare il merito di avere salvato la Patria. Diversamente dai poteri eccezionali, lo "stato d'assedio", disciplinato dall'art. 36 della Costituzione, non avviene su autonoma iniziativa di alcun Organo costituzionale, ma è il frutto di una decisione concordata tra l'Esecutivo e Legislativo. Il meccanismo è sostanzialmente analogo a quello dello ‘stato di urgenza’, ma con maggiore attenzione alle garanzie, che possono essere limitate solo secondo una disciplina espressamente prevista dalla legge. Analogo orientamento a valorizzare il primato della decisione politica prevale nell'ambito della legislazione ordinaria, specialmente dopo gli attentati al World Trade Center. È il caso, ad esempio della legge 2006/64 del 23 gennaio 2006 con la quale vengono integrate le norme antiterrorismo della legge 86/1020 del settembre 1986. Con questa legge, il periodo necessario ai naturalizzati condannati per riacquistare o mutare la nazionalità francese viene portato a 5 anni. foto Ansa Vengono, in genere, introdotte pene più severe per tutti i reati in qualche modo riconducibili alla minaccia terroristica e vengono dati ampi poteri alle Forze dell'Ordine in materia di perquisizioni, video-sorveglianza ed intercettazioni. A quest'ultimo proposito, il Giudice costituzionale ha manifestato un chiaro orientamento a far prevalere le ragioni della sicurezza su quelle della libertà. Il rifiuto della legislazione d'emergenza in Spagna e in Italia Non in tutti i Paesi dove si applica il criterio della deroga ai diritti fondamentali, però, si ha una così ampia discrezionalità dell'Esecutivo. In Spagna, ad esempio, la deroga ai diritti fondamentali viene rigidamente disciplinata con un preciso elenco dei diritti in questione (art. 55 della Costituzione). Mentre viene esercitato un severo controllo giurisdizionale sulle decisioni della polizia, anche quando si tratta di sospetti terroristi. Il Tribunal Constitucional, però, ha stabilito che un detenuto può essere tenuto in isolamento totale solo se il giudice ha espressamente chiesto la convalida della misura (Tribunal Constitucional, 4.71 / 1994). Col tempo, il Tribunal s'è dimostrato relativamente più attento alle esigenze della sicurezza. Esso, ad esempio, ha giudicato non incostituzionale la norma che prevede la legittimazione giudiziaria a posteriori e l'avvenuta violazione del domicilio o della corrispondenza da parte delle Forze di Polizia, giudicando tali violazioni come eccezioni motivate da quanto prevede la Costituzione in merito. Nello stesso senso ci si è mossi sul piano politico, laddove, nel 2002, il mancato disconoscimento del terrorismo è stato considerato causa legittima di scioglimento di un partito. Nel complesso, dopo gli attentati dell'11 marzo 2004 a Madrid, l'emergenza terroristica non è stata utilizzata per attuare modifiche legislative significative in materia di sicurezza e libertà. Si tenga presente, però, che esiste la possibilità per il Governo di intervenire tramite decretazione d'urgenza, salvo, poi, la conferma del Parlamento (art. 86 della Costituzione). Una possibilità, questa, prevista anche dal sistema italiano (art. 77 della Costituzione), dove, però, a differenza che in Spagna, non si dà una disciplina costituzionale agli stati di emergenza. C'è, in Italia, un andamento simmetrico tra la politica di sicurezza e la politica militare. Lo stato di necessità tende, dopo la fine della guerra fredda, ad essere interpretato come una fonte intra ordinem piuttosto che extra ordinem. foto Ansa Allo stesso modo, per quanto riguarda la minaccia terroristica, si è sempre escluso l'uso della legislazione speciale, anche durante i cosiddetti "anni di piombo". E questa filosofia non è stata abbandonata con l'acuirsi della minaccia del terrorismo internazionale. Sia sul piano legislativo, sia sul piano governativo, si procede nel perimetro delle norme costituzionali, cercando di valorizzare al massimo gli strumenti preventivi e repressivi disponibili, con particolare riferimento ai poteri già riconosciuti all'Esecutivo in materia di sicurezza. Potremmo parlare, al riguardo, di un orientamento teso a disciplinare - in particolari situazioni di necessità - determinate modalità di godimento di determinati diritti. Un paradigma, a ben vedere, molto simile a quello utilizzato nel sistema anglosassone, dove il non godimento di un diritto avviene non per decisione del Governo, ma per l'impossibilità materiale per lo stesso Esecutivo di garantire la normalità in una determinata situazione. Del resto, non potrebbe che essere così, visto che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 della