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Il crimine organizzato straniero
ovvero le mafie d’importazione

a cura di Emmanuela C. Del Re



L’allargamento europeo, che presto porterà nell'Unione anche Romania e Bulgaria, seguite in futuro da Croazia e Macedonia e più in là anche dai paesi dei Balcani occidentali e dalla Turchia, crea scenari di un'Europa multietnica e multiculturale dalle mille risorse, dai confini aperti e con flussi di persone e cose. Di contro, l'apertura delle frontiere che è seguita all'accordo di Schengen, la facilitazione dei movimenti a seguito dell'entrata di alcuni paesi e dell'associazione di altri, costituiscono per le forze dell'ordine italiane un banco di prova. In particolare, il crimine organizzato stranie-ro, per la sua capacità di penetrazione, per il grado di organizzazione e per il genere di settori criminali in cui si è saputo inserire e poi affermare, costituisce una minaccia permanente. Ancor più se si pensa alle sinergie che si sono create con la criminalità locale. Dai primi flussi migratori verso il nostro paese negli anni 1970, l'immigrazione vede oggi una presenza straniera più consistente (intorno al 4%), caratterizzata da una più attiva partecipazione alla vita del nostro paese, che rispecchia la tendenza al radicamento. A questo tuttavia si affianca il fenomeno della clandestinità, uno degli ambiti in cui il crimine organizzato straniero è più attivo. Va sottolineato però che solo una percentuale di immigrati si colloca nell'ambito della criminalità e per lo più tra i clandestini. Si parla molto oggi della de-territorializzazione legata al fenomeno migratorio, perché i migranti partecipano sempre più alla vita politica, sociale ed economica del paese che li ospita e, allo stesso tempo, mantengono legami col paese d'origine e se ne sentono parte. Per questo molti paesi d'origine dei migranti tendono a promuovere collegamenti transnazionali e doppia appartenenza. Questo secondo alcuni porterebbe allo stemperarsi del concetto di diaspora stesso perché, dovunque la gente vada, porta con sé la propria cultura e società. Per quanto riguarda il crimine organizzato straniero, la questione diventa delicata: esso infatti importa anche "culture" e "forme d'azione" criminali diverse dalle nostre, tanto che le legislazioni europee si sono spesso interrogate sull'opportunità di modificare le definizioni degli atti criminali o di inserirne o reinserirne alcuni. La provenienza geografica dei vari gruppi criminali organizzati determina caratteristiche comportamentali, livello di strutturazione, ambito di specializzazione e altro. Albanesi, Rumeni, Ucraini, Nigeriani, Russi, Cinesi, hanno organizzato attività criminali nel nostro paese che vanno dal traffico di stupefacenti alla prostituzione, sfruttamento di lavoro nero, contraffazione e altro. Molte le questioni sulle quali si deve ancora riflettere, soprattutto tenendo conto del continuo e sempre più rapido mutamento che l'avanzamento tecnologico e l'aumentato movimento di informazioni, persone e cose comportano. Bisogna conoscere i gruppi criminali organizzati stranieri e saper seguire i mutamenti che subiscono. Ancora, le strategie di contrasto non possono più muoversi soltanto nell'ambito legislativo italiano, ma nella cornice più ampia dell'Unione Europea attuale e futura.


Piero Luigi VIGNA
Alberto INTINI
Marco LUDOVICO
Emmanuela C.DEL RE


D. Il crimine organizzato straniero viene spesso definito "mafia", utilizzando il termine forse in modo improprio, se si pensa alle caratteristiche peculiari della mafia. Tuttavia, chiamarlo "mafia" sembra a molti appropriato, quando se ne vuole sottolineare l'importanza e l'incidenza, quasi che chiamarlo semplicemente "crimine organizzato" ne sminuisca il peso nel panorama criminale. L'appello al concetto di "mafia" viene anche utilizzato per farne comprendere il livello di strutturazione, ponendo l'accento sull'efficienza organizzativa. La questione però resta: mafia o non mafia?

Piero Luigi Vigna - L'articolo 416-bis del codice penale, nel descrivere e punire l' "Associazione di tipo mafioso", prevede, nel suo ultimo comma, che questa disposizione si applica anche "… alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che, valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo, perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso". Il nostro Legislatore ha dunque introdotto - con la L. n. 646 del 13 settembre 1982, varata all'indomani degli omicidi del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela e dell'Agente Domenico Russo - una disposizione di carattere generale ben applicabile anche alle c.d. "nuove mafie", quelle, cioè, di matrice straniera, quando il loro modus operandi e le loro finalità coincidono con quelle previste per le associazioni mafiose. Gli scopi di queste, detto in sintesi, sono dalla legge indicate nella commissione di delitti e nell'infiltrazione nell'economia del paese. A queste finalità, è bene ricordarlo, fu aggiunta - con la L. n. 356 del 1992 - quella "di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali". Così operando il Legislatore ha impresso anche una connotazione terroristico-eversiva alle associazioni di tipo mafioso che la manifestarono pienamente quando "Cosa Nostra" realizzò, nel 1993, dal maggio all'ottobre, una concatenata serie di stragi (da Roma a Firenze e Milano) per costringere lo Stato, che non cedette al "ricatto", ad eliminare alcune leggi antimafia (sequestro e confisca dei beni, collaboratori di giustizia, articolo 41-bis dell'Ordinamento penitenziario). Ciò è tanto vero che anche la sentenza definitiva pronunciata dalla Corte di Cassazione riconobbe, nei delitti commessi dai mafiosi, la sussistenza della circostanza aggravante di aver agito per finalità terroristico-eversive. La stessa definizione delle "Condotte con finalità di terrorismo" introdotta con l'articolo 270-sexies del codice penale, a gran distanza di tempo, con la L. n. 155/2005, considera tali, per l'appunto, anche quelle che, per la loro natura o contesto possono arrecare grave danno ad un Paese e sono compiute allo scopo di "costringere i poteri pubblici… a compiere o astenersi da compiere un qualsiasi atto". E proprio per la connotazione eversiva che anche le associazioni di tipo mafioso possono assumere, ben a ragione la L. n. 410/1991 prevede che "… spetta al SISDE ed al SISMI, rispettivamente per l'area interna e quella esterna, svolgere attività informativa e di sicurezza da ogni pericolo o forma di eversione dei gruppi criminali organizzati che minacciano le istituzioni e lo sviluppo della civile convivenza". Termino ricordando che già la nostra Magistratura ha riconosciuto la qualità di associazioni di tipo mafioso ad aggregati criminali di origine cinese ed albanese.

