Fenomeno No Global le nuove frontiere |
Ciro SBAILÒ |
L’intervento propone un’analisi puntuale del fenomeno no-global non solo sotto il profilo sociologico, con specifico riferimento alle differenze USA-Europa, ma anche dal punto di vista degli obiettivi perseguiti e perseguibili dal movimento. Oggetto di approfondimento sono anche le modalità attuative degli obiettivi stessi nella ferma convinzione che alla globalizzazione economica debba necessariamente seguire una globalizzazione dei diritti, tenuto conto del “peso contrattuale” ormai acquisito su scala internazionale. foto ansa Per quanto riguarda i movimenti sociali, questo significa che è sempre più facile e diffusa la collaborazione tra gruppi ideologicamente diversi sulla base di obiettivi “condivisi”, senza che ciò incrini la “purezza” dei militanti. Ad esempio, se per un integralista islamico è difficile pensare di poter combattere fianco a fianco con un “infedele”, ciò non vuol dire che all’interno della “rete”, grazie anche alle tecnologie moderne e allo sviluppo in senso geometrico delle possibilità di comunicazione, non si realizzi la possibilità di una collaborazione “virtuale”, ma non per questo poco efficace: si collabora anche fornendo chiavi d’accesso a siti e situazioni sensibili, interpretazioni dei fatti o canali di comunicazione. La crisi del paradigma cen-tro/periferia comporta anche una crisi delle tradizionali distinzioni “interno/esterno”: se si è “interni” all’obiettivo, che importa essere “esterni” all’organizzazione? La “condivisione” non è una “collaborazione”, ovvero non ha un sostegno ideologico né un obiettivo strategico. Nel movimento globale, anche grazie alla diffusione di internet, questo mutamento di paradigma può essere osservato allo “stato puro”. Un’associazione evangelica impegnata nel terzo mondo non sente intaccata la propria identità se, rispetto a un determinato obiettivo, lavora insieme a una multinazionale o ad un’organizzazione marxista paramilitare. Oltre le barriere ideologiche, la logica reticolare fa cadere anche le barriere organizzative. Il modello di relazione tra gruppi diventa “globale” nel senso che non necessariamente i rapporti tra i gruppi si stabiliscono tra livelli congruenti o simmetrici delle organizzazioni. Nella logica “reticolare” contano soprattutto i “nodi”, e un “nodo è efficace non tanto se è piccolo o grande, ma se è collocato al posto giusto. Insomma, il movimento globale non può essere compreso se non nel quadro di un mutamento generale della civiltà occidentale. Così come i protagonisti delle “nuove guerre” - le “netwars” - non sono più gli stati, ma terroristi, bande armate, gruppi etnici eccetera, allo stesso modo i protagonisti delle nuove battaglie sociali sono organizzazioni non governative e gruppi transnazionali “diffusi” sul pianeta, che si aggregano e disaggregano sulla base degli “eventi” e degli “obiettivi”, in un modo che sembra sfuggire, per ora, alle dicotomie coerenza/incoerenza e unitarietà-frammentazione. Le nuove guerre sono caratterizzate dalla difficoltà a distinguere “guerra” e “terrorismo”, o dalla sinergia tra obiettivi simbolici e obiettivi strategici. Analogamente, le nuove battaglie sociali sono caratterizzate dal gioco di specchi tra rivendicazioni sociali e strategie identitarie, così come dalla continua interazione tra proposte pragmatiche e dettagliate di riforma e contestazioni dell’“ordine globale”. Del resto, le nuove forme di sfruttamento del lavoro e di violazione dei diritti umani appaiono sempre più difficilmente contrastabili da parte dei sistemi legislativi tradizionali e da parte delle strutture statonazionali. E tanto la sovranità degli stati quanto la credibilità dei governi democratici appaiono seriamente minacciate dai processi di globalizzazione, e in particolare dal potere delle grandi corporation, al punto che è sempre più difficile ai responsabili della cosa pubblica rispondere adeguatamente ai cittadini in materie vitali come la sicurezza sociale, l’ambiente o la salute. Il movimento globale si sente non solo protagonista, ma, in qualche modo e in qualche misura, anche causa di questo insieme di mutamenti. Le grandi trasformazioni che abbiamo sopra descritto vengono interpretate – contrariamente a quanto accade di frequente negli ambienti dell’establishment accademico e politico occidentale – non come una “crisi” della politica, bensì come l’inizio di una nuova era politica, non più fondata sugli stati nazionali. Insomma, il movimento tende a presentarsi come nuovo “spazio politico”, come un insieme di relazioni sociali all’interno del quale possibile è progettare un futuro migliore e cominciare, intanto, a ristabilire rapporti soddisfacenti tra potere e responsabilità. Deterritorializzazione Il movimento non ha radicamento territoriale o, per meglio dire, ha vari possibili radicamenti territoriali. Né i suoi obiettivi né le sue strategie si esauriscono all’interno dei confini stato-nazionali. Ma al tempo stesso non si tratta di un movimento “universalistico” nel senso tradizionale del termine. Di universalistico c’è l’idea che certi diritti fondamentali – ad esempio, la libertà di espressione o una giusta retribuzione – e certi problemi – ad esempio, la tutela ambientale – non abbiano frontiere. Ma tali questioni non si collocano in una prospettiva unitaria, considerata valida per tutti gli uomini. La “differenza” – dei luoghi e delle appartenenze, delle culture e delle tradizioni – viene considerata un patrimonio da tutelare, da sottrarre all’omologazione culturale e ideologica che s’accompagna alla “globalizzazione neoliberista”. In questo senso, l’espressione “glocal”, nata per designare la compresenza di transnazionalità e localismo nei processi di integrazione tra sistemi economici e politici, potrebbe rivelarsi come quella più adatta ad esprimere la struttura del movimento. Infatti, non è possibile identificare un “centro” e una “periferia” del movimento o individuare stabili leadership o gruppi dirigenti. La “rete” è composta di molti “nodi”, che si “stringono” su obiettivi determinati. Le decisioni, le parole d’ordine, gli obiettivi e le strategie viaggiano sulla “rete”(come si vedrà più avanti, il movimento dedica una parte notevole delle proprie energie ai siti internet) e vengono rielaborate e rilanciate attraverso i vari nodi, senza un visibile ordine di valori e contenuti. Un’azione di protesta, che si svolge in un determinato luogo, nasce dal confluire su quella questione di una serie di informazioni e messaggi provenienti dalla “rete” e la mobilitazione vede spesso la partecipazione di soggetti provenienti da varie parti del pianeta. Il carattere “localistico” di certe battaglie può trarre in inganno. In effetti, il problema locale viene interpretato dal movimento come un evento emblematico di un problema “globale”. In altri termini, il movimento si presenta come una realtà “diffusa” che si “condensa” intorno a obiettivi collocati in spazi e tempi determinati. Reticolarità La reticolarità del movimento emerge in particolare da uno sguardo ai rapporti tra l’anima “americana” e quella “europea”. Fino al vertice del G8 di Genova del 2001 potevano essere rilevate alcune differenze sostanziali tra il movimento europeo e quello americano. Il movimento americano si presentava molto impegnato nella società civile e nella pratica del boicottaggio e del lobbying, con un rapporto tendenzialmente conflittuale con il mondo politico nel suo complesso. Quello europeo, e in particolare quello italiano, appariva molto più coinvolto nella dialettica politica, e persino in quella parlamentare. Questa differenza tende ad attenuarsi in ragione di una crescente reciproca influenza tra i due movimenti. Quello europeo sta mutuando da quello americano un atteggiamento meno ideologico e più pragmatico, molto più rivolto alla società civile e caratterizzato da una maggiore propensione alla trasversalità politica. Quello americano, a sua volta, appare, rispetto al passato, più attento alle dinamiche interne al sistema politico e sta rafforzando i propri rapporti con il sindacato. L’attuale scenario istituzionale europeo, e specialmente italiano, caratterizzato da un drastico ridimensionamento della centralità dello stato e del ruolo del governo e dalla fioritura di numerosi altri soggetti governanti, tanto interni quanto esterni alla pubblica amministrazione, è particolarmente congeniale al movimento, che possiede al proprio interno molte anime che a loro volta agiscono su molteplici livelli. Infatti, il movimento non si presenta come un interlocutore compatto, bensì come un insieme di interlocutori, che vivono in una fase di continua interazione ed evoluzione. Questo, naturalmente, complica le cose per chi deve occuparsi di sicurezza pubblica. Colui che si candida a rappresentare il movimento in una trattativa con le istituzioni è un soggetto che deve continuamente negoziare il proprio ruolo con la sua stessa gente. La sua rappresentatività rispetto al movimento, molte volte, non è la premessa della trattativa con la pubblica amministrazione, ma il risultato di questa trattativa. O, per meglio dire, tra la definizione prioritaria dell’interlocutore e la sua legittimazione a trattativa conclusa ci può essere un gioco di specchi, di cui non è possibile conoscere in anticipo l’esito. Esistono più soggetti che operano su più piani e con più interlocutori. Ciò comporta che, da un lato, la situazione possa aggravarsi per la presenza di variabili incontrollate (esempio: nelle dinamiche del movimento possono operare elementi o logiche a carattere eversivo o terroristico, senza che ciò sia riportabile a precise responsabilità) e, dall’altro, che la situazione si riveli perfettamente controllabile, a dispetto dell’allarme iniziale. Risulta determinante, al riguardo, non tanto la precisione o la tassatività dell’accordo, ma il “clima” politico, l’”atmosfera” che l’autorità politica riesce a creare alla vigilia dell’iniziativa. La violenza Una delle manifestazioni più significative della reticolarità del movimento la si ha nel mutamento della percezione del problema della violenza. Questa, infatti, era considerata in alcune componenti, tanto negli USA quanto in Europa, come un possibile ostacolo al