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GNOSIS 1/2007
La strategia della risposta all’Occidente

Il Jihad globale
e la guerra diffusa


Anoush EHTESHAMI

Il successo dei movimenti jihadisti è dipeso in gran parte da un fenomeno importato dall’Occidente: la globalizzazione. Questo processo, visto da numerosi islamisti come mezzo usato dall’Occidente per diffondere la corruzione nei Paesi arabi e assicurarsi la sopravvivenza dei regimi filo-occidentali, è divenuto al tempo stesso - attraverso l’utilizzo da parte dei mujahidin delle nuove tecnologie nel campo militare e delle comunicazioni - il mezzo più efficace per combattere i nemici dell’Islam. Il mondo intero rappresenta ormai un unico teatro di jihad, non più un “dar al-harb” e un “dar al-islam”, se il nemico, sia esso shiita, apostata o crociato, può essere sconfitto più efficacemente o facilmente in territorio musulmano. Avvalendosi degli strumenti tecnologici, Al Qaida ed i gruppi ad essa legati hanno potuto creare, in diversi Paesi del mondo, vari networks pronti a pianificare e realizzare atti di terrorismo. L’autore dell’articolo spiega come - attraverso le conseguenze degli attentati terroristici, a partire dall’11 settembre 2001 con l’attacco all’Afghanistan e l’invasione dell’Iraq - gli estremisti siano stati in grado di manipolare la geopolitica della regione mediorientale, e non solo, avvalorando la tesi islamista di una cospirazione americana tesa ad annientare i Paesi e la cultura islamica a favore di Israele. L’azione degli jihadisti, che si propongono come unico vero difensore dell’Islam dagli attacchi degli Stati Uniti, avrebbe contribuito a creare una sorta di Umma virtuale, abbattendo le barriere legate all’identità nazionale, ad accrescere il divario già esistente tra i governi e le società arabe ed, infine, a rendere sempre più instabile ed insicura sia la regione mediorientale che quella africana.


