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GNOSIS 3/2006
Le radici storico-sociali del martirio

Alla ricerca della morte come affermazione e testimonianza


articolo redazionale

Il martirio è un tentativo di penetrare all’interno dei confini ideologici e sociali, presenti tra gruppi in conflitto tra loro, attraverso un potere ierocratico, religiosamente fondato. Il potere religioso di una minoranza invoca una vendetta elevata e purificatrice contro un avversario dominante che, a sua volta, si vendica, qualora non si sia trattato di automartirio, uccidendo il martire. Il confronto può unire il popolo del martire, rafforzando la sua opposizione, quando esso, sotto una guida carismatica, sviluppa il proprio potere organizzativo. L’atto esemplare di un martire rafforza il coraggio del popolo, aiutandolo a sopportare le tribolazioni quotidiane e dirige la sua ira contro l’avversario crudele e assassino, contro la fonte di queste tribolazioni. Ma il martirio può anche rafforzare la volontà dell’avversario di rispondere con una repressione contro la comunità del martire. Il martirio, insomma, politicizza il rapporto tra i gruppi. Questo articolo sviluppa alcuni elementi della teoria sociologica del martirio, per illustrarne le ragioni profonde, usualmente poco considerate nei pezzi giornalistici e negli studi sul suicidio come arma, valutandone spesso solo gli aspetti terroristici. Le domande fondamentali sono: in quali condizioni una società produce martiri? Quali sono i diversi tipi di martirio? E quali speciali circostanze sociali fanno sorgere ciascuno di questi tipi? Ancora, differentemente dalla normale pubblicistica, questo intervento mira a comprendere le radici storico-sociali profonde del martirio, che affondano nelle dinamiche delle prime comunità delle due grandi religioni monoteiste, ebraismo e cristianesimo, solo diversi secoli dopo seguite dall’islamismo.


da www.giovannidesio.it/terrorismo

Il simbolo del martirio è consegnato, dai capi di una comunità, agli uomini e alle donne che offrono volontariamente la propria vita, per solidarietà con il loro gruppo e in conflitto con una aggregazione differente e ideologicamente contrapposta.
Il martire ed il suo assassino sono delegati, paladini o difensori della loro società.
Pochi martiri sono tecnicamente dei suicidi: la maggior parte vengono uccisi da funzionari pubblici, militari o poliziotti, oppure da funzionari religiosi.
Costoro giustiziano il martire come se fosse un terrorista, un criminale o un eretico che minaccia i valori sociali fondamentali o la salute fisica dei membri della comunità.
La società dell’uccisore e quella dell’ucciso lottano per controllare il significato dell’uccisione: essa deve essere percepita dal mondo come un autentico martirio, oppure come una condanna giudiziaria?
Tuttavia, l’impiego del martire come arma in grado di provocare un elevato numero di vittime ha focalizzato l’attenzione dei media esclusivamente su questa forma di automartirio, soprattutto dopo l’11 Settembre 2001. Ciò fornisce una percezione incompleta o distorta delle ragioni sociali del martirio.
I martiri possono essere i “testimoni”, mantenendo il significato letterale del termine greco, di gruppi politici di carattere privato che propugnano l’autodeterminazione, oppure gli eroi delle guerre di espansione di gruppi istituzionalizzati: un monaco buddhista che si autosacrifica in Vietnam; un soldato dell’IRA che si lascia morire di inedia in una prigione inglese; un kamikaze giapponese che dirige il proprio aereo-bomba contro una nave da guerra americana; uno shahid che pilota un aereo passeggeri contro le Twin-Towers.
Il martirio sembra essere comparso piuttosto presto nella storia, probabilmente nel IV° secolo avanti Cristo. L’identificazione dell’ideologia come una realtà culturale indipendente è stata certamente un requisito per il martirio. Le ideologie in contrapposizione tra loro servono da simboli di mobilitazione, da principi intorno ai quali si raccolgono le comunità, rinforzando e anche radicalizzando i conflitti economici o politici.
Le religioni dell’antico Egitto e della Mesopotamia nonchè la filosofia greca, consideravano le ideologie come realtà culturali che avevano già in sé i germi delle idee del bene e del male. Il dualismo zoroastriano aveva elaborato l’esistenza di una forza maligna indipendente, e l’ebraismo dell’età dei Maccabei (secc. II°-I° a.C.) adattò al monoteismo quest’idea di una lotta contro il male. La cultura greca introdusse un elemento personalistico in queste ideologie, attraverso l’immagine del filosofo asceta.
Il cristianesimo orientale associò l’idea dualistica a quella dell’eroe individuale, anticipando in questo modo le idee islamiche sul martirio, tra le quali quella del pegno della vita eterna per i martiri, del perdono dei peccati, dell’esclusione dal Giudizio Universale e della capacità di intercedere da parte delle anime dei martiri.
Il martirio attribuì un significato sacro ai conflitti economici e politici, subordinandoli a quella che Max Weber chiamava “l’etica del fine assoluto”, ossia la ricerca assoluta dei risultati, senza prestare alcuna attenzione al loro costo.
Quando prevale, invece, “l’etica della responsabilità”, il valore dei risultati, commisurato al prezzo dei mezzi impiegati per raggiungerli, finisce inevitabilmente per scoraggiare il martirio.
Il martirio è un atto libero e volontario. Si tratta anche di un gesto altruistico.
Il martire può evitare di fatto la morte dichiarandosi vinto di fronte al suo avversario, ma anche in questo caso accetta, afferma o addirittura ricerca la morte.
Un soldato o un gladiatore lottano per sconfiggere l’avversario soprattutto per non essere a loro volta colpiti e uccisi. Se si verifica la morte, si tratta di una sorta di incidente provocato dalle circostanze. Soltanto quando questa situazione è perfettamente sacralizzata, come nel caso dello jihad musulmano, il soldato che viene ucciso in guerra è un martire.