dispiegarsi della forza del movimento, tanto sulla scena sociale quanto su quella politica. Ma lo scambio di esperienze offre ai vari gruppi, rispetto al passato, una gamma più ampia di opzioni tattiche, all’interno della quale la violenza, in un certo senso, risulta sdrammatizzata, ovvero rappresentata come una delle possibili opzioni insieme alle altre. Per cui, situazioni e gruppi assolutamente pacifici convivono con situazioni e gruppi di carattere violento, senza che ciò ponga al movimento problemi di carattere “ideologico”. Ciò si spiega in parte col fatto che una gamma ristretta di opzioni e di alleanze finisce per dare a un movimento una dimensione quasi istituzionale, a imporgli una pur minima gerarchia di obiettivi e di priorità. Quando il quadro – come ora sta accadendo – si amplia, tendenzialmente a dismisura, è possibile invece giocare a più livelli e secondo modalità diverse, senza dover rispondere di un quadro generale in cui le varie iniziative debbono inserirsi. In tale contesto, la violenza tende a segmentarsi, a diventare una variante possibile insieme a molte altre. Ciò accresce il potere contrattuale del movimento, sia rispetto alla società civile, sia rispetto al mondo economico, sia rispetto al mondo politico. Un’eventuale crisi dovuta a fenomeni violenti non danneggia il movimento, perché se si rompe il rapporto con un interlocutore, è possibile trovare molti altri interlocutori. Nel contempo, il carattere segmentato e reticolare del movimento stesso fa sì che le azioni di una componente non possano essere meccanicamente attribuite all’intero movimento o, in alternativa, a specifiche parti di esso: la realizzazione, la rivendicazione o l’imputazione sono continuamente “negoziati” all’interno come all’esterno, tra le varie componenti, così come tra queste, prese singolarmente, e componenti della società civile o del mondo politico o, anche, tra il “popolo globale” e il “resto del mondo”. La sdrammatizzazione del problema della violenza, ovvero la riduzione della violenza da ultima ratio a “opzione”, risponde, dunque, alla tendenza del movimento alla orizzontalità, sia nell’organizzazione sia nei valori. Come si è già avuto modo di verificare in occasione di alcune manifestazioni di piazza, risulta estremamente difficile separare in modo netto gli elementi violenti dai non violenti. Il grosso della manifestazione è, di solito, composto da persone pacifiche, che scelgono forme “giocose” o “simboliche” di protesta. In linea di massima, i soggetti violenti vengono invitati, a volte anche in maniera brusca, a non compiere atti vandalici o, anche, a non partecipare a determinate iniziative. D’altra parte, la partecipazione alla manifestazione non viene preclusa a nessuno, né potrebbe esserlo, dato il carattere aperto sia del movimento sia della protesta. La situazione può degenerare in conseguenza di un impatto “frontale” con le forze dell’ordine o in presenza di un obiettivo dal forte valore simbolico e protetto in modo molto visibile, come una “zona rossa”. Accade, dunque, che all’interno del corteo pacifico si “materializzino” soggetti violenti, che in molti casi cambiano abbigliamento. Il gruppo si stacca dal corteo (o ne viene espulso) e si dedica al saccheggio di bancomat o fast-food. Ma quando si trova di fronte alle forze dell’ordine, questo gruppo rientra nel corteo pacifico, dove viene accolto e protetto, a dispetto dei precedenti scontri con la componente non-violenta, anche grazie a un rapido mutamento di identità, da violento a non violento. Questo “schema” funziona anche sulla “rete”. I siti più violenti sono annidati all’interno di un sistema di link che si raccolgono a loro volta all’interno di portali perfettamente pacifici, dedicati a temi come la non-violenza o l’agricoltura biologica. Si tratta, comunque, di un fenomeno in continua evoluzione. L’11 settembre si sono verificati mutamenti nel senso di un’accentuazione dell’orizzontalità del movimento. Ci fu, all’inizio, una pausa di ripensamento di qualche mese, caratterizzata da un netto rigetto nei confronti delle componenti violente. In quel periodo il movimento scelse “educational way”, con veglie a lume di candela e raduni silenziosi. Alcune iniziative fallirono per assenza di partecipanti, come la marcia contro Bush a Washington. Ma, paradossalmente, questa prima fase di ripensamento fu seguita da una fase caratterizzata dal rafforzamento del sentimento di identità collettiva, a prescindere dalle differenze tra componenti violente e pacifiche. Alla fine, l’opposizione alle misure anti-terroristiche varate dall’amministrazione Bush e l’opposizione alla missione militare in Iraq hanno visto un movimento sostanzialmente unito e molto poco preoccupato delle divisioni interne. Dopo l’11 settembre s’è rafforzata nel movimento la tendenza a sentirsi una nuova realtà sociale e culturale, un “popolo” se non proprio una “nazione”, ricca di contraddizioni al proprio interno, ma che tuttavia è destinata a occupare la scena mondiale al posto dei partiti politici e degli stati. Sono frequenti, al riguardo, i riferimenti sia alla storia del movimento operaio