foto Ansa

Secondo Grieffel, l’11 settembre è il frutto della “globalizzazione di diverse guerre civili e conflitti politici fra Islamisti, governi militari (quali quelli di Siria e Algeria), o monarchici… Gli attentati furono la terribile conseguenza di una decisione strategica presa dai movimenti islamisti più radicali che, sconfitti in molti Paesi musulmani” (1) , tentarono di globalizzare la lotta con i mezzi che la stessa globalizzazione offriva loro, colpendone le radici e le sue fronde in Medio Oriente. Hanno usato la globalizzazione per superare la barriera dello stato nei loro Paesi, facendone una strategia di sopravvivenza e di offesa al tempo stesso.
Desidero proporre alcune riflessioni. La prima: non dimentichiamoci che la globalizzazione per gli Islamisti è causa di un nuovo jihad (2) . La convivenza pacifica con l’Occidente, alla fine del XX secolo, era per loro pressoché impossibile: l’Occidente, offrendo supporto logistico e finanziario ai suoi sostenitori, aveva contribuito in maniera decisiva alla sconfitta degli Islamisti in Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto, Giordania e persino in Arabia Saudita. Per molti Islamisti l’Occidente, diffondendo la corruzione materiale per mezzo della globalizzazione e prestando un aiuto militare e di sicurezza ai gruppi dirigenti arabi contro gli Islamisti, aveva sferrato un duplice attacco, dichiarando guerra all’Islam.
Il jihad globale era la risposta più appropriata a tali sfide (3) . Abu Bakar Baaysir (leader della Jemaah Islamiyah indonesiana) ha dichiarato: “Sono gli Stati Uniti, e non l’Islam, responsabili del terrore che oggi pervade il mondo. Vogliono far ricadere su noi musulmani la colpa di attentati come quello di Bali, mentre noi non c’entravamo niente… Sono gli Stati Uniti e i loro alleati che hanno interesse a dimostrare che l’Indonesia pullula di terroristi per ottenere consensi per l’attacco all’Iraq (4) ”.
Il 17 ottobre affermò che l’esplosione di Bali era stata “orchestrata dagli infedeli per dichiarare guerra all’Islam” (5) .
Seconda riflessione: “i jihadisti globalisti”, nelle loro campagne, usano ed applicano tranquillamente i moderni mezzi di comunicazione, trasporto e guerra. Così, mentre gli Stati mediorientali e nordafricani liberalizzano le telecomunicazioni, loro sfruttano i nuovi spazi pubblici per ampliare i propri contatti e fare proseliti. Le stesse tecnologie vengono, inoltre, usate per far leva sull’effetto sorpresa nel tentativo di provocare quanti più danni possibile agli obiettivi da colpire. I nuovi sistemi di comunicazione, mezzi di trasporto veloci e strumenti di guerra moderni, mobili e letali sono gli elementi nuovi della nuova generazione di Islamisti attivisti.
Per dare un’idea del salto di qualità compiuto vale la pena ricordare che, appena nel 1979, la registrazione su nastro di messaggi indirizzati dall’Ayatollah Khomeini ai suoi seguaci in Iran veniva considerata uno strumento innovativo!
In terzo luogo, come le società transnazionali, anche i jihadisti globalisti vedono il mondo come un unico teatro di operazioni. Anch’essi sono diventati più agili e sempre meno legati, o dipendenti, da una base territoriale solida per le operazioni internazionali.
Se è vero che Paesi come l’Afghanistan, il Sudan, la Somalia, lo Yemen e il Pakistan possono essere comodi per gestire operazioni e personale, la presenza costante in un solo Paese sembra essere sempre meno indispensabile, anche rispetto a dieci anni fa.
Quarta osservazione: i jihadisti globalisti tendono a spostare, sempre più frequentemente, le proprie battaglie al di fuori delle aree mediorientale, nordafricana e musulmana, e ad inchiodare i nemici nel proprio territorio oppure in territori neutrali, dove la presenza occidentale può già essere consistente.
Sono riusciti a diffondere insicurezza in lungo e in largo, constringendo l’Occidente a rivedere i propri parametri di sicurezza in termini di post-Guerra Fredda, laddove la guerra, come blocco unico, sta cedendo il passo a conflitti minori, di carattere eversivo, sparsi per il mondo.
Ad esempio, un allarme proveniente da Londra, Parigi, Berlino, Madrid, Roma o Washington ai nostri giorni assume una dimensione globale, e le consuete valutazioni della minaccia dei Paesi occidentali devono necessariamente prevedere un’analisi delle attività di piccole organizzazioni, il monitoraggio di soggetti sparsi per il mondo, il monitoraggio di transazioni finanziarie sospette, nonché lo spiegamento di tecnologie nascoste e di sensori umani e sofisticati controllati a distanza.
Infine, mentre la globalizzazione involontariamente indebolisce la pressione della dirigenza sullo stato territoriale, i jihadisti globalisti cercano di sfruttare l’indebolimento dei confini fisici e burocratici fra gli Stati per allungare i tentacoli e garantire la propria effettiva presenza transfrontaliera. L’abbassamento delle frontiere, di qualsiasi tipo, gioca a loro vantaggio, anche se il loro fine ultimo è quello di isolare, separare il mondo musulmano dall’Occidente.
Su un altro piano il jihad globalizzato mette a repentaglio l’intesa fra dirigenza araba e Occidente. I pericoli transnazionali hanno minato l’intesa meno forte, seppur duratura, fra regimi arabi e Occidente su alcune questioni quali, ad esempio, il ruolo svolto dall’Islam nella politica. Vale la pena ricordare che, durante la Guerra Fredda ed ancor più durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan negli anni ’80, l’Islam politico (tipologia non iraniana) nell’insieme veniva accettato con favore come alleato nella crociata anti-comunista degli Stati Uniti.
Il fatto che gli Islamisti dipingessero i Paesi del Patto di Varsavia come “senza-Dio” giocava a favore non solo degli interessi geopolitici degli Stati Uniti, ma anche della lotta intestina dei suoi alleati arabi contro gli avversari nazionalisti di sinistra e anti-imperialisti.Gli Islamisti, fino a quando non avessero messo in discussione lo status quo dell’assetto regionale delle aree mediorientale e nordafricana, potevano costituire una forza legittima.