Alberto Intini - Nel gergo comune o giornalistico, effettivamente, il termine "mafia", mutuato dalla sua accezione originaria, viene esteso a quelle organizzazioni criminali che, come la "Cosa Nostra" siciliana, oltre a caratterizzarsi per la struttura verticistica e per le rilevanti potenzialità criminali, mostrano un consistente radicamento territoriale. Più correttamente, però, il crimine organizzato può essere considerato "mafia" qualora mostri le caratteristiche delle associazioni di tipo mafioso, come tali definite dalla nostra normativa antimafia, che è sicuramente la più avanzata nel contesto internazionale. Per cui anche i sodalizi criminali stranieri sono da ritenere mafiosi quando si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo da cui derivano condizioni di assoggettamento e di omertà. Non può, pertanto, generalizzarsi la caratteristica mafiosa solo in presenza di una struttura criminale, più o meno consolidata, stabilmente dedita alla commissione di reati, pur con proiezione transnazionale.

Marco Ludovico - Decidere se è corretto o no usare l'espressione "mafia" con le organizzazioni criminali straniere è così rischioso da rendere la questione quasi fine a se stessa. Certo, l'interrogativo è inevitabile. Tuttavia, se abbiamo tutti chiaro il concetto tradizionale e autentico di mafia,sarebbe molto discutibile, intanto, utilizzare o non utilizzare quella definizione per tutte le criminalità organizzate che non siano quella siciliana o calabrese: i delinquenti cinesi organizzati, per esempio, hanno caratteristiche diverse dagli albanesi e dai nigeriani. In ogni caso, ha senso qualificarli o no "mafia", di volta in volta cinese, albanese o nigeriana? Ci sono almeno due risposte affermative. Il motivo può essere innanzitutto giuridico: serve per applicare anche ai criminali stranieri organizzati le pene previste per i reati mafiosi, tanto che ci sono già alcune sentenze in Italia, benché si contino sulle dita di una mano. Ma la lotta alla criminalità, di qualunque genere, non si vince perché sono stabilite pene particolarmente dure: se fosse così la delinquenza sarebbe già sparita da un pezzo. La parola "mafia", tuttavia, rappresenta una serie di significati ad alto effetto di comunicazione sociale. Poco importa, allora, se i clan nigeriani, per esempio, non hanno nessuna possibilità di infiltrarsi nelle istituzioni italiane come sa fare Cosa Nostra. Se dunque accettiamo consapevolmente una semplificazione, con tutti i suoi limiti, si supera la domanda "è o non è mafia": useremo infatti questo termine per rappresentare una struttura complessa, di alto livello organizzativo e con elevato valore di aggressività criminale. Questo, probabilmente, dovrebbe aiutare a evitare una serie di sottovalutazioni sulla pericolosità della criminalità etnica organizzata.

Emmanuela C. Del Re - Credo che la nostra legislazione, definita a ragione come avanzatissima in materia di criminalità organizzata, sia necessariamente caratterizzata da un certo grado di flessibilità e adattabilità, proprio perché alcune realtà criminali sono di difficile definizione. Esiste tuttavia evidentemente quello che chiamerei vuoto terminologico, che deriva dalla difficoltà di definire realtà criminali che peraltro presentano esse stesse caratteristiche di adattabilità e flessibilità, reagendo a stimoli esterni, a mutamenti nelle condizioni generali in cui operano e altro, in tempi rapidi e con soluzioni efficaci. Una vera e propria tipologia in questo senso sembra di difficile elaborazione, perché dovrebbe tener conto anche di realtà criminali fluide, seppure organizzate, come i piccoli gruppi di sostegno a gruppi di maggiore strutturazione e potenza criminale, il cui collante è l'obiettivo specifico del momento e non il gruppo stesso. Credo che nell'esigenza di definizione di un gruppo criminale organizzato l'elemento discriminante sia costituito dalla forza intimidatoria sul territorio. Una forza che, come sottolinea l'articolo 416 bis, si impone alla generalità creando diffusa paura, sicché, senza bisogno di specifici atti minacciosi o violenti, la potenziale vittima obbedisce a ogni ingiunzione, tra l'altro restando acquiescente e silenziosa. E' dunque mafia la criminalità organizzata cinese, di cui è nota la forza intimidatoria sul territorio tra i Cinesi, tale da consentire la costruzione silenziosa di interi universi criminali apparentemente "invisibili". Non sembrerebbe essere mafia la criminalità organizzata nigeriana sul territorio italiano, perché la forza intimidatoria non si impone alla generalità. Nel caso nigeriano si può parlare piuttosto di "sistema" e non di struttura. L'alto livello di strutturazione, altro elemento discriminante nell'applicazione del concetto di "mafia" ad un gruppo criminale, si rivela per il crimine organizzato straniero fuorviante perché, come ho detto, si tratta spesso di gruppi non verticistici ma orizzontali. Se da un lato non sembra esserci un'esigenza di definizione di tipo giuridico, dall'altro l'esigenza dell'inclusione di nuove formule per la definizione dei tipi di crimine organizzato attuali, è essenziale per elaborare strategie di contrasto che possano andare al passo con la diversità e i rapidi cambiamenti - negli obiettivi, nelle strutture, nelle dinamiche - che il crimine organizzato presenta nel tempo. Tenendo conto peraltro, che nuove forme si affacciano sul mercato continuamente, con capacità direttamente proporzionali al progresso tecnologico e all'allargamento dei confini in senso figurato.

D. Quali modelli di intervento? La definizione del crimine organizzato come "mafia" è sufficiente a giustificare l'applicazione delle norme anti-mafia?

Ludovico - I modelli di intervento non possono che essere complessi, flessibili e particolarmente fondati sull'analisi criminale, visto che si tratta di fenomeni tutto sommato poco conosciuti e continuamente in evoluzione. Il successo degli albanesi, per esempio, si basa anche sulla loro rapidissima capacità di adattarsi alle condizioni di volta in volta affrontate: lo dimostrano le alleanze stipulate con le organizzazioni italiane, l'abilità negli spostamenti sul territorio e nei collegamenti internazionali, la disponibilità a coniugare rituali antichi e barbari - come quelli del codice Kanun - con l'utilizzo di sistemi moderni e raffinati. Occorre, innanzitutto, che le forze di polizia affrontino le criminalità organizzate straniere senza stare a porsi il quesito se siano o no "mafia": il modello siciliano è troppo noto e rischia di condizionare negativamente le strategie di contrasto, che non possono che essere specifiche per le rispettive etnìe criminali. Se poi sia corretto applicare la normativa antimafia anche in questi casi, solo la giurisprudenza potrà dirlo. Sarà l'analisi della fenomenologia criminale e l'evoluzione culturale della valutazione dei reati a orientare sia i procuratori della repubblica e le forze di polizia, sia la magistratura giudicante.