sia all’esperienza dei college americani negli anni Sessanta. Da entrambe queste esperienze, si fa notare, sono venuti fuori soggetti ragionevoli, come il sindacato e gli intellettuali o i politici “liberal”. La democrazia, viene sostenuto, non è un prodotto “finito”, ma un processo, un work in progress, che si alimenta anche di momenti di scontro. La lotta contro le corporation Il movimento individua i suoi avversari principali nelle corporation e nelle istituzioni finanziarie internazionali. Anche se in alcuni casi si fa una distinzione tra le varie corporation sulla base di quel che effettivamente fanno (ci sono anche corporation “politically correct”, che finanziano alcune campagne del movimento), in genere è il “sistema” delle corporation ad essere messo sotto accusa. Le corporation vengono considerate le uniche effettive sedi del potere nell’età contemporanea, di fronte alle quali si piegano anche i governi dei paesi più potenti. Dal punto di vista giuridico, viene posto in risalto come la corporation sia completamente irresponsabile di quello che fa, grazie al sistema delle affiliate, da una parte, e ai consistenti appoggi politici e giudiziari, dall’altra. Il movimento denuncia un’“al-larmante” accelerazione della concentrazione del potere nelle mani di alcune corporation, che controllano ormai un quarto dell’attività economica del mondo e sono più potenti degli stessi G7, G8 e G9. Stando a tale denuncia, il sistema delle corporation non sta creando un villaggio globale, bensì un apartheid globale, in quanto gran parte della popolazione mondiale risulta esclusa dai benefici dello sviluppo delle comunicazioni e, anzi, è profondamente danneggiata da questo handicap. Le tecniche utilizzate per contrastare questo processo sono varie, e vanno dal lobbying parlamentare, adottato dai gruppi più moderati, fino alle azioni violente, dirette a distruggere direttamente i prodotti o a danneggiare le strutture industriali. Le istituzioni nate per il governo dell’economia e della finanza mondiali sono ugualmente oggetto di dure campagne di boicottaggio. L’FMI, la Banca mondiale e il WTO vengono considerati completamente soggiogati agli interessi della c.d. “globalizzazione liberista”. In particolare, le campagne per l’”aggiustamento strutturale” sono indicate quali cause principali dell’ulteriore impoverimento dei paesi in via di sviluppo. Nel mirino del movimento ci sono anche gli accordi economici regionali e internazionali e gli organismi industriali che radunano i vertici dei paesi avanzati. Il NAFTA, l’area economica di libero scambio nel Nord America, viene ad esempio considerato uno strumento formidabile nelle mani dell’imperialismo economico, mentre il G8 viene accusato di muoversi esclusivamente sulla base degli input provenienti dal mondo delle grandi imprese multinazionali. Crisi della politica e globalizzazione dei diritti Anche le componenti c.d. “moderate” sono propense a ritenere che i governi democratici, compresi quelli più volenterosi, non possano fare nulla per contrastare le grandi corporation, non disponendo degli strumenti giuridici e politici per imporre la governance globale dell’economia. Se viene fatto osservare che realtà sopranazionali di tipo formale, come l’Unione europea, o informale, come il G8, nascono per l’appunto dalla volontà dei governi democratici di affermare una governance globale, nel migliore dei casi si risponde che queste realtà sono comunque espressione di sistemi politici minati alla base, in quanto la stessa formazione del consenso che li legittima avviene, dal punto di vista del movimento, sotto la pesante influenza dei grandi gruppi economici. In molti casi si fa osservare come la globalizzazione, paradossalmente, porti a un rafforzamento degli stati nazionali, soprattutto in materia di sicurezza; solo che, si aggiunge, gli stati nazionali non sono più controllati dagli interessi popolari, ma da quelli del sistema delle corporation. La globalizzazione dei diritti, pertanto, non viene concepita come un ampliamento dello stato di diritto su scala mondiale, ma come la formazione di una nuova agorà mondiale, nella quale si muovono più reti di solidarietà e di autodifesa, secondo modalità e tempi che ricalcano quelli della globalizzazione economica. Per fare un esempio, la globalizzazione dei diritti non la si ottiene, secondo il movimento, attraverso il Tribunale internazionale per i diritti dell’uomo, ma attraverso manifestazioni, atti di boicottaggio ed iniziative mediatiche su problemi specifici, che coinvolgano la popolazione, sia a livello locale sia a livello globale. Il modello è quello della rivolta zapatista, nella quale viene vista una radicale rottura della tradizione politica della sinistra del Novecento, fondata sulla “conquista del potere”. Il punto di riferimento del fronte zapatista non è costituito dai partiti politici né dalle istituzioni, ma dalla società civile. Per questo, il movimento non ha obiettivi descrivibili con il tradizionale linguaggio della politica e delle istituzioni occidentali. I “noglobal” non vogliono conquistare il potere, non vogliono controllare i