foto Ansa

I jihadisti globalisti, tuttavia, oltrepassando i limiti e infrangendo l’implicito patto fra governanti arabi e Stati Uniti, hanno tolto ai primi la leva di comando migliore. Inoltre si sono alleati con le classi dirigenti e con l’Occidente, constringendo Washington a rivedere i suoi stretti rapporti con quei governanti musulmani la cui situazione interna appare critica o, peggio ancora, un terreno di coltura per l’Islam radicale.
A distanza, appare ora chiaramente che gli eventi dell’11 settembre 2001 furono i segnali più macroscopici di una campagna di terrore internazionale più ampia, che coinvolge molti Paesi della regione. In Marocco, Tunisia, Turchia, nell’Iraq del dopo-Saddam e in Arabia Saudita gli attivisti di Al Qaida hanno preso a colpire bersagli civili a loro piacimento, costringendo lo Stato ad adottare maggiori misure di sicurezza. Avvalendosi degli strumenti della rivoluzione IT, le reti di Al Qaida hanno creato strutture di comando e controllo sicure in diversi Paesi mediorientali e nordafricani, ed hanno usato i propri affiliati presenti in quei paesi per colpire e compiere atti di terrorismo.
In Arabia Saudita, ad esempio, hanno chiaramente cercato di destabilizzare il regime degli Al-Saud, mentre in altri casi, prendendo di mira obiettivi “secondari” (sinagoghe o residenze per stranieri), hanno inteso incunearsi fra musulmani e non musulmani, fra governanti e base popolare, nonché fra Stati musulmani e Occidente.
Notava un commentatore che gli attentati suicidi di Istanbul del novembre 2003 furono un chiaro “messaggio politico per ribadire che ebrei e musulmani non dovrebbero collaborare. [In tal modo hanno voluto far pagare a] Turchia e Israele la loro solida alleanza militare, e alla Turchia di aver preso in considerazione l’ipotesi di inviare truppe in aiuto all’Iraq” (6) .
Questa analisi è stranamente in linea con il messaggio dello stesso bin Laden, che ammonisce: “Dice Dio: O voi credenti! ‘Non considerate Ebrei e Cristiani vostri amici e protettori: essi sono amici e protettori solo gli uni degli altri’. E colui il quale fra voi guarda a loro [in cerca di amicizia] è uno di loro” (7) .
Ed ecco che, in una congiuntura storica particolarmente interessante, esattamente nel momento in cui i Governi degli Stati mediorientali e nordafricani iniziavano a prendere in considerazione la possibilità di aprirsi, abbassando le molte, rigide barriere ai flussi di beni, persone e informazioni, proprio nel momento in cui stavano cedendo un po’ di potere alle forze nazionali e globalizzanti, Governi regionali come quello dell’Arabia Saudita venivano incitati dai loro alleati internazionali e dai loro violenti oppositori ad alzare le barriere, proteggere lo Stato e rendere la propria presenza nella società ancora più incisiva.
I jihadisti globalisti pertanto – forse involontariamente – hanno costretto i paesi mediorientali e nordafricani a rimettere lo stato sulla strada della globalizzazione.
Il loro obiettivo - imporre una presenza musulmana transnazionale al dilà dei confini dei singoli Stati-Nazione - ha fatto vacillare la già fragile situazione politica della regione, costringendo pericolosamente i regimi a cercare un equilibrio fra quelli che sono, in sostanza, requisiti tecnici di sopravvivenza ed elementi di legittimazione tanto importanti quali la loro stessa identità.
Il motto saudita “o siete con il Paese [alias lo Stato] o con il terrorismo [alias le forze musulmane transnazionali emerse in seguito all’attentato di Riyadh del 9 novembre 2003]” stigmatizza perfettamente la questione (8) . Il regime saudita deve da un lato mantenere i propri interessi nel mondo musulmano, nei confronti del quale sente di avere qualche responsabilità e, allo stesso tempo, concentrarsi su imperativi imprescindibili, quali la difesa della sicurezza nazionale dall’attacco diretto delle forze islamiste transnazionali.
Infine, opponendosi al potere occidentale nella regione, considerato la macchina politica della globalizzazione, i jihadisti globalisti hanno altresì preso di mira lo stesso Stato musulmano moderno.
Questa resistenza vissuta in prima persona con missioni suicide ed altri atti violenti compiuti nei Paesi musulmani, li rende martiri votati ad una causa musulmana di più ampia portata.
Realizzando abilmente la umma per mezzo del ciberspazio, passando sopra le teste dei regimi e sotto i loro piedi – sotto i radar di sicurezza dello Stato – sono riusciti ad assumere il comodo ruolo di testa di ponte nella lotta per la difesa della religiosità, di fronte agli attacchi sferrati dall’Occidente all’Islam.
Gli Stati mediorientali e nordafricani sono inevitabilmente in balìa dei venti politici che la globalizzazione porta con sé.
La spiacevole guerra al terrore, che ora si impone ai governanti arabi in particolare, contribuisce ad allargare un divario, di per sé già ampio, fra i signori dello Stato, filo-occidentali e le loro società, in ampia misura religiose e tradizionaliste.
Inoltre i jihadisti globalisti, impostando il loro messaggio al livello di umma, stanno facendo riaffiorare, nei rapporti stato-società del mondo arabo, tensioni analoghe a quelle dell’epoca delle lotte nazionaliste fra Nazione araba e Stato arabo. Ne conseguì allora una frattura fra popoli, da un lato, ed un sistema statale arabo debole, spezzettato e frammentato, dall’altro. Da ultimo, fu lo stato a vincere la battaglia, e l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nell’agosto del 1990 fu forse l’ultimo atto del pan-arabismo come forza politica internazionale.
Da allora una regione già di per sé esposta è stata più sistematicamente dominata da potenze esterne. Nel XX secolo possiamo dire di vivere nuovamente, in maniera più accentuata, lo stesso schieramento fra Stati mediorientali e nordafricani e una forza transnazionale.
Questa volta, però, la cesura riguarda stato e globalizzazione, stato e pan-islamismo radicale, laddove quest’ultimo risulta essere una forza che dispone di risorse maggiori di quelle del pan-arabismo, anche se disposte in maniera caotica. Lo Stato stesso, questa volta, si trova in una posizione maggiormente vulnerabile: da un lato si trova a dover affrontare al suo interno, una ‘crisi fiscale’ più grave, mentre dall’altro tenta di mitigare l’invadenza della globalizzazione sulla società.