La percezione del martire nel
gruppo di appartenenza


Il martirio attribuisce ad un evento terreno una speciale grazia divina.
Il simbolismo è parallelo a quello che interviene quando un animale sacrificale acquisisce una qualche santità. La vittima animale scompare, mangiata dai fedeli, ai quali cede la propria sacralità, oppure completamente bruciata, innalzando un profumo gradito al Signore o alla divinità.
Il martire, in quanto sacrificio umano, acquisisce una santità incancellabile.
La sacralità può assumere la forma di una promessa di redenzione, che attenua le sofferenze o mette in grado il martire di resistere nonostante le sofferenze.
Si riteneva che i primi cristiani imprigionati e in attesa del martirio avessero il potere di rimettere i peccati. Coloro che, infine, erano liberati, conservavano questo potere, in alcuni casi divenendo presbiteri della Chiesa


da www.archeorm.arti.beniculturali.it

Il martire muore convinto della propria autorità legittima che sfida quella dei carnefici.
La vittima umana, dopo la morte, diventa un simbolo sacro dell’autorità intorno alla quale ruota la comunità. L’autorità così prodotta è carismatica, slegata dalla tradizione; abbandona un ordine più antico per conquistarne uno nuovo, sociale e culturale, spesso concepito come un ordine spirituale.


Il martirio come esempio

Il martire costituisce spesso un modello per altre forme minori di martiro. Nell’islamismo, per esempio, l’idea della morte del martire “nel modo di Allah” si applica metaforicamente alla sadaqah, cioè all’elemosina.
Il suicidio, che è autoinflitto, raramente viene considerato una forma di martirio. Difatti nessun aspirante shahid o fallito shahid definisce sé stesso come un suicida mancato, poiché il suicidio è vietato dagli hadith e, secondo alcuni studiosi, anche dal Corano. Il loro agire è informato proprio al principio dell’Istishad, cioè al martirio. Il suicidio è un atto egoistico, mentre il loro è un sacrificio altruistico. L’ascetismo, anch’esso autoinflitto, è invece un martirio minore. L’avversario dell’asceta è il desiderio fisico. La vittoria sul desiderio è propedeutica rispetto alla vittoria sull’avversario concreto.
Il martire dimostra la possibilità umana dell’atto. Che una persona in carne ed ossa trionfi nella morte, talora con grave dolore, facilita il reclutamento dei futuri martiri.
Una simile morte costituisce, inoltre, un deterrente nei confronti di ogni futura devianza. Che un membro di una minoranza disprezzata possa dimostrare un tale impegno, infatti, costituisce una sfida ai membri del gruppo dominante. L’avversario può tentare di oscurare il fatto, ma per essere esemplare, il martirio deve essere pubblico e pubblicizzato. Per tale motivo, ad esempio, vengono realizzate videoriprese degli shuhada (plurale irregolare di shahid, il martire islamico) prima della esecuzione degli attentati suicidi. Un’azione privata, invece, sarebbe significativa soltanto per il martire e il carnefice e fallirebbe in questa funzione esemplare.
Al gruppo del martire sarebbero così negati i benefici della testimonianza del proprio campione. I tanti martiri di cui non si ha alcuna memoria, senza dubbio morirono in prigioni sotterranee e le loro ceneri furono disperse. I martirologi, comunque, non contengono alcun martire che cercò volontariamente di nascondersi nella sua comunità.
Nella tradizione ebraica, la morte per qiddush hashem, che santifica il nome o, meglio, la reputazione di Dio, ha