parlamenti e i governi, e nemmeno vogliono rovesciare gli stati. Essi vogliono un “altro mondo”, alternativo a quello esistente. O, meglio, essi ritengono di essere già l’altro mondo, che sta crescendo (ricorrente l’analogia della “foresta che cresce”) e reclama il proprio spazio. Questo spiega la compresenza, non solo nel movimento ma anche nei singoli gruppi o esponenti, di pragmatismo e utopia, di non-violenza e spirito eversivo, di duttilità e intransigenza. Ci si stupisce, a volte, che il movimento globale attacchi principalmente le democrazie e si occupi poco o nulla, invece, dei sistemi totalitari, dove la violazione dei diritti umani è palese, quali la Cina e Cuba. Il punto è che il sistema della rappresentanza parlamentare viene considerato come una “finzione”, che serve a coprire o addirittura a sostenere gli interessi dei grandi gruppi economici. Le condotte dei paesi totalitari vengono perlopiù considerate “senza storia”, ovvero residui di un mondo destinato a estinguersi; mentre la minaccia delle corporation e delle “pseudodemocrazie” (ovvero, le democrazie occidentali in genere), da queste condizionate o controllate, viene considerata attualissima e destinata a dominare la scena mondiale del futuro. Alcune associazioni americane, tradizionalmente impegnate nel monitoraggio dei finanziamenti ai partiti e agli uomini politici, sono diventate un punto di riferimento fondamentale del movimento, e infine sono state inglobate nel movimento stesso, per cui può accadere che un professore universitario di formazione kennedyana, che ha partecipato alle campagne dei diritti civili negli anni Sessanta, si trovi fianco a fianco con un gruppo zapatista che si batte contro le multinazionali. Di scarsa popolarità sono le tesi per la “democrazia globale”: l’estensione su scala regionale e transnazionale dei meccanismi parlamentari viene considerata una variante dell’”alleanza tra le democrazie”, sostenuta dai neoconservatori, e giudicata dal movimento come uno strumento di rafforzamento delle corporation tramite i governi e i parlamenti. In generale, alla democrazia parlamentare, basata sulla “rappresentanza” e sulla “delega”, si preferisce la democrazia “diretta” e “partecipativa”, con una gamma di azioni ben più estesa. In questo senso, la presenza all’interno del movimento di componenti violente ed eversive è avvertita dai gruppi c.d. “moderati” come qualche cosa di “fisiologico”, che appartiene alla natura dei grandi movimenti sociali all’inizio della loro storia. In pratica, fatta eccezione per qualche gruppo di studio, è molto difficile capire quale sia la linea di confine tra comprensione per la violenza, complicità, sostegno e partecipazione diretta. Il risultato “immediato-condiviso” Date le caratteristiche del movimento, l’aggregazione non si sviluppa sulla base di strategie e obiettivi comuni. Prevale, invece, la logica del risultato “immediato-condiviso”, in virtù della quale l’aggregazione di vari soggetti (individuali o collettivi) avviene in modo sintagmatico, con le varie identità che giocano un ruolo attivo nella definizione – “negoziale” nel senso più ampio del termine – dell’azione che si compie. Il movimento, in quanto vuole innanzitutto affermare se stesso, come nuovo spazio sociale, si tiene aperto a una miriade di opzioni, sia sul piano strategico sia sul piano degli obiettivi variamente combinati tra loro. I gruppi hanno un carattere elastico. Gli slogan, ma finanche le denominazioni, non definiscono un gruppo, ma lo proiettano verso nuovi processi di aggregazione o di azione. L’aggregazione è essenzialmente la condivisione di un risultato che non si presenta come obiettivo conseguito da un singolo gruppo, ma come evento disponibile sulla rete per tutti. Ovviamente, non è assente una certa competitività interna. Il potere di aggregazione di un risultato è inversamente proporzionale al tempo impiegato per il suo conseguimento. Sulla rete, infatti, i processi troppo lunghi si disperdono, si segmentano o si “clonano” all’infinito in tanti processi autonomi. È pertanto importante conseguire risultati in modo rapido, se possibile in tempo reale, così da capitalizzare il massimo di visibilità e il massimo di condivisione. Questo spiega perché, contro ogni ottimistica aspettativa, hanno molto successo, nel movimento, logiche e gruppi a carattere neo-anarchico o di tipo monotematico, che vanno direttamente al cuore dell’obiettivo. Dal punto di vista organizzativo, con riferimento in particolare all’esperienza americana, ma tenendo presente quanto detto sulla reciproca influenza tra le due sponde atlantiche del movimento, si possono, comunque, identificare tre gruppi fondamentali: a) Politici. Il loro scopo è condizionare il sistema politico e contrastare l’influenza dei grandi gruppi economici e finanziari sulla vita pubblica. Sono composti per lo più da docenti universitari, ricercatori e laureandi, che condividono percorsi di ricerca e di militanza. Sono contrari alla violenza, ma non si scandalizzano degli scontri di piazza e delle azioni di “disobbedienza”, considerandole un aspetto ineliminabile della battaglia