da www.interet-general.info/

La geopolitica del pan-islamismo è un altro fattore che occorre tener presente. A partire dagli anni ’50 fino agli anni ’90, le rivalità fra popoli arabi si sono perlopiù giocate all’interno dello stesso scacchiere arabo. Per contro, gli odierni guerrieri del jihad globale si sentono liberi di portare la loro campagna in ogni angolo del mondo musulmano e sono, pertanto, in grado di manipolare la mappa geopolitica del conflitto con l’Occidente e i regimi musulmani al potere come meglio si addice al loro programma: esercitano pressione là dove occorre, certi del fatto che, ovunque agiscano, le conseguenze delle loro azioni saranno avvertite in tutta la regione mediorientale.
Un esempio classico è stato l’11 settembre, con le sue ripercussioni in Medio Oriente. L’invasione angloamericana dell’Iraq, nel marzo 2003, invasione di uno Stato arabo protagonista nello scacchiere e porta orientale verso il mondo arabo, costituisce però un altro esempio del modo in cui rapporti già difficili possano conoscere sviluppi imprevisti.
Si consideri che l’occupazione dell’Iraq è stata compiuta con il pretesto di disarmare e impedire a Saddam Hussein di fornire armi letali di distruzione di massa ad Al Qaida o ad altri terroristi. Poco è sembrato importare che non si fossero riscontrati legami significativi fra il regime iracheno e Al Qaida, né che l’Iraq non fosse più in condizioni di sviluppare e, tanto meno, di accumulare armi di distruzione di massa.
Tuttavia, dopo la guerra in Iraq del 2003, la crisi che si estende dalla Palestina all’Eufrate si è fatta più marcata e la presenza occidentale in Medio Oriente si è notevolmente ampliata. La guerra, dichiaratamente combattuta per gli iracheni e per il mondo civile, ha ulteriormente avvalorato la tesi islamista di una cospirazione americana intesa ad annientare i Paesi musulmani potenti a vantaggio di Israele.
La guerra ha poi finito per fare proprio il gioco di Al Qaida, favorendo l’apertura di un ennesimo fronte per il jihad.
Un tipico sostenitore dell’idea che gli USA stiano intervenendo per modificare forzosamente la geopolitica della regione è lo stesso bin Laden, che così analizzava il conflitto (imminente): “Seguiamo con grande interesse ed estrema preoccupazione i preparativi dei crociati ad una guerra che si propone di occupare un’antica capitale dell’Islam, saccheggiare le ricchezze dei musulmani e insediare un Governo fantoccio, satellite dei suoi padroni di Washington e Tel Aviv, proprio come tutti gli altri Governi traditori e fantoccio dei Paesi arabi. Questo in preparazione all’avvento del Grande Israele” (9) .
Il fatto che dalla guerra avrebbe tratto beneficio l’altro suo nemico, il popolo sciita, costituiva un’altra preoccupazione, seppure inespressa, di Al Qaida.
Come già detto, la guerra ha contribuito a ridisegnare ancora una volta la mappa geopolitica della regione ed è probabile che, nel corso del prossimo decennio, i rapporti fra Stati cominceranno a conformarsi maggiormente alle nuove realtà di potere della regione. Questa tendenza già si evince dal modo in cui Bahrein, Giordania, Marocco e Qatar si stanno riallineando per approfittare delle opportunità offerte da un maggiore impegno nei confronti degli Stati Uniti.
D’altro canto, è da notare come Turchia, Egitto, Siria e Iran – i Paesi più potenti della regione – si siano, in un modo o nell’altro, ritrovati ai margini di questi nuovi allineamenti e Iran e Siria siano stati deliberatamente indicati dagli Stati Uniti come entità destabilizzanti.
I rapporti fra gli Stati Uniti e i due Stati confinanti con l’Iraq potrebbero farsi più tesi se, nel corso del prossimo decennio, Baghdad dovesse imporsi come uno Stato forte, un amico fidato dell’Occidente e uno dei suoi principali partner arabi nel campo dell’economia e della sicurezza. Tuttavia, guardando alla profonda crisi che tormenta l’Iraq all’inizio del XXI secolo, questa eventualità è, a dir poco, aleatoria. La situazione potrebbe facilmente sfuggire al controllo, prendendo pieghe piuttosto inaspettate.
Consideriamo, ad esempio, un’ipotesi non del tutto implausibile: nel XXI secolo l’Iraq, per risolvere i suoi problemi geopolitici interni, viene smembrato, riassumendo l’aspetto della Mesopotamia dell’inizio del XX secolo, divisa nei tre “distretti” di Mosul, Baghdad e Basra. Questa alternativa non è stata presa in considerazione immediatamente all’indomani della caduta di Baghdad, ma è possibile immaginare una situazione in cui i persistenti problemi dell’Iraq rendano accettabile l’ipotesi dello smembramento.