Costituzione). Laddove, infatti, ci si trovasse di fronte ad una situazione del tutto eccezionale, tale da compromettere lo stesso funzionamento delle istituzioni e le comunicazioni interne al Paese, allora sarebbe possibile ricorrere allo Stato di guerra (art. 78 della Costituzione) e far valere il relativo dovere di difendere la Patria (art. 52 della Costituzione). Contestualmente, il Parlamento può conferire al Governo i poteri per affrontare l'emergenza. In questa fase può essere possibile emanare norme in deroga al quadro legislativo esistente in materia di diritti costituzionali, agendo, tuttavia, solo su alcune modalità di fruizione dei diritti stessi. L'impianto garantista della nostra Costituzione non pare essere stato di intralcio sinora, alla rapidità ed efficacia della risposta del sistema alle emergenze. Dopo gli attentati del 7 luglio 2005 a Londra, la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, in pochi giorni, approvavano un decreto recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale. E lo hanno fatto svolgendo fino in fondo la propria funzione, vale a dire discutendo ed apportando modifiche, anche significative, alla proposta del Governo (D.L. 27.2.05 nr. 144, convertito nella legge 31.7.05 nr.155). Fu rifiutata - si disse in Aula - la logica della "guerra al terrorismo", che avrebbe collocato la Repubblica e i terroristi sullo stesso piano. foto Ansa Il problema dell'Italia sembra essere, piuttosto, quello della titolarità della criminal policy, che dovrebbe essere intestata al Governo, ma che di fatto viene spesso esercitata dalla magistratura, non tanto a causa dell'obbligatorietà dell'azione penale, quanto per l'espansione del potere giudiziario che accompagna la crisi del sistema politico italiano fin dagli anni dell'emergenza terroristica. A questi problemi cerca di rispondere la riforma dei Servizi di Informazione e di Sicurezza avviata nella XV° Legislatura, che, come spiegato dal Presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, dovrebbe portare l'Intelligence oltre la logica della "guerra fredda" (Violante). La Germania alla ricerca di un superamento degli schemi della guerra fredda Anche la "Costituzione emergenziale" tedesca riflette visibilmente il clima della “guerra fredda”. Sia lo stato di "tensione" sia lo stato di "difesa" previsti dalla Legge fondamentale (art. 80a e intero titolo Xa) fanno riferimento a minacce di tipo militare provenienti dall'esterno. Il passaggio dal primo al secondo livello di allarme è segnato da una certa militarizzazione della gestione dell'emergenza e da una contrazione delle autonomie statali e del processo legislativo. Molto viva si avverte, nella Legge fondamentale tedesca, l'esperienza della Repubblica di Weimar. Si prevede, infatti, che chiunque, per combattere l'ordinamento costituzionale democratico e liberale, abusi della libertà di espressione del pensiero (art. 18 della Legge fondamentale), in particolare della libertà di stampa (v. art. 5, primo comma della Legge fondamentale), della libertà di insegnamento (v. art. 5, terzo comma della Legge fondamentale), della libertà di riunione (v. art. 8 della Legge fondamentale), della libertà di associazione (v. art. 9 della Legge fondamentale), del segreto epistolare, postale e delle telecomunicazioni (v. art. 10 della Legge fondamentale), del diritto di proprietà (v. art. 14 della Legge fondamentale) o del diritto di asilo (v. art. 16° della Legge fondamentale) non possa fruire di questi stessi diritti fondamentali. L'impianto complessivo, comunque, è fortemente garantista. La limitazione dell'esercizio di taluni diritti fondamentali può avvenire solo con una legge di carattere generale, estremamente dettagliata nel riferimento ai diritti in questione (art. 19 della Legge fondamentale). Un ruolo fondamentale viene esercitato dal Tribunale Costituzionale, il quale ha respinto ogni tentativo di limitare il suo potere di definire il perimetro entro il quale si deve muovere il legislatore per disciplinare determinate modalità di esercizio dei diritti fondamentali. Alla minaccia interna l'ordinamento tedesco consente di rispondere anche attraverso una declinazione in chiave securitaria del principio del federalismo cooperativo. Laddove, infatti, siano messi in pericolo l'esistenza o l'ordinamento democratico di un Land, quest'ultimo può richiedere l'aiuto delle Forze di Polizia di altri Länder, così come delle forze e delle istituzioni di altre amministrazioni e della polizia confinaria federale (art. 91 della Legge fondamentale). Nel caso che, il Land sul quale incombe il pericolo non sia nelle condizioni