recensioni e segnalazioni 4/2016
Giuseppe Scaraffia
Gli ultimi giorni di Mata Hari
Utet, 2015
pp. 172 - euro 11,90
di Koiké
di Koiké
L’autore ricostruisce gli ultimi giorni di Margaretha Geertruida Zelle, classe 1867, al secolo Mata Hari, simbolo iconografico dello spionaggio, consegnato alla storia e alla letteratura da quello scorcio di secolo che cambiò le sorti dell’Europa contemporanea. Il libro, basato su testimonianze, documenti e stralci di opere letterarie, recupera il respiro culturale di quegli anni tormentati, partendo dal 15 ottobre del 1917, data dell’esecuzione della Zelle, sulla quale si accentrano le attenzioni giornalistiche e dei circoli letterari del tempo. La Parigi di quei mesi tragici è scossa da una guerra che le è entrata in casa, con un susseguirsi di rastrellamenti, diserzioni, precarietà di ogni genere; eppure il destino della spia ‘fatale’, simbolo incarnato delle frivolezze della Belle Époque, lascia col fiato sospeso un’opinione pubblica che mal avrebbe giustificato una condanna a morte che avrebbe rotto l’incanto. Chi più di Mata Hari – si chiede l’autore – avrebbe potuto rappresentare le complessità e le follie di quell’inizio del Novecento? Quasi a risarcimento emotivo della carneficina in atto che, dopo tutto e fuori dallo squallore delle trincee, concedeva alcuni barlumi di frivolo romanticismo. L’opera si declina a metà tra saggio e narrativa, partendo dalla figura di una femmina che fu artista acclamata e intrigante, coraggiosa e sventurata, per traslarsi sul pensiero di artisti contemporanei, come Marinetti, D’Annunzio, Céline, Hemingway. Personaggi che, nel caleidoscopio di quell’epoca, non rinunciarono a parlare di lei, costruendo aneddoti e chiacchiericci di maniera, occupandosi più della sua silhouette che della sua vicenda giudiziaria. Una vicenda che, al netto delle fantasie e forzature mediatiche, l’aveva vista soccombere al suo stesso doppiogiochismo, fatto di intrepidi quanto sconsiderati tentativi di estorcere denaro a vari Servizi segreti, millantando prestazioni e conoscenze inesistenti. In un mondo che stava cambiando, la fascinosa Mata Hari rappresentò una sorta di estetismo allegorico, il capro espiatorio ideale a cui addebitare, come in una rinnovata tragedia ellenistica, le brutture di una guerra sanguinosa e spossante. Sotto questo profilo, l’ottica narrativa prescelta è avvincente e vincente, perché l’attento recupero delle feconde pulsioni letterarie del tempo risultano complementari a quello che di se stessa volle offrire al mondo la leggiadra e salottiera protagonista, orgogliosa della sua ‘maschera’, al punto di dire prima della fucilazione, «... oh, questi francesi, come sono maleducati a uccidere una donna!». Di lei, sembra suggerire Scaraffia, rimangono pagine di letteratura, ingialliti faldoni d’archivio, immaginifiche interpretazioni psicologiche, note d’ammirazione, sarcasmo moralista. Ingredienti che ancor oggi, fuor di cronaca, nutrono le storie di spionaggio, quelle vere e quelle inventate dalle penne più fantasiose, dove i misteri dell’animo umano e quelli della rappresentazione rimangono immutati.
I Colori dell’intelligence
Nuova Argos, 2016
pp. 299 - euro 19,00
di La Ciura
di La Ciura
Avevamo già recensito questo volume lo scorso dicembre, ma il successo e l’esaurirsi in tempi brevissimi della prima edizione hanno indotto l’editore a ripetere questa fortunata iniziativa editoriale e realizzarne una seconda, aggiornata, in libreria da dicembre. Ma quali sono i ‘segreti’ di questo successo? A parer nostro se ne potrebbero segnalare molti, ma tra tutti prevale l’originalità della proposta offerta, che si declina su diversi piani, come cercheremo di spiegare. È un testo che può sfogliare tanto il neofita, con ozio distratto e divertito, quanto l’esperto, pronto a cogliere i più severi spunti di riflessione e di approfondimento.