La frammentazione di uno Stato arabo chiave come l’Iraq in due o tre staterelli (rispettivamente curdo e arabo o curdo, sunnita e sciita) avrebbe conseguenze di portata storica. Non soltanto determinerebbe uno spostamento dei centri di potere all’interno della regione, non soltanto ridisegnerebbe la geografia dell’area, ma lascerebbe anche la porta aperta ad ulteriori riassetti territoriali in Medio Oriente, in un momento in cui lo Stato subisce forti pressioni interne, oltre a quelle della globalizzazione.
Gli altri Paesi multietnici e multinazionali del Medio Oriente e dell’Asia occidentale, che sono numerosi, non avranno altra scelta se non quella di erigere attorno a sé barriere difensive e rafforzare la propria autorità, mediante un ulteriore accentramento di poteri.
Il risultato sarebbe diametricalmente opposto alle tendenze della globalizzazione e dell’abbattimento delle frontiere. Con l’avanzare del XXI secolo potremmo quindi trovarci a fare i conti con i venti che spazzano il Medio Oriente, che portano con sé ulteriori guerre, conflitti inter-statali e violenza sociale, invece di assistere a quella diffusione della democrazia irradiata da Baghdad, così ardentemente propugnata dall’Amministrazione Bush nel 2003.
Tuttavia, la dissoluzione degli attuali Stati territoriali della regione in entità più piccole, in un gruppo numericamente maggiore di Stati qualitativamente più fragili, non contribuirebbe a consolidare la globalizzazione in Medio Oriente.
Un ridimensionamento di questo tipo non può garantire i requisiti minimi per un’espansione capitalistica, né per soddisfare i bisogni immediati dei popoli. Gli Stati inefficienti, come sarebbero inevitabilmente destinati ad essere questi Paesi smembrati, non sono in grado di promuovere la causa della stabilità.
Quanto accade in Iraq, quindi, e la probabile distruzione dello Stato ‘artificiale’, avrà implicazioni enormi per i Paesi della regione – arabi e non – e altererà tutta una serie di rapporti, riconfigurando identità, cultura, sicurezza, economia, religione e politica delle Nazioni, composte da una vasta gamma di popolazioni. Tra l’altro, non si può sottovalutare la dimensione interna della questione: con la caduta di Baghdad, il fattore sciita si è trasformato in una forza politica assolutamente in grado di sfidare la supremazia sunnita nel cuore del mondo arabo.
Il fattore sciita, inoltre, rischia di rafforzare ulteriormente il sentimento anti-sciita dei sunniti, in un arco spaziale che si estende dall’Indonesia fino all’Africa settentrionale e occidentale.
La violenza di Al Qaida attirerà altre forze salafite e sunnite militanti, unite nella lotta anti-sciita.
I contrasti fra sunniti e sciiti avranno ripercussioni dirette sui rapporti fra Iran e Paesi vicini di fede sunnita, incrinando verosimilmente i buoni rapporti con Stati potenti, quali l’Arabia Saudita, il Pakistan e la Turchia. L’ascesa degli sciiti in Iraq renderà, altresì, più complesso il rapporto fra Stati Uniti e mondo arabo, in quanto i primi sono considerati, a torto o a ragione, lo sponsor degli sciiti nel mondo arabo.
Per taluni islamisti arabi la rimozione violenta del regime baatista in Iraq è parte della stessa strategia di dominio che cerca di rafforzare gli “eretici” sciiti e i “crociati sionisti” di Israele contro la maggioranza sunnita (e araba).
Gli Stati mediorientali e nordafricani si troveranno quindi inevitabilmente trascinati dalla scia delle operazioni effettuate da Al Qaida nelle terre musulmane. Le conseguenze che per tali Stati avrà la capacità di Al Qaida di sfruttare la compressione spazio-temporale caratteristica della globalizzazione, e le misure di sicurezza adottate dall’Occidente in risposta alle azioni di Al Qaida, determineranno un elevato grado di incertezza nei rapporti fra Stati in Medio Oriente.
Questo, a sua volta, genererà in tutti i Paesi della regione uno stato di profonda incertezza rispetto ad un’ulteriore apertura dello spazio politico-economico.
La strategia di Al Qaida influisce, inoltre, sulla geometria della regione. Quando bin Laden dichiara che “le regioni che hanno maggiormente titolo alla liberazione sono Giordania, Marocco, Nigeria, Pakistan, la terra delle due moschee sacre (Arabia Saudita) e Yemen” (10) , si dovrebbe essere piuttosto certi che sarà in quei luoghi che imperverserà il fuoco dei suoi combattenti.
Queste dichiarazioni parlano di un conflitto di durata e portata indeterminate, ampio in termini di propositi e area geografica interessata.
In realtà, ciò che Al Qaida promette non è dissimile dalla dinamica della stessa globalizzazione. Senza una difesa adeguata, gli Stati mediorientali e nordafricani possono facilmente cadere vittima della miscela esplosiva di queste due forze.