politica, soprattutto in presenza di leggi e sistemi particolarmente repressivi. b) Solidali. Il loro scopo è quello di sanare i guasti della globalizzazione, attraverso un concreto impegno sul piano umanitario, boicottando le istituzioni finanziarie responsabili delle disuguaglianze, attraverso il commercio equo e solidale. Sono pacifisti e anche antimilitaristi. Sono composti per lo più da giovani studenti e hanno talora un forte legame con le Chiese, di cui utilizzano le strutture come sedi organizzative o spazi per iniziative. Molto importante la presenza di immigrati, soprattutto latinoamericani, che hanno spesso posizione di leader-ship. Sono “non-violenti”, ma si mostrano comprensivi nei confronti dell’uso della violenza in presenza di gravi ingiustizie sociali e guardano con simpatia ai movimenti “anti-imperialistici” latinoamericani. Preferiscono, in ogni caso, distinguere la violenza contro le “persone”, da condannare, da quella contro le “cose”, che spesso può essere giustificata. c) Antagonisti. Il loro scopo è quello di mantenere alta la tensione della lotta contro il “sistema”. In genere, ritengono che la violenza sia un elemento ineliminabile dello scontro politico. La composizione è molto variegata e racchiude gli elementi estremi dei due gruppi precedenti. Ci sono professori universitari che hanno fatto il ‘68, esponenti del femminismo e del movimento per i diritti dei neri, giovani anarchici, sindacalisti delusi dalle battaglie sindacali, esponenti del volontariato e dell’associazionismo religioso convinti che bisogna andare alla “radice” delle ingiustizie. Ma sono presenti anche ex esponenti di prestigio del mondo politico americano, che vedono nel movimento la naturale continuazione della stagione riformista degli anni Sessanta. A dare legittimità all’antagonismo sociale interviene talora una lettura in chiave neoanarco-sindacalista della storia occidentale, con alcuni elementi di analisi presi dalla teoria economica marxiana. Il movimento globale viene, in questo senso, rappresentato come l’erede dei movimenti sociali e politici che in passato hanno lottato contro le altre “globalizzazioni” e sono stati perseguitati e annientati dalla reazione capitalistica (in particolare ci si riferisce alle campagne americane contro socialisti e anarchici). Ma sono frequenti anche i riferimenti allo sterminio degli indiani e alla schiavitù dei neri (l’insistenza su questi punti porta addirittura, in certi casi, a rivalutare la colonizzazione iberica dell’America contro quella anglosassone). Gli “antagonisti” hanno rapporti con i gruppi anti-imperialistici latinoamericani, come le FARC colombiane. La “visione del mondo” e la formazione delle correnti di pensiero Non esiste una visione “globale” del movimento. Ma si riscontra la ricorrenza di un paradigma interpretativo della storia occidentale che potremmo definire della “globalizzazione ricorrente”. Secondo questo paradigma, ogni epoca della storia umana ha avuto la sua “globalizzazione” che ha coinciso con una repressione delle minoranze e una ribellione delle masse. Le epoche più citate sono la fine dell’800, l’inizio del Novecento e gli anni Trenta. Viene fatto notare come negli Stati Uniti si siano sviluppate violente campagne repressive contro gli anarchici e il movimento operaio, al fine di “normalizzare” la società americana. È diffusa la convinzione che non bisogna commettere l’errore, compiuto in passato, di farsi integrare nel sistema capitalistico attraverso la democrazia parlamentare. Anche in questo caso, si riscontra la presenza del modello zapatista. C’è, ovviamente, la consapevolezza che la rivolta zapatista si sviluppa in un contesto particolare, quale quello rurale del Chiapas. Ma in una prospettiva “reticolare”, lo zapatismo diventa un metodo, un’”opzione disponibile”, che si può esprimere in più contesti, senza che venga disconosciuta la radice territoriale, ma facendo anzi di questa una sorta di “logo”, di marchio “d.o.c.”, che non ostacola, ma anzi facilita la diffusione del modello. Per questo si cerca di costruire uno “zapatismo urbano”, che adatti lo spirito della rivolta zapatista ai tempi e agli spazi della città post-industriale. Questi spazi e questi tempi non vengono considerati come rigidi presupposti, ma come work in progress. Non si tratta, per il movimento, di “modificare lo stato di cose presente”, ma di “negoziare” la formazione dei nuovi spazi e dei nuovi tempi dell’età globale, contrastando l’avanzata del “pensiero unico neoliberista”. In questo senso, il movimento non è “rivoluzionario” nel significato ottocentesco e novecentesco del termine. L’obiettivo dichiarato viene generalmente indicato nella costruzione di un “società libera” senza utilizzare “mezzi autoritari”, ma comportandosi “come se” già si vivesse in un mondo libero. In altre parole, non c’è un progetto, nel senso tecnico del termine, ma c’è una pratica alternativa fatta di reti di solidarietà e di azioni. Lo slogan, lanciato in particolare nel 2000, “dalla resistenza all’alternativa” non riguarda un progetto di trasformazione in senso classico, ma il passaggio da un atteggiamento