di fronteggiare quest'ultimo, il Governo federale può sottoporre alle proprie istruzioni la polizia di tale Land e le Forze di Polizia di altri Länder, così come può impiegare delle unità della polizia confinaria federale. Ci sono stati, ovviamente, dei mutamenti dopo l'11 settembre. Ma questi hanno riguardato non il regime delle deroghe, bensì quello delle norme costituzionali poste a salvaguardia della Costituzione stessa, contro chi si serve delle garanzie democratiche per minacciare la democrazia stessa. In questo senso, è diventata più severa la disciplina costituzionale del divieto di dar vita ad associazioni i cui scopi e i cui valori siano in contrasto con la Costituzione e che minaccino la tolleranza e il dialogo tra i popoli o mettano in pericolo l'esistenza della Repubblica (v. Legge fondamentale 21,2 - una norma utilizzata contro estremisti di destra e di sinistra). foto Ansa L'impatto delle nuove minacce terroristiche sulla legislazione tedesca, però, ha determinato anche effetti paradossali. Ad esempio, il legislatore, nel 2004, ha cercato di affrontare la nuova sintassi del terrore trattando l'attacco a mezzo di aerei civili alla stregua di una calamità naturale, in quanto questa rientra nelle competenze del Ministero della Difesa (art. 35 della Legge fondamentale). Si tratta dell'unico caso in cui possono essere usati strumenti operativi e decisionali militari in ambito civile. Al Ministro della Difesa, dunque, sarebbe spettato di decidere l'eventuale abbattimento dell'aereo. Ma il Tribunale costituzionale ha parzialmente bocciato la norma (Sentenza del Tribunale costituzionale federale, BverGE, 1 BvR 357/05). In primo luogo, secondo il giudice costituzionale, vi sarebbe stata una violazione della dignità umana dei passeggeri, trattati alla stregua di oggetti inanimati. In secondo luogo, l'intervento militare deve esclusivamente considerarsi come sussidio tecnico-logistico, che non può comportare il disciplinamento dell'emergenza in oggetto con norme di natura bellica: al di fuori della difesa, le forze armate possono essere impegnate soltanto nella misura in cui la Legge fondamentale lo ammette esplicitamente (art. 87a Legge fondamentale). Il comune rifiuto del baratto tra sicurezza e libertà e le premesse per una comune politica anti-terroristica Da questa panoramica emerge, ci pare, un quadro molto vario. Ma non è detto che da tale varietà non possano venire soluzioni coerenti, nel corso del processo di integrazione. All'interno delle esperienze sopra trattate non è difficile trovare valori e schemi concettuali comuni. È, ad esempio, comune il principio secondo cui qualsiasi limitazione dei diritti fondamentali debba essere limitata nel tempo e nello spazio, ancorata ad esigenze chiaramente percepite dalla pubblica opinione. Infatti, la Corte europea dei diritti umani, laddove è intervenuta, lo ha fatto non con riferimento alla messa in discussione dei principi contenuti nella Convenzione europea sui diritti umani, ma con riferimento specifico alle valutazioni fatte dal Governo del Paese in questione circa il "margine di apprezzamento" (art. 15 CEDU) a propria disposizione nella valutazione delle misure necessarie alla protezione dei diritti fondamentali. Viene, dunque, rifiutata la logica terroristica del baratto tra sicurezza e libertà. Altrettanto comune appare l'idea che le garanzie democratiche non possano essere usate per minacciare l'ordine democratico. In altri termini, ci pare che si sia definitivamente affermato il diritto della democrazia a difendersi dai propri nemici. È possibile, ci si chiede, la proiezione di questa filosofia sul piano europeo? Di certo, la formazione di una disciplina integrata in materia di lotta al terrorismo rappresenta il nuovo fronte per la costruzione dell'Europa politica, dopo quella economica e quella giudiziaria. BIBLIOGRAFIA - Ackerman, B., The Emergency Costitution, in " The Yale Law Journal ", 2004, vol. 113; La Costituzione di emergenza, Roma, Meltemi, 2005 - Barak, A., Democrazia, terrorismo e corti di giustizia, in "Giur.cost.", 2002 - Barazzetta, A., I principi di specialità e doppia incriminazione: loro rivisitazione nel mandato d'arresto europeo e garanzie della persona, Milano, Giuffrè, 2004. - Bartoloni, M. E.,La tutela giurisdizionale nell'ambito del secondo e del terzo pilastro Ue, in "Quad. cost. ", 2005. - Bauccio, L., L'accertamento del fatto reato di terrorismo internazionale. Aspetti teorici e pratici, Milano, Giuffrè, 2005. - Bauman, Z., Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge 2000, trad. it. 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