foto Ansa


(1) Frank Griffel, 'Globalization and the Middle East: Part Two', YaleGlobal Online, 21 gennaio 2003, p. 2.
(2) Ibid.
(3) Queste osservazioni si basano su colloqui con Islamisti in diversi paesi arabi, con loro rappresentanti in Europa occidentale, e con appartenenti a gruppi di esuli.
(4) The Guardian, 16 ottobre 2002.
(5) The Daily Telegraph, 17 ottobre 2002.
(6) L'esperto di antiterrorismo Jonathan Stephenson citato da The Guardian. Owen Bowcott, 'Suicide Bombings Highlight Dangers for America's Closest Allies', The Guardian, 18 novembre 2003.
(7) Il nastro di Bin Laden è stato tradotto dalla BBC, 12 febbraio 2003
(8) E' il titolo di un editoriale del quotidiano Al Watan (10 novembre 2003).
(9) Nastro di Bin Laden, op. cit.
(10) Ibid. L'opinione qui sotto riportata è stata espressa da uno studente universitario egiziano nel novembre 2003: "E' più che ovvio che Israele, il figlio viziato dell'America, si è fatto più audace con l'occupazione statunitense dell'Iraq, commettendo nuovi, sanguinosi crimini ai danni dei palestinesi e minacciando Siria e Libano". Cfr Gihan Shahine, 'Appreciating Resistance', Al-Ahram Weekly, 13-19 novembre 2003. L'analogia può essere considerata forte, ma non dovrebbe stupire.

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