Intini - L'applicazione delle norme antimafia, ovviamente, non può riguardare il crimine organizzato genericamente inteso, ma soltanto quelle associazioni che, per specifico riferimento delle stesse norme, presentano la precisa tipologia delle associazioni di stampo mafioso, cioè sono dedite alla commissione di delitti con la forza di intimidazione che scaturisce proprio da un forte vincolo associativo e che determina condizioni di assoggettamento delle vittime e di omertà anche nel contesto sociale in cui operano. L'azione di contrasto deve, pertanto, essere modulata in relazione alle diverse caratteristiche dell'organizzazione criminale oggetto di indagine, sulla base di una previa analisi del fenomeno che consenta l'adeguatezza dei mezzi da porre in campo e la predisposizione di mirati interventi investigativi.

Vigna - Per quanto concerne il concetto di "criminalità organizzata" è da notare che il nostro ordinamento, benché in numerose leggi si faccia riferimento a tale locuzione, non ne offre una definizione generale ed astratta. Gli studiosi di criminologia ritengono che siano espressione della criminalità organizzata tutti i fenomeni associativi delinquenziali e tutte le condotte costituenti reato che ad essi si collegano a qualsiasi titolo e in qualsiasi modo. Così, ad esempio, le aggregazioni criminali (comuni, segrete, mafiose, terroristiche, per trafficare stupefacenti etc.), i delitti commessi con modalità mafiose o con finalità terroristiche, i delitti interni ai gruppi criminali, i delitti contro i nemici del gruppo. L'esame delle disposizioni contenute nei codici e nelle leggi speciali e delle decisioni assunte dalla Magistratura consente tuttavia di affermare che la nozione di criminalità organizzata è una nozione di genere all'interno della quale si possono distinguere varie tipologie di criminalità organizzata: quella terroristica, quella mafiosa (comprensiva oggi dell'ampio catalogo di delitti descritti dall'art. 51 co.3-bis del codice di procedura penale), e, infine, quella comune, riferi-bile - questa - alle associazioni per delinquere (art. 416 cod. pen.) che hanno per scopo il compimento di delitti concernenti le armi ovvero caratterizzate dall'uso delle armi o di altri mezzi di violenza contro le persone. È chiaro, allora, che la legislazione antimafia (legittimazione alle indagini delle sole ventisei procure distrettuali; funzioni di coordinamento del procuratore nazionale antimafia; disposizioni relative ai collaboratori di giustizia; particolari norme del codice processuale etc.) potrà trovare applicazione per i reati di criminalità organizzata di tipo mafioso anche se, recentemente, alcune di tali disposizioni sono state estese ai delitti commessi per finalità di terrorismo. I delitti di mafia, nel corso del tempo, sono cresciuti di numero coinvolgendo soprattutto - e ben a ragione - delitti transnazionali: così l'originario elenco (associazione di tipo mafioso, associazione in tema di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, ogni delitto commesso con metodo mafioso o per agevolare un'associazione mafiosa) si è ampliato e comprende, ora, anche l'associazione contrabbandiera, la riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600 cod. pen.), la tratta di persone (art. 601 cod. pen.), l'acquisto e l'alienazione di schiavi (art. 602 cod. pen.) e l'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di questi tre ultimi delitti (art. 416 co. 6 cod. pen.).

Del Re - I modelli di intervento devono essere adattati ai modelli di crimine organizzato, tenendo conto delle loro specificità. E' certo che la normativa antimafia costituisce un punto di riferimento cruciale, anche perché, come sottolinea Vigna, ha colto i cambiamenti e ha saputo rinnovarsi di conseguenza. Resta comunque la necessità dell'approfondimento su temi come quello del Kanun albanese, di cui parla Ludovico, che però sono stati oggetto di interpretazioni affrettate di scarsa incidenza sulla invece assolutamente necessaria maggiore analisi del fenomeno della criminalità organizzata albanese, che peraltro costituisce anche un tassello di un mosaico criminale transnazionale molto più ampio. Un'esigenza, quella dell'approfondimento, che deve emergere in tutti gli attori impegnati nelle strategie di contrasto. Il modello di intervento, sia sulla strada, sia in tribunale, deve essere incisivo e specifico. Deve tener conto del tipo di assoggettamento psicologico cui è sottoposta la vittima del gruppo criminale organizzato straniero, del tipo di vincoli tra le persone coinvolte, del contesto sociale di riferimento e così via. Solo in questo modo l'intervento, anche quello proposto dall'attuale normativa antimafia, può essere incisivo e corretto.

D. Il crimine organizzato straniero - albanese, cinese, nigeriano, russo, rumeno, turco sembra aver trovato terreno facile in un'Italia in cui il mercato criminale appariva saturo. Dagli anni 1970 abbiamo assistito ad un continuo ridisegnarsi dei territori e relativi confini, nonché alla ridefinizione di competenze e ambiti di attività. La mafia italiana sembra peraltro conservare territori tradizionali e forza intimidatoria. Come hanno trovato spazio le nuove organizza-zioni criminali? Che tipo di rapporti si sono stabiliti tra mafie nostrane e criminali stranieri? Collaborazione, competizione, guerre di conquista vinte?

Vigna - Le ragioni che hanno impresso alla criminalità il carattere della transnazionalità vanno rinvenute nel mutamento della natura dei beni che formano oggetto dei mercati illeciti. Mentre un tempo - si pensi all'ultimo dopoguerra - le "attenzioni" delle organizzazioni mafiose erano rivolte a beni immobili (edilizia, terreni agricoli) nel corso degli anni i mercati illeciti si sono estesi, in un'ampia filiera, ai beni mobili: dai tabacchi agli stupefacenti, alle armi, ai rifiuti tossici, fino alle persone a fini di sfruttamento sessuale, lavorativo o di accattonaggio e, in alcuni casi (es. Moldavia), addirittura all'interno degli esseri umani, con il traffico di organi. La mobilità delle cose oggetto dei traffici illeciti implica che esse si muovano da un Paese di origine (pensiamo, ad es., alla cocaina che viene da taluni Paesi del Sud America), attraversino territori di "Stati ponte" e giungano al Paese di destinazione. Tutto ciò implica, all'evidenza, che gruppi criminali di vari Paesi entrino in sinergia l'uno con l'altro, anche con la reciproca dislocazione nei vari territori. Per quanto riguarda i rapporti delle mafie italiane con quelle straniere mi sembra di poter affermare che in taluni traffici, come quello degli stupefacenti, esse assumono la veste prevalente di acquirenti rispetto alle altre che sono, invece, i fornitori.Per altri mercati (si pensi a quello degli esseri umani) le "nostre mafie" possono essere clienti (es. fornitura da parte delle altre, di lavoratori nell'economia sommersa) ma anche assolvere a funzioni logistiche (per esempio nel settore dello sfruttamento sessuale). Non si verifica, invece, una integrazione a "livello di comando": non riesco, cioè, ad immaginare una famiglia mafiosa, una commissione provinciale di "Cosa Nostra" o una 'ndrina nella quale siedano, insieme, siciliani - o calabresi - e criminali di diversa nazionalità. Il problema di politica criminale più grave è però un altro. Nelle varie forme di criminalità transnazionale che ho indicato, (dai tabacchi al traffico di esseri umani) assistiamo a forme di criminalità "consensuale": v'è chi offre, ma anche chi vuole acquistare ciò che viene offerto. Vittima e carnefice diventano sempre più non distinguibili, come avviene, invece, per esemplificare, nell'omicidio. Il problema è dunque il seguente: cosa fare per rompere questo vincolo, questo consenso? Imboccare la via repressiva o quella della prevenzione? Ritengo che, ferma l'indispensabilità della prima, un ruolo preminente debba esser assunto dalla seconda, mediante un articolato settore di interventi che copra la scuola, il lavoro legale, l'efficienza della pubblica amministrazione, l'erogazione imparziale dei servizi, l'esemplarità dei comportamenti.