Raccoglie, poi, un insieme di interventi, ciascuno a presidio di ben specifiche aree tematiche, dal fumetto al cinema, dalla letteratura alla storia, che ben si collegano, come filati di una stessa trama, sottesa e soffusa, così da far intravedere dell’intelligence una sindone di senso compiuto. È arricchito, ancora, da una teoria di immagini che, oltre a valorizzare il testo cui sono legate, hanno in sé una forte carica di significato e di testimonianza, costituendo ‘un’opera nell’opera’. Anche la vignetta di Altan in copertina offre quel quid pluris, motivo di grande soddisfazione per collezionisti e amanti del genere umoristico e di quello spionistico, una chicca sulla già pregevole prestazione di Melanton, nel corpo del libro proprio all’humour dedicato. Altro fattore di successo lo riponiamo nella tipicità dei testi: sulla storia, di Nazareno Santantonio e Alessandro La Ciura; sulla letteratura, di Tadashi Koike; sull’illustrazione, di Alberto Pellegrino; sul cinema, di Giancarlo Zappoli e sul fumetto, di Giuseppe Pollicelli. Gli autori hanno dovuto confrontarsi sia con la necessità di essere ‘sinteticamente esaustivi’, che sfiora l’ossimoro, sia con una bibliografia di genere assai corposa, che nessuno spazio cede alla novità. Eppure sembra che essi abbiano trovato una nuova via, offrendo una selezione di testimonianze tra le più rappresentative e rappresentate ma anche ricombinandole in una chiave interpretativa olistica e a tratti inedita, tra agiografia e autoironia, tra cultura e divertissement. I colori hanno così proiettato una nuova luce sullo stereotipo dell’intelligence per troppo tempo relegato nel suo tradizionale e forzatamente ambiguo chiaroscuro, suggerendo la magia di un arcobaleno euristico. In conclusione, il segreto di un lavoro complesso e originale è riposto nell’alchimia magica delle tessere componenti e nell’attrazione suggestiva esercitata dal mosaico intero. Attrazione cui corrisponde la crescente sensibilità collettiva ai temi dell’intelligence che affina la domanda di prodotti tematici e induce noi, addetti ai lavori, a superarci continuamente e a sperimentare soluzioni editoriali che possano meglio soddisfare il lettore.
Christian Rossé
Guerre secrète en Suisse 1939-1945
Nouveau Monde, 2015
pp. 518 - euro 24,00
di Maria Gabriella Pasqualini
di Maria Gabriella Pasqualini
La Svizzera, nonostante la sua neutralità, è stata teatro d’intensa attività informativa durante tutta la Seconda guerra mondiale e nel periodo tra i due conflitti. I Servizi anglo-americani (Soe e Oss) e vari organi di resistenza al dominio nazifascista collaborarono con il Service de renseignement Suisse (Sr) alla formazione di una comunità internazionale per la raccolta informativa sul territorio. Lo scopo principale di questo studio è stato di verificare come questa ‘comunità’ si ponesse in relazione con gli altri Stati confinanti per sconfiggere il Reich e il governo di Mussolini, e come avesse sviluppato una strategia comune anche per il difficile passaggio di informatori attraverso i confini svizzeri verso l’Italia di Salò e una Germania, ormai quasi stremata, ma con Servizi informativi ancora molto efficienti e attivi anche nella Confederazione. L’autore non accoglie la tesi, da altri sostenuta, che la guerra sia stata vinta in Svizzera. Ritiene, però, che la collaborazione tra Berna e gli alleati sia stata peculiare anche negli sforzi delle autorità politiche svizzere nel mantenere l’apparenza di una coerente neutralità ma non l’unico elemento che ha portato alla vittoria gli Stati democratici: troppo complesso fu il conflitto perché un solo elemento potesse far vincere una parte o l’altra. Un secondo filo conduttore della ricerca riguarda la natura, l’attendibilità e la quantità di informazioni raccolte sul territorio elvetico dal Sr e dai Servizi delle Potenze in guerra contro Berlino. Difficile giudicare ma è importante rilevare che, solo grazie al Sr svizzero, gli Alleati adottarono strategie che rispondevano alle varie esigenze operative (violazione della sovranità e della neutralità svizzera, attraversamento delle frontiere in modo irregolare, possibilità di sottrarsi ai doganieri elvetici ecc). La collaborazione del Sr permise tutto questo. In sintesi, questo studio, basato anche su documenti originali degli Archivi di Berna, traccia la storia della cooperazione multiforme, anche politica, tra la Svizzera e gli Alleati, ulteriore tassello nella ricostruzione dell’operato dei Servizi segreti di quel periodo.
Giulio Massobrio
Autobus Bianchi
Bompiani, 2016
pp. 401 - euro 19,00
pp. 401 - euro 19,00
L’ultima ‘fatica’ di Giulio Massobrio fa certamente presa su chi ama i romanzi di taglio storico: un racconto verosimile, cucito su personaggi e vicende reali. L’autore – in continuità emotiva rispetto al precedente romanzo Rex – ci riporta al 1945, negli ultimi mesi di quella grande tragedia che fu l’ultimo conflitto mondiale. Il protagonista, Martin Davis, storico dell’arte prestato allo spionaggio, non è convinto del vento di pace che sta per spirare in Europa e si mette alla caccia del ‘Lupo’, un nazista senza volto che colpisce spietatamente su vari campi del fronte bellico rimasto ancora in piedi, quasi una crisalide che stenta a morire. La sua serrata ricerca lo fa divenire a sua volta preda, nel grande gioco del reverse targeting che delinea inesorabilmente il mondo dello spionaggio e, in particolare, in quell’epoca, dove le macerie seppelliscono ideali e interessi.
Le piste seguite da Davis conducono a Lubecca, nei boschi renani, nei canali di Copenhagen, in una corsa contro il tempo dove tutto è brumoso e mutevole. Incombe l’inesorabilità degli eventi dietro ai quali il Lupo è pronto a ghermire. Serrata frequenza di asimmetrie tattiche e di lucide paure costituiscono l’architettura del racconto. La missione del protagonista si complica giorno dopo giorno con l’approssimarsi della sconfitta del Reich che, come una bestia ferita, non rinuncia alle zampate finali, intentando la forzata deportazione di centinaia di cittadini danesi nei loro lager. Una vicenda vera e drammatica che introduce nella scatola della fantasia letteraria la vicenda degli ‘autobus bianchi’ svedesi e danesi, impiegati dal conte Bernadotte per sottrarre le vittime alla furia nazista. La storia, punteggiata da personaggi realmente esistiti e altri immaginari, inducono Davis a imbattersi nell’affondamento del transatlantico tedesco Cap Arcona, mandato a picco al largo delle coste germaniche da una coraggiosa e mirabolante missione segreta di Wanda Heger, in contatto con una dinamica quanto fascinosa agente operante sul fronte della resistenza romana. Il thriller, che non rinuncia ad affondare nei sentimenti e nelle passioni dei personaggi, si arricchisce delle avventure del capitano Bustelli, ufficiale del controspionaggio svizzero capace di gestire nell’ombra le sue occulte reti informative, la cui affidabilità segue la precarietà del momento. Verità e immaginazione creano un piano unico e coerente su cui l’attenzione del lettore non trova tregua e, anzi, si lascia coltivare con piacere e meraviglia, pagina dopo pagina. La penna di Massobrio gioca con perizia funambolica sul binario classico dei grandi romanzi storici: l’intimità complessa dei personaggi e la crudezza feconda e drammatica della realtà. È un incontro che, come in questo romanzo, favorisce riflessioni su problemi e valori di riferimento della società, ancor più se esaltati dalle devastazioni di un conflitto armato.
Marta Pallavidini
L'intelligence nel Vicino Oriente nella Tarda Età del Bronzo.
Uno strumento di diplomazia Nuova Argos, 2015 pp. 127 - euro 10
Roberto Gervaso Aforismi sull’intelligence e 3 racconti brevi Nuova Argos, 2015 pp. 125 - euro 10
di La Ciura
Uno strumento di diplomazia Nuova Argos, 2015 pp. 127 - euro 10
Roberto Gervaso Aforismi sull’intelligence e 3 racconti brevi Nuova Argos, 2015 pp. 125 - euro 10
di La Ciura
La Collana ‘Segreti’, curata dall’editore Nuova Argos, ormai gemma di quella vocazione alla cultura operativa dell’intelligence che permea la nostra Rivista Gnosis, offre ancora due lavori, il quarto e il quinto, assai distanti per temi trattati e cifra critica ma che regalano, entrambi con la stessa intensità, un’occasione di riflessione e il piacere intimo di un’offerta di nicchia. Nel quarto, Marta Pallavidini, già nota per le incursioni nelle anse nebbiose degli albori dell’intelligence, ha curato un libretto assai carico di curiosità storiche, che ci accompagna in quella tarda Età del Bronzo del Vicino Oriente caratterizzato da carsici fermenti e smottamenti, allora come ora, frutto di tensioni geopolitiche irrisolte, di migrazioni bellicose, di conflitti e di pacificazioni mai compiute. L’autrice dà voce alle tavole polverose di Hatta o el-Amarna, ci accompagna con il piglio di ricercatrice ma anche con la complicità di un compagno di viaggio, in un mondo complesso di Grandi e Piccoli Regni, di rapporti di forza fluidi, di regole e di costumi tanto rigidi quanto ambigui, di una diplomazia in cui s’incubava prepotente e silente il gene dell’intelligence. È un’età in cui la necessità di sopravvivere imponeva una formalità esasperata, assegnava un codice di potere ai doni, alle politiche matrimoniali e alla gestione degli ostaggi e dei legati, esaltava l’accorta fermezza o la misurata teatralità di Re e di condottieri e poneva una crescente attenzione all’importanza di ‘conoscere’ sia all’esterno dei confini, sia all’interno, non accorgendosi, tuttavia che già quel tempo precipitava nella sua decadenza. Nel quinto, Roberto Gervaso raccoglie i suoi aforismi sull’intelligence di cui sa afferrare, con geniali lampi e rara forza evocativa, la complessità del chiaroscuro, l’eroismo di un mestiere quotidiano, le pieghe afre e le contraddizioni, trasformandole in sverze di poesia e in bozzoli di senso. Tratteggia l’obliquo mondo dell’informazione segreta – che non sempre è segreta – in bilico tra certa agiografia e il complottismo di maniera, specchiandolo nei vetri opachi di una società verso cui il suo disincanto è ironico e acuto, con un sottofondo di divertito e angoscioso engagement. È un invito all’otium, quello di Gervaso, a seguire il filo sottile del suo scherzoso viaggio nell’intelligence, funambulando sui suoi versi, provando la vertigine di ‘impression au soleil levant’. Sostiene l’impresa un corredo d’immagini che fanno da controcanto all’ebro spartito dell’autore e, alla fine, i tre racconti che di Mata Hari, Casanova e Lawrence d’Arabia, tra le figure più famose della storia dello spionaggio, colgono l’ambivalenza del lucore dell’icona e della tremula oscurità dell’intimo privato.
Adam Sisman
John le Carré. The Biography
Bloomsbury, 2015
pp. 652 - euro 14,99
di Speusippo
di Speusippo
Non è stato ancora pubblicato in Italia, e per questo reperibile solo nel testo originale, il resoconto della enigmatica vita di un uomo – agente segreto prestato alla macchina da scrivere – il cui mistero trapela già dal nom de plume, poiché dietro lo pseudonimo di John le Carré si cela Mr. David Cornwell, oggi anziano signore che sarebbe riduttivo definire solo un romanziere. La sua esistenza, passata prima attraverso il tunnel di un’infanzia difficile e poi tra le pieghe di una vita non di rado vissuta pericolosamente, ha forgiato uno scrittore capace di cogliere spunti, di interpretare fatti e di sbalzare trame multiformi, sempre plausibili e strettamente collegate alla storia recente. Un personaggio che non pare mai distaccarsi da un tè caldo, comodamente sorseggiato nella veranda del suo cottage in Cornovaglia, ma che nel corso di mezzo secolo ha pubblicato capolavori che hanno appassionato i lettori – folgorati dalle alchimie di una scrittura fluida, vigorosa ed essenziale – ove spesso si mescolano finzione e realtà. Anche dopo la fine della Guerra fredda, quando il genere spy story subisce un duro contraccolpo, venendo a mancare la materia prima, le Carré riesce a torcere ai nuovi scenari e a diverse esigenze la propria narrativa denunciando, ad esempio, il cinismo delle multinazionali farmaceutiche o affrontando temi politici e razziali, per poi tornare al genere che più gli è congeniale. Quando una figura tanto singolare decide di consegnarsi alla posterità, è difficile che ne emerga un ritratto cristallino, univoco, compiuto. È immaginabile la cortina di cautele calata prima di consentire ad Adam Sisman − benché selezionato tra tanti aspiranti − l’accesso a parte della documentazione privata gelosamente custodita; e prima di essere esaminato, indagato e scrutato, laddove l’opportunità di mantenere sfocate talune circostanze stridesse con la tentazione di rivelare esperienze avvincenti, nell’intento di sedurre l’interlocutore sino a condurlo verso un finale preordinato. E la conferma arriva al termine del volume, allorquando sorge il dubbio di conoscere il famoso inglese meno di quanto lo si conoscesse prima di iniziare la lettura delle oltre seicento pagine. Proprio qui che risiede l’essenza di questa biografia. Come non bastasse, dopo aver acconsentito a una incisiva incursione nella vita privata, le Carré confonde ancora una volta, rimescolando le carte con la pubblicazione, a distanza di pochi mesi, di Tiro al piccione. Storie della mia vita. Una mossa da vero maestro, compiuta scientemente ma senza perfidia, per farci comprendere che, in fondo, non sapremo mai veramente chi sia il primo e chi il secondo: nessun colpo di scena finale, nessun mistero svelato, forse solo il pretesto per un ennesimo plot.
John le Carré
Tiro Al Piccione. Storie della mia vita
Mondadori, 2016
pp. 320 - euro 20,00
L’affermazione che, più di ogni altra, tipizza quest’ultima fatica dell’autore, suona così: «Prima viene l’immaginazione, poi la ricerca della realtà e in fine il ritorno all’immaginazione e alla scrivania dove mi trovo ora». Le Carré offre allo sterminato popolo dei suoi lettori un’attraente compendio della sua vita avventurosa, fecondata da esperienze originali e aneddoti bizzarri che hanno dettato la cifra del suo stile narrativo. Cinquant’anni d’impegno letterario distillati e ripercorsi con energica vigorìa introspettiva, quasi a voler ripetere allo specchio i ‘perché’ del suo viaggio di confine, tra gli eventi che hanno scritto la storia del secolo scorso e la densa umanità dei personaggi usciti dalla sua penna. Un percorso fortemente identitario che non teme confronti. Questo volume è uno splendido memoir che non andrebbe letto d’un fiato poiché ogni capitolo delinea e offre sentimenti e riflessioni meritevoli d’attenzione circoscritta. Il lavoro va affrontato come un quaderno intimo, una teoria di selezionati cammei che, pescando in ricordi meticolosamente ordinati nella memoria, segna un tragitto, a tratti irridente, ancorato a fatti e circostanze che l’autore ha vissuto in prima persona traendo nutrimento per i suoi racconti. Dalla Guerra fredda alla carriera di scrittore che lo ha proiettato in Cambogia, da Beirut sull’orlo dell’invasione israeliana alla Russia prima e dopo la caduta del muro di Berlino, le Carré rientra in rapporto amniotico con i propri personaggi, accarezzandone ambiguità e grandezza. E ancora, per non far mancare nulla, il ricordo del genocidio in Ruanda, il capodanno trascorso con Yasser Arafat, l’appuntamento col dissidente Andrej Sacharov. L’autore sceglie con cura i cardini del suo ‘diario’, quasi volesse addobbare una rastrelliera di vini pregiati, una pupitre per intenditori. E sicuramente vi è riuscito. Il blend è di valore. Sullo sfondo di questo quaderno si percepiscono due elementi fondanti, due punti per cui passa la linea del suo èthos, dominante nel panorama letterario contemporaneo. Il primo riguarda l’amore per le complessità dell’anima. I suoi personaggi non sono spie senza patria e senza ideali; preferisce tenerli lontano dalle abiezioni e intavola i discorsi dell’io narrante con soggetti che sanno cogliere i profumi della vita anche in un mare di zolfo. Il secondo si riferisce al suo antico mestiere di agente operativo dell’intelligence britannica, un imprinting ampiamente somatizzato da cui deriva la coerenza narrativa che conosciamo e che lui definisce «una forma di antiquata lealtà nei confronti dei Servizi». Non è da tutti mantenere la barra su questi temi, anche quando i ritmi editoriali e le esigenze di mercato paiono imporre accattivanti derive non certo di eccellenza.
Ad maiora, Mr. John, senza dimenticare che i piccioni tornano sempre alla base di partenza