di pura contestazione a un atteggiamento di costruzione di un “altro” mondo, che prenda il posto di quello delineato dalla c.d. “globalizzazione neoliberista”. Questo non vuol dire che non vengano avanzate proposte specifiche. Al contrario, il mondo “noglobal”, per certi versi, rappresenta un gigantesco bazar di proposte concrete, grandi e piccole. Ma tutte queste proposte vanno considerate in un duplice modo: come pratiche di “riduzione del danno”, da una parte, e come progressiva affermazione dell’”altro” mondo, dall’altro. Se si vuole comprendere il movimento globale bisogna innanzitutto tenersi alla larga da stereotipi di tipo sessantottino, ovvero di attribuire al movimento una sorta di ribellismo utopistico e un po’ isterico, incapace di fare proposte concrete e avversario del riformismo. La situazione è molto più complessa. Molti dei principali esponenti del movimento hanno notevoli competenze tecniche e politiche e un orientamento decisamente riformista. foto ansa Questo non significa che non siano rintracciabili alcuni comun denominatori “ideologici”. Ci sono due livelli fondamentali dell’ideologia. Il primo è il livello base, fatto di pochi concetti elementari, come “un altro mondo è possibile”, “no alla globalizzazione neo-liberista” o “democrazia dal basso”. Il cuore di questo primo livello è in una visione ecologica nel senso stretto del termine: si ritiene possibile, e non solo auspicabile, organizzare l’esistenza umana sui principi di trasparenza e responsabilità, mettendo al bando la legge del più forte. Naturalmente, tanto il concetto base quanto gli slogan attraverso cui viene espresso, data la loro semplicità, si prestano alle più diverse interpretazioni e rielaborazioni. E siamo qui al secondo livello, dove esiste una miriade di posizioni, accomunate da un sentimento quasi “nazionale” di condivisione di una medesima storia (una storia futura, ma anche passata, nella quale è racchiusa l’epopea del movimento). Ovviamente, non esiste una “dottrina” del movimento, non ci sono guide spirituali riconosciute né “testi sacri”. Le parole d’ordine e i testi più significativi sono diffusi sulla rete, usati, estrapolati e variamente assemblati in base a esigenze specifiche, molte volte senza la preoccupazione di citare la fonte. Il modello centralistico è respinto anche dal punto di vista culturale. Esistono, indubbiamente, intellettuali particolarmente amati (Naomi Klein, Noam Chomsky) e libri particolarmente letti. Ma a nessuno viene riconosciuto il titolo di guida spirituale o di maestro di pensiero. Né viene accettata la presenza di centri di elaborazione ideologica. Esistono molti luoghi e molte situazioni in cui il pensiero del movimento si forma, ma questi luoghi e queste situazioni interagiscono tra loro in maniera libera. In questo senso, la ricca articolazione interna non va interpretata come frammentazione. Si tratta di un processo di differenziazione che rafforza, non indebolisce l’identità collettiva. All’interno stesso del movimento viene sostenuta questa tesi, con riferimento particolare alla storia del movimento operaio che, all’inizio, nella prima metà dell’Ottocento, era un caleidoscopio di istanze, idee, club, sette, gruppi e gruppuscoli, senza un collegamento generale e senza una fisionomia unitaria. In questo senso, la differenziazione interna viene considerata una via alla costruzione della propria identità storica. Il network Grande attenzione viene riservata dal movimento al problema dell’informazione e della controinformazione. Recitano alcuni slogan di origine zapatista: «Noi siamo il network»; «Non odiate i mass-media, siate voi i mass-media». Esiste, ad esempio, una rete di “reti” virtuali chiamata Indymedia, nella quale si raccolgono network di controinformazione di tutto il mondo, “da Seattle al Sudafrica” Questa rete di reti a sua volta racchiude, annidate al proprio interno, altre reti di reti e così via. Partendo dal sito Indymedia si può arrivare a un’organizzazione evangelica o a un gruppo anarco-insurrezionalista. Siti del genere nascono ogni giorno. Come già accennato a proposito del carattere deterritorializzato del fenomeno, la “rete” è la vera sede del movimento. Si nota spesso un’incongruenza tra i siti internet e le sedi “fisiche” di certi gruppi: i primi curatissimi, ultra-sofisticati, aggiornatissimi nei contenuti e nel software; le seconde, spesso piccole, malandate, collocate in zone periferiche, prive di confort. La “rete” telematica rappresenta, in un certo senso, la “sede” principale del movimento. Sulla rete passano informazioni sull’attività dei gruppi, documenti, istruzioni varie (per boicottare prodotti o aziende, per difendersi dalla polizia, ecc.), materiale (poster, video, ecc.), transazioni economiche (sottoscrizioni, vendite, acquisto di materiale, ecc.). Sulla rete si discute, ci si scambiano esperienze, si organizzano campagne, “reali” e “virtuali” (ma la differenza si assottiglia sempre di più: il “netstrike”, ad esempio, consiste nel bombardare di messaggi un sito, al fine di bloccarne l’attività, il che produce danni materiali, visto che sono sempre di più le aziende e le istituzioni che lavorano prevalentemente su internet). La rete tende a essere autoreferenziale, nel senso che una verità asserita sulla rete può essere smentita solo da un’altra verità trovata sulla rete, e non da un “fatto” verificatosi nel mondo c.d. reale. Il movimento ha mostrato di cogliere molto bene questo aspetto della rete e lo utilizza per dar vita a un proprio universo informativo, nella convinzione che il mondo dei mass-media sia viziato all’origine dall’influenza dei grandi gruppi economici. In questo senso, sta crescendo la capacità del movimento di influenzare l’opinione pubblica non solo sui grandi temi politici tradizionali – la guerra, la finanza – ma anche su singoli aspetti della vita quotidiana, in merito, ad esempio, all’uso di certi prodotti di consumo o all’opportunità di fare determinati investimenti. Le aziende o le istituzioni finanziarie politicamente “scorrette” sono accusate non solo di violare i diritti umani, ma anche di produrre beni alterati, che danneggiano la salute o il portafogli del consumatore. Ciò sta facendo crescere notevolmente la capacità contrattuale del movimento, ma sta anche suscitando dibattiti interni in merito alla possibilità che tale potere contrattuale venga impropriamente utilizzato per la raccolta di fondi, accettando, ad esempio, contributi da aziende o istituzioni in cambio di consulenze o addirittura di un atteggiamento più morbido. Prospettive future Il movimento dei movimenti sembra acquisire crescente consapevolezza del proprio peso globale, della propria capacità di condizionare, in modo “reticolare”, l’opinione pubblica e persino i governi. Si apre, dunque, il dibattito, il movimento e fuori, su come utilizzare questa grande forza. Le più recenti esperienze di forum, vertici e contro-vertici hanno dimostrato come, pur tra mille ambiguità e contraddizioni, sia possibile un dialogo tra il movimento e i governi. Sempre in quest’ultimo periodo, sui vari forum, s’è acceso il dibattito sul rischio che il movimento ricalchi troppo i poteri che intende combattere, assumendo una struttura speculare a quella dei propri avversari e vincolando l’iniziativa all’agenda dei “grandi”. Questo vuol dire, forse, che il movimento intende accentuare il proprio carattere “propositivo”? Su questo punto bisogna stare attenti agli equivoci. La proposta del movimento non contiene al proprio interno il sistema democratico-parlamentare se non, al limite, come un’opzione secondaria, offerta da un sistema di relazioni – quello stato-nazionale – considerato ormai in declino. Le alternative possibili vengono presentate per lo più nelle esperienze di base e di solidarietà, presenti all’interno delle mille reti del movimento stesso. D’altra parte, proprio il carattere destrutturato del movimento potrebbe consentire un dialogo con alcuni settori del mondo politico, se non altro nel comune interesse di difendere il primato della politica e arginare il potere delle corporation. La collaborazione tra movimenti globali e istituzioni democratiche potrebbe contribuire a prevenire episodi di violenza e la formazione di gruppi eversivi. Al momento la reciproca legittimazione tra movimenti globali e governi democratici è ostacolata dalla diffidenza del movimento nei confronti della classe politica, considerata quanto meno incapace di resistere alle pressioni dei grandi gruppi economici. Anche le componenti più moderate si sentono, in ogni caso, parte di una realtà in divenire, destinata ad occupare la scena politica. La presenza di gruppi violenti viene, dunque, avvertita come un problema destinato a risolversi col tempo. Tuttavia, è proprio nel dibattito sulla “violenza” che si intravede la prospettiva di una possibile collaborazione tra i movimenti e i governi democratici. Alcuni gruppi neo-anarchici denunciano la tendenza a “isolare” i black bloc e altri gruppi simili da parte del movimento. foto ansa In alcuni casi sai mette in risalto come i “nonviolenti” siano tali solo di fronte alla polizia, mentre non esitano a ricorrere alle maniere forti per espellere dalle proprie fila gli anarchici insurrezionalisti. Si ritiene opportuno concludere facendo osservare come questa dialettica denoti un’esigenza di legittimazione “pubblica”, sulla quale potrebbe essere possibile lavorare in vista di una collaborazione tra i governi e una parte dei movimenti sui temi dell’ambiente e della giustizia sociale. D’altra parte, appare necessario mantenere la consapevolezza che non si potrà mai contare su un interlocutore unico e affidabile, poiché si ha a che fare con una realtà estremamente fluida e dinamica, che richiede un attento e continuo monitoraggio. Approfondimenti bibliografici V. Agnoletto, Prima persone. Le nostre ragioni contro questa globalizzazione,Roma-Bari, Laterza, 2003; M. Andretta, D. Della Porta, L. Mosca e H. Reiter, Global, Noglobal, New Global. La protesta contro il G8 a Genova, Roma-Bari, Laterza, 2002; J. Arquilla - D. Ronfeldt (a cura di), Networks and Netwars:The Future of Terror, Crime, and Militancy, Santa Monica CA, 2001; Aa. 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