Ludovico - La convivenza tra le mafie italiane e straniere - che non vede, tra l'altro, nessun particolare segnale di conflitti in grande stile tra i rispettivi schieramenti - spesso trasformatisi in connivenza, segna un risultato obiettivo: l'intuizione e l'intesa, magari tacita, sull'opportunità di ripartirsi e ridisegnare interessi e affari, attività, zone di controllo. Un equilibrio sicuramente variabile, che può incontrare anche punti di crisi, ma che nel medio-lungo periodo sta dimostrando tutta la sua micidiale potenza. In fondo non è così difficile trovare i motivi di questo processo: a differenza degli eserciti nazionali, gli schieramenti mafiosi locali e stranieri hanno solo un interesse: difendere i loro obiettivi di potere e di sviluppo, non certo la Patria. Se, per esempio, Cosa Nostra ha ceduto in gran parte il controllo del mercato della prostituzione, ha potuto però dedicarsi con metodo scientifico alla penetrazione nel settore degli appalti pubblici. E se gli albanesi forniscono manodopera criminale alla 'ndrangheta, ciò significa che i delinquenti calabresi, superando - almeno in questo caso - anacronistici retaggi, hanno deciso persino di ricorrere all'outsourcing per realizzare i loro disegni criminosi. E' un "sistema integrato", di tipo moderno: in fondo, per certi aspetti, si tratta di un meccanismo non molto diverso da quello in corso nel mercato, più o meno legale e ufficiale, del lavoro degli immigrati, che hanno occupato una serie di attività (manovalanza edilizia e agricola, attività nelle cucine dei ristoranti) dove ormai è quasi impossibile trovare un italiano. Naturalmente, se abbiamo un "sistema integrato di mafie", questo rende il livello complessivo di pericolosità generale di gran lunga superiore a quello di trent'anni fa.

Intini - Le organizzazioni criminali straniere che si avvalgono di attivi insediamenti sul nostro territorio hanno guadagnato spazi in contesti poco o per nulla controllati da sodalizi nostrani, con una penetrazione graduale e costante. Nelle aree geografiche a presenza criminale, invece, l'inserimento di gruppi a base etnica è stato più cauto, in alcuni casi attento a non infrangere gli assetti locali. Soprattutto, gli interessi illeciti sono stati indirizzati verso quelle fenomenologie delittuose scarsamente appetite dalla delinquenza autoctona, come lo sfruttamento della prostituzione, alcune tipologie delittuose contro il patrimonio e la falsificazione in genere. In particolare, la gestione del mercato del sesso è ormai esclusivo appannaggio di organizzazioni criminali straniere, in quanto alimentato dal traffico di esseri umani che, notoriamente, viene condotto da organizzazioni transnazionali a base etnica. Il rapporto con le mafie nostrane, nei territori da queste controllati, è di totale ed incondizionata subordinazione o si mostra complementare ai traffici della associazione mafiosa italiana. Quasi inesistenti sono i tentativi di concorrenza con la più potente e radicata organizzazione italiana. In alcuni settori, come il traffico di stupefacenti, sono ormai frequenti rapporti di collaborazione o di partnership

Del Re - La capacità di penetrazione sul territorio italiano, come peraltro altrove nell'Unione, sta nel fatto che i gruppi criminali organizzati stranieri non solo hanno occupato spazi criminali negletti, ma si sono presentati nel panorama criminale come prodotto, come fornitori di servizi, non mostrando alcun interesse a penetrare nelle maglie istituzionali, amministrative, della società del paese d'accoglienza. Il fatto di essersi presentati come prodotto o fornitori di servizi, con alto grado di specializzazione, costituisce un elemento di forza e debolezza allo stesso tempo. Mette al riparo dall'essere percepiti come usurpatori e consente la flessibilità necessaria a seguire l'andamento del mercato e, quindi, è un punto di forza. E' un punto di debolezza quando il gruppo non riesce a mantenere lo stesso grado di qualità e quantità, sia nel prodotto sia nel servizio, o non riesce a rinnovare prodotto o servizio a seconda del mercato. E' in questo che la struttura, se non è solida, come nel caso degli Albanesi o dei Nigeriani, rischia di portare al fallimento del progetto criminale, perché non garantisce quella forza d'inerzia propria delle strutture forti, verticistiche, che consente di poter continuare a usufruire di risorse, sempre disponibili anche in momenti di difficoltà. Non esiste un Provenzano nigeriano, che riesca a mantenere potere, rispetto e prestigio anche nella latitanza. La realtà criminale organizzata straniera è decisamente al passo coi tempi, dotata di buone strategie di marketing, ma implacabile se non si è in grado di tenere il passo e il livello.

D. Come garantire e rispettare la transnazionalizzazione e la deterritorializzazione che deriva dai flussi migratori adottando misure di difesa dall’espansione dei traffici illeciti transnazionali?

Intini - Sono noti alcuni mirati interventi normativi degli ultimi anni tesi ad adeguare la normativa sanzionatoria penale nazionale a nuove forme di illegalità, come il favoreggiamento della immigrazione clandestina, la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. L'efficacia dell'azione di contrasto al crimine straniero importato nel nostro territorio deve passare per la conoscenza approfondita delle realtà criminali etniche, sia sul piano del modus operandi che dei rispettivi profili organizzativi, nonché poter operare in un quadro di cooperazione internazionale adeguato e costante. Proprio questa sinergia di azione con le nazioni oltreconfine, unita ad effettive politiche di accoglienza e di inserimento, è fondamentale per discernere gli ambienti a rischio e le sacche di illegalità che si inseriscono nei canali aperti dai flussi migratori internazionali.

Ludovico - L'espansione dei traffici criminali internazionali è talmente forte che le misure di contrasto da adottare - sia sul piano dell'azione di polizia, sia attraverso la revisione delle normative - difficilmente possono essere risolutive. D'altro canto, se, per esempio, agire sul circuito dei money transfer o sulla catena degli internet point può servire da deterrente - è stato fatto per il terrorismo, serve per tutte le transazioni criminali transnazionali - ciò può anche apparire una misura restrittiva dei diritti o delle possibilità di "deterritorializzazione" dei migranti. Ma se pensiamo che fino a poco tempo fa il sistema dei money transfer, per esempio, era campo libero per tutti gli interscambi criminali finanziari a livello mondiale - e ancora oggi non è così facile intercettare i progetti criminosi in viaggio su questo terreno "virtuale" - potremmo concludere che forse alcuni limiti o alcune forme di controllo siano un prezzo equo per evitare che le organizzazioni criminali si sentano a ragione abbastanza al sicuro sulle rotte internazionali.

Vigna - Penso che ormai nessuno cada nella errata e semplificatoria equazione immigrazione = delinquenza. Le statistiche e gli studi condotti sul fenomeno migratorio dimostrano non solo la necessità, per la nostra stessa economia, e, dunque, per il nostro sviluppo, di immigrati, ma che questi sempre più si inseriscono, si integrano nella nostra società. Basta considerare l'elevato numero di acquisti di abitazioni, la sempre maggiore stabilità nel lavoro, i periodi di permanenza nel nostro Paese, le seconde generazioni che qui si formano, la frequentazione degli istituti scolastici, il numero dei conti correnti aperti presso i nostri istituti di credito, per averne una plastica dimostrazione. La delinquenza investe, invece, i clandestini. È per la ragione appena esposta che io credo più all'integrazione che al multiculturalismo che finisce per "ghettizzare" gli immigrati (le violenze che recentemente sono avvenute in Francia lo dimostrano). Tuttavia l'integrazione deve avvenire nel rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo quali sanciti anche dalla nostra Costituzione ed in tal senso si muovono, almeno in altri Stati, le politiche migratorie, che proprio per favorire l'integrazione, richiedono certi requisiti per l'ingresso nel Paese (es. conoscenza della lingua). Con riferimento a quanto sopra notavo circa la necessità che l'integrazione avvenga nel rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo, mi sembra positiva la legge n. 7/2006 che punisce le mutilazioni genitali femminili, in uso in alcuni Paesi, quali violazioni dei diritti fondamentali all' "integrità della persona" ed alla "salute" delle donne e delle bambine.

Del Re - I nuovi scenari del mondo sono definiti da quelli che Appadurai chiama ethnoscapes, cioè dai paesaggi disegnati dal flusso dei soggetti in movimento. Un movimento non più in contrasto con il radicamento sempre maggiore dell'immigrazione nel nostro paese, perché il contatto con il paese d'origine è garantito da mezzi di comunicazione, sempre più accessibili ed efficaci e il distacco da famiglia e paese d'origine, seppur doloroso, non è più uno strappo lacerante. Radicamento che può muoversi nella direzione del multiculturalismo, quando questo non diventi indifferenza alla diversi-tà: concordo con Vigna sull'ambiguità del termine, molto dibattuto, che pone l'accento sulla diversità culturale più che sullo scambio tra culture. Integrazione, allo stesso tempo, può essere interpretato come invito alla rinuncia alla diversità, e questo non può egualmente essere accettato. L'equilibrio è difficile e mette in gioco i valori, territorio dai confini sfumati. L'appello ai diritti fondamentali dell'uomo, peraltro, non ci mette al riparo da errori e critiche, anche nell'ambito del contrasto all'espansione dei traffici illeciti transnazionali. Concordo con Intini quando suggerisce maggiore sinergia con le nazioni confinanti, soprattutto per quanto riguarda l'acquisire strumenti di analisi per una maggiore conoscenza delle reti criminali. Il fenomeno della transnazionalizzazione e de-territorializzazione nell'ambito della migrazione si sta rivelando il vero principio dinamico dei movimenti migratori attuali. Per questo le misure di difesa e contrasto al crimine organizzato straniero devono derivare dallo studio approfondito soprattutto dell'impatto di transanzionalizzazione e de-territorializzazione sull'individuo e sulle comunità, per capire su quali elementi fanno leva i criminali per comprendere sviluppo, consolidamento, affermazione, tecniche di persuasione e altro delle reti criminali transnazionali. Per capire perché, ad esempio, una giovane diplomata ucraina, in cerca di lavoro, cada nella rete della prostituzione e come si può evitare che qualcun'altra come lei ci cada in futuro.

D. Che tipo di rapporto ha il crimine organizzato straniero con i paesi d'origine? Li usano come bacini di reclutamento della manovalanza? Come basi logistiche? Sfruttano condizioni socio-politiche meno rigide rispetto alla trasgressione delle leggi? E infine, se il crimine organizzato straniero non riesce ad esaurire le esigenze organizzative nel nostro paese, questo a cosa è dovuto?

Vigna - Come ho già detto in precedenza la criminalità straniera nel nostro Paese trova la sua ragion d'essere nella globalizzazione dei mercati illeciti. Essa quindi funge sia da gestore dei traffici che vengono dall'estero e che poi vengono dirottati nelle mani della nostra criminalità, sia come gestore in proprio delle cose trafficate (si pensi alla criminalità albanese che, in parte, gestisce direttamente lo smercio degli stupefacenti o sfrutta la prostituzione).

Intini - Le organizzazioni criminali a base etnica che operano nel nostro Paese si atteggiano diversamente nel rapporto con la terra di origine, anche in ragione degli interessi illeciti che perseguono. Da questo legame può, pertanto, derivare un'opera di reclutamento funzionale ad alimentare l'organizzazione sul nostro territorio con elementi della stessa etnia, quindi omogenei al sodalizio, o spesso vincolati ad esso anche in virtù di azioni coercitive o minatorie nei confronti di familiari rimasti nel Paese d'origine (in tal senso, le organizzazioni albanesi, rumene, nigeriane, cinesi). In altri casi, il legame con la madrepatria è determinato dalle necessità di approvvigionamento del traffico illecito: se riguarda gli esseri umani è comune a tutte le etnie impegnate nell'immigrazione clandestina; se ha per oggetto gli stupefacenti, la caratteristica del Paese di origine quale luogo di produzione, di stoccaggio o di transito alimenta la continuità di questo legame, come per gli albanesi, i nigeriani, i magrebini. Comunemente, in tale ambito, i gestori del traffico operano in madrepatria, che rappresenta anche il serbatoio dei "corrieri". Le esigenze organizzative sul nostro territorio delle associazioni criminali straniere sono, invece, autosufficienti quando l'attività illecita cui sono dedite esaurisce il suo percorso criminale all'interno dello Stato, avvalendosi di una struttura radicata ed operante autonomamente, senza necessità direzionali o logistiche oltre confine.

Ludovico - Il rapporto delle mafie straniere con i rispettivi paesi d'origine è ovviamente diverso a seconda delle etnie. I cinesi, per esempio, hanno un sistema di reclutamento fondato su un reticolo complesso di basi che, dalla Cina, dislocate strategicamente in Russia, Turchia e Grecia, dirigono e orientano il traffico degli immigrati in Europa, come se fossero agenzie di tour operator. Gli albanesi, a quanto pare, hanno un legame più "mobile" con la terra madre. A mio avviso, comunque, il rapporto tra i mafiosi stranieri in Italia e le rispettive nazioni d'origine non è stato ancora sufficientemente studiato e analizzato, anche per ovvi limiti di operatività. Eppure, la conoscenza approfondita di questi legami può essere di grande aiuto nel tentativo di spezzare le linee di flusso dei rapporti criminali. Basti pensare che se in Cina la polizia locale agisse con efficacia contro le strutture che organizzano i traffici di immigrati, le basi di partenza dei viaggi verso l'occidente sarebbero messe in crisi. Del resto, se è vero che le Triadi hanno potere di dettare legge anche fuori dei confini asiatici, è ancora tutta da confermare la loro presenza in Italia. Peraltro, la globalizzazione del crimine rende flessibile la modalità e la caratteristica di ogni attività, anche a costo di superare i tradizionali codici di comportamento malavitosi di ciascun Paese.

Del Re - Il rapporto del crimine organizzato straniero con il paese d'origine è un elemento cardine. Seppure diverso a seconda di etnie e paesi, sono ravvisabili alcuni elementi comuni, che riguardano soprattutto il clima sociale. Tutti i paesi di provenienza sono vessati da un altissimo grado di corruzione assurto a sistema. Le condizioni sociali, politiche ed economiche rendono il bacino della manovalanza vario e disponibile. Il grado di know how da parte della popolazione, vale a dire la conoscenza sufficiente a difendere chi cerca lavoro dal cadere vittima di truffa, o , peggio, di traffici, è scarso. Il livello di professionalità è basso. Il legame dei criminali stranieri con il proprio paese non può essere che indissolubile e da parte di essi non vi è alcun interesse perché le cose cambino. Se anche con il crimine organizzato straniero parte del flusso di denaro giunge nei paesi d'origine, at-traverso le rimesse o attraverso investimenti, questi ultimi non sono mai per la collettività e le rimesse si esauriscono in investimenti individuali-familiari privi di una progettualità che possa avere impatto sulla società. Mi riferisco all'accumulo di ricchezze fiabesche di alcuni boss e alla condizione di benestanti raggiunta da famiglie di criminali operanti all'estero, prima indigenti. Le case dei boss moscoviti dotate di rubinetti d'oro - una realtà - sono emblematiche in questo senso. Bisogna studiare queste dinamiche, la destinazione dei capitali e il loro investimento. Le esigenze organizzative potrebbero essere soddisfatte nei paesi stessi in cui opera il gruppo organizzato straniero, ma non conviene, perché sono troppi gli ostacoli sociali, non solo politici e giuridici. Il miglioramento delle condizioni sociali, politiche ed economiche in Albania, Romania, Cina, Nigeria, è di conseguenza affare anche nostro.

D. Si può ipotizzare che senza reti transnazionali, in cui forme criminali diverse soddisfano esigenze diverse, il crimine organizzato oggi non sopravviverebbe?

Ludovico - La domanda è suggestiva ma puramente teorica. In ogni caso la risposta secondo me è comunque no: l'assenza di interscambi internazionali certo ridurrebbe le potenzialità criminali, ma la capacità organizzativa di una struttura mafiosa, a quel punto, si riconvertirebbe sulle necessità locali. Se l'esistenza di una rete transnazionale garantisce lo scambio informativo, finanziario, logistico e le opportunità di espansione e di sviluppo, l'assenza di queste condizioni obbligherebbe le mafie a concentrarsi sull'affermazione territoriale locale, con un'esasperazione della conflittualità con i clan rivali. Da qui a concludere che il crimine organizzato non sopravviverebbe, ce ne corre.

Intini - Il crimine organizzato opera nel contesto territoriale funzionale alla propria strategia criminale, per cui può ben esaurirsi anche in ambito locale. Sono le dimensioni del traffico ed il percorso del mercato illegale a rendere necessaria la costituzione e l'operatività di reti transnazionali che possano gestire il crimine nella sua articolazione internazionale. La criminalità cinese, ad esempio, assume connotazioni localistiche nel momento in cui si esplica all'interno delle comunità cinesi costituite sul nostro territorio, mostra la sua struttura transnazionale laddove dispiega il traffico di esseri umani o l'esportazione di prodotti commerciali o derivanti dal mercato del falso. La criminalità russa, la cui connotazione mafiosa è radicata nei territori dell'ex Unione Sovietica con evidenti caratteristiche transnazionali, nel nostro Paese ha finora privilegiato un attivismo nel campo finanziario teso al riciclaggio del denaro di illecita provenienza.

Vigna - No, il crimine organizzato è esistito prima della globalizzazione e permarrebbe anche senza reti transnazionali. I mercati certo si ridurrebbero, ma i campi d'azione mai verrebbero meno (infiltrazione negli appalti di opere pubbliche, ipermercati, strutture turistiche, estorsione, usura, riciclaggio, reinvestimento). Mi sembra poi illusorio pensare che un fenomeno come quello della transnazionalità/globalizzazione, possa cessare una volta che ha investito trasporti, comunicazione, economia e criminalità.

Del Re - Il crimine organizzato sopravvivrebbe, certo. Quello straniero subirebbe una forte flessione che costringerebbe tutto il panorama criminale a un riaggiustamento. In questo scenario ipotetico, però, possiamo tener conto del fatto che alcune forme criminali non si sarebbero sviluppate così tanto se non vi fosse stata l'offerta e/o la domanda da parte di altri paesi. Penso ad esempio all'Albania, il cui formidabile sviluppo criminale è avvenuto in tempi brevissimi nel momento in cui il paese, letteralmente isolato per decenni, ha potuto aprirsi al mondo. Troppo semplice dire che i criminali lo erano già in pectore e che erano tenuti a bada da un regime efferatissimo. In realtà il boom della criminalità albanese è frutto di una complicatissima trasformazione sociale, economica e politica, che ha profondamente sconvolto la popolazione con effetti devastanti, che sarebbe troppo lungo approfondire in questa sede. L'analisi dell'evolversi del fenomeno criminale organizzato in paesi come Albania, Ucraina, Moldavia, Romania, Nigeria e altri, non può prescindere da questi fattori. Penso che la possibilità di costituire reti abbia contribuito enormemente allo sviluppo dei traffici, parallelamente allo sviluppo dei movimenti migratori legali o con alla base finalità legali. Se le reti transnazionali venissero a mancare - a seguito, ad esempio, dell'ergersi di nuove barriere - credo che gli effetti avrebbero proporzioni maggiori di quello che immaginiamo. Un assaggio lo abbiamo avuto durante i conflitti recenti nei Balcani, che hanno provocato, nei paesi in conflitto, una crescita esponenziale dei sistemi di corruzione, connivenze con enti internazionali non governativi, emergere di nuove personalità criminali con conseguenti sanguinose guerre non sempre risultanti in pax mafiosa, aumento di intimidazione sulla popolazione da parte di gruppi criminali organizzati non regolati dai codici comportamentali tipici delle organizzazioni criminali fortemente strutturate e altro. Credo che se da un lato la transnazionalizzazione delle reti criminali costituisce una minaccia continua, dall'altro l'aumentare il movimento, favorire il contatto periferie-centri consente, anche se può sembrare un paradosso, opportunità di maggiore controllo e intervento.

D. Se il crimine organizzato straniero sopravvive grazie a una serie di intrecci di rapporti con altri crimini organizzati a livello transnazionale e internazionale, si può ancora pensare che il problema del crimine organizzato turco sia solo un problema della Germania? Come combattere il crimine organizzato nella sua dimensione "globalizzata"? Bisogna uniformare la legislazione? Promuovere più azioni congiunte dell'Unione Europea? L'Europol è uno strumento sufficiente?

Vigna - Ho sempre pensato che non sia ipotizzabile un organo mondiale regolatore della legalità. Ritengo invece che Paesi affini per tradizioni culturali possano creare, per così dire, spazi ampi di legalità. Esemplare, in questo senso, l'Unione Europea che è un vero e proprio "laboratorio" che potrebbe essere assunto come esempio da altre "unioni di Paesi". Nell'ambito dell'Unione sono stati creati organi di coordinamento e di scambio di informazioni: dagli Ufficiali e Magistrati di collegamento, alla Rete giudiziaria europea, fino ad Eurojust, Europol ed OLAF. Anche gli strumenti operativi, come il mandato di arresto europeo e le squadre investigative comuni sono divenuti più snelli. Manca ancora una completa armonizzazione delle norme penali e dei mezzi di prova, ma le raccomandazioni, le azioni comuni, le decisioni quadro si muovono in questa direzione. Il crimine transnazionale non si articola, però, solo nell'ambito dei venticinque Paesi dell'Unione. È necessario pertanto, per prevenirlo e reprimerlo, un efficace rapporto di cooperazione fra tutti gli Stati, come prefigurato nella Convenzione ONU, finalmente ratificata anche dall'Italia, per il contrasto della criminalità transnazionale. Una rilevante importanza, a questo fine, ha lo scambio di informazioni, che costituisce la precondizione di ogni attività di prevenzione e repressione. Non a caso la Direzione Nazionale Antimafia ha stipulato ben 32 memorandum d'intesa, per lo scambio di informazioni, con le Procure Generali di altrettanti Paesi che erano e in gran parte sono al di fuori dell'U.E. Europol in tanto potrà svolgere al meglio le proprie funzioni, in quanto a tale organo pervengano il maggior numero possibile di dati e notizie, sventando il pericolo, in tempi passati paventato, della sua sofferenza per "asfissia informativa".

Ludovico - Europol non è uno strumento sufficiente, almeno nell'attuale configurazione. Uniformare le legislazioni dei singoli stati non è così semplice e non è detto che sia poi così efficace. Le azioni congiunte dell'Ue, inoltre, possono avere effetti significativi - basti pensare a tutta l'attività che Bruxelles sta mettendo in campo sull'immigrazione: si attendono i risultati concreti che, visti gli impegni annunciati, dovranno pur esserci - ma non saranno risolutivi. Credo che sia necessaria una consapevolezza maggiore a livello politico e un impegno più intenso dei massimi vertici della sicurezza di ciascun paese. Se insomma è ancora concreto il rischio che le criminalità organizzate straniere siano vissute come una minaccia complementare o addirittura secondaria, magari di fronte a emergenze come quella del terrorismo, il pericolo, allora, sta nella concreta sottovalutazione di un fenomeno che, anche per il fatto di essere trascurato, continua a proliferare e anzi aumenta. Mettere la questione "mafie etniche" tra i primi punti delle agende di ogni ministro dell'interno, in Europa e non solo, è decisivo. Del resto, basterebbe collegarla strettamente a un'emergenza quotidiana e socialmente più evidente, quella dell'immigrazione, per affrontarla in modo puntuale e sistematico. Se invece il contrasto alle organizzazioni criminali straniere si svolge con un'attività disorganica - è questo il problema di oggi - la crescita della potenza di queste strutture criminali può essere molto alta e, di conseguenza, l'azione degli Stati per fronteggiarle diventa molto impegnativa e dispendiosa. Lo scenario da evitare a tutti i costi, insomma, è di dover allestire uno sforzo ingente di risorse umane ed economiche contro il crimine globalmente organizzato, senza la certezza di un risultato rapido ed efficace in tempi brevi, e con l'amarezza di sapere che un'emergenza così difficile da gestire sarebbe stata evitabile se ci fosse stata più attenzione e consapevolezza dei fenomeni in atto.

Intini - Il contrasto al crimine organizzato a base etnica ramificato nella dimensione transnazionale non può che essere condotto programmando ed attivando adeguate sinergie tra i presidi di difesa posti dai diversi Stati, nelle occasioni e nelle sedi deputate alla cooperazione internazionale, ma soprattutto nell'attuazione operativa delle linee guida comuni concordate, che non sempre appare effettiva. In tal senso, in ambito europeo, l'azione di Europol si è finora dispiegata nella raccolta delle informazioni e nella conseguente produzione analitica posta a fattor comune. Da un lato la valenza di tali prodotti è condizionata dalla completezza e dalla qualità dei flussi informativi che vengono trasmessi ad Europol dagli Stati membri, dall'altro alcune delle fenomenologie trattate non sempre sono caratterizzate da un interesse comune e generale. Senz'altro la località di talune problematiche criminali, come anche la non completa uniformità delle legislazioni statuali rappresentano un limite all'azione di contrasto al crimine transnazionale.

Del Re - Europol non è sufficiente non perché sia uno strumento inefficace o inadeguato, ma perché rispecchia un approccio tecnico, teorico e filosofico che, alla luce di tutto quello che abbiamo detto fino ad ora, non è più attuale, per quanto riguarda il crimine organizzato straniero. Mi piace l'espressione di Vigna quando definisce l'Unione un laboratorio. Il problema è che il laboratorio fa ricerca e, poi, sperimentazione, per arrivare a produrre per il mercato. La sperimentazione per ora mi sembra ancora carente. Credo che oltre agli accordi, alla rete di collaborazioni tra le forze dell'ordine dell'UE ecc., sia necessario aumentare la collaborazione diretta tra gli stati dell'Unione tra loro e con i paesi d'origine dei criminali. L'agente di polizia italiano o di un paese dell'Unione deve avere l'opportunità di collaborare maggiormente con l'agente di polizia tedesco, albanese, nigeriano, e viceversa, nel pieno rispetto delle sovranità statali. Vanno incentivati accordi bilaterali e multilaterali, semplificate le procedure nell'ottica di un addestramento che contempli l'esperienza sul campo, con l'applicazione di metodologie non necessariamente afferenti alla sfera della sicurezza e della giurisprudenza. Un approccio interdisciplinare che comprenda anche prospettive antropo-logiche, sociologiche, psicologiche, è essenziale.

D. Molti auspicano misure più rigide di controllo e intervento. Più volte giungono sollecitazioni in questo senso anche dall'opinione pubblica, sulla quale sembrano aver avuto forte impatto anche gli attacchi terroristici, che hanno diffuso un generale senso di insicurezza. Si sente ormai parlare di politiche anti-crimine "preventive". E' accettabile un simile concetto? E nel caso, quali misure potrebbero essere prese?

Vigna - Ho già manifestato la mia opinione sulla importanza che attribuisco alla prevenzione rispetto alla repressione: non solo perché la prima evita il delitto, ma anche perché sempre troppo elevato è il numero degli "ignoti" autori dei reati. Si dovranno privilegiare al massimo, in quest'ottica, le attività di monitoraggio di persone e beni, le operazioni sotto copertura, i collaboratori di giustizia, le intercettazioni preventive, oggi consentite anche ai servizi di sicurezza la cui azione preventiva potrebbe assumere più ampie ed efficaci dimensioni se, finalmente, fossero disciplinate le c.d. garanzie funzionali. Tuttavia è da evitare che il "mercato della paura" favorisca derive autoritarie: in altri termini, che la prevenzione dei delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, sia condotta con tale determinazione da negare i postulati dello Stato di diritto.

Intini - La lotta al crimine, soprattutto a carattere associativo ed organizzato, non può prescindere da un efficace piano di prevenzione, che non può esaurirsi in una strategia di controllo, ma deve potersi inserire sulla scia di adeguate politiche di intervento sociale. L'azione di polizia deve saper programmare efficaci piani di prevenzione e controllo del territorio sulla scorta di corrette analisi dei fenomeni illegali e delle reti criminali, nella imprescindibile sinergia della dicotomia prevenzione-contrasto. Le infrastrutture ed i mezzi che possono consentire la fattibilità di tale azione combinata, nonché gli interventi di carattere sociale ed economico tesi ad eliminare le condizioni che determinano o alimentano le dinamiche criminali, devono essere predisposti contestualmente ed in maniera coordinata alle esigenze di pubblica sicurezza.

Ludovico - Politiche anti-crimine "preventive" sono accettabili nella misura in cui costituiscono un efficace deterrente allo sviluppo delle attività delle organizzazioni mafiose. Il controllo del territorio, in tutte le sue forme, rimane il sistema migliore e oggi la tecnologia fornisce alle forze di polizia mezzi e possibilità di verificare flussi di merci, di mezzi, di persone, di risorse finanziarie, di comunicazioni. E' assolutamente necessario controllare le espressioni economiche e patrimoniali dei criminali sospetti, segnale inequivocabile della loro presenza e della loro capacità aggressiva: non è l'unica via per combatterli, ma può essere molto efficace. In fondo, il potere criminale si fonda e si sviluppa su una serie di traffici ad alta redditività. Quanto alle restrizioni derivanti dalle misure preventive, oggi nessuno ormai più protesta se, quando ci imbarchiamo su un aereo, dobbiamo sottoporci a una serie di controlli di natura personale. Certo, le pratiche in un aeroporto statunitense sono estenuanti, ma comprensibili: in ogni caso, però, si sono dimostrate efficaci.

Del Re - Sostengo fortemente che bisognerebbe impegnarsi di più nella prevenzione dei conflitti, che nella risoluzione. Nel caso della criminalità organizzata straniera sostengo anch’io che bisogna impegnarsi di più in azioni di prevenzione e, poi, nella repressione. Il problema però sta nel come viene interpretato il concetto di prevenzione, per non correre i rischi che sottolineano Vigna, Intini e Ludovico. Credo che le politiche anti-crimine preventive debbano muoversi su due binari paralleli. Uno dei due binari consiste giustamente nel concentrarsi sul monitoraggio di beni, controlli e altro, utilizzando tutti gli strumenti democratici previsti nel pieno rispetto dei limiti imposti dalla normativa. L’altro binario, invece, sconvolge l’immagine comune che alla prevenzione del crimine corrisponda la restrizione: io credo, invece, che l’unico modo per prevenire sia potenziare al massimo la cittadinanza, favorendo più forme associative di gruppi etnici stranieri presenti sul nostro territorio, maggiori possibilità di aggregazione, di iniziative sociali, politiche, economiche, culturali, religiose, scolastiche, per non trascurare la lingua d’origine, e molto altro. Potenziare anche le agenzie coinvolte in attività di monitoraggio sociale come le Ong che si occupano di recupero di prostitute, minori ed altro. Aumentare la rappresentanza di appartenenti a comunità straniere. Una strategia che consente allo straniero di avere un’alternativa, che gli permette di sviluppare tecniche di difesa agli attacchi della criminalità di connazionali o di scegliere di combatterli con gli strumenti democratici del paese di accoglienza: collaborare con le forze dell’ordine o i servizi, ricorrere alla magistratura e così via. Una strategia che non crea “covi” o che, se anche li crea, consente ovviamente maggiore controllo. Una strategia che consente di intervenire in quel delicato rapporto vittima-carnefice di cui parla Vigna, identificando con chiarezza chi è il carnefice e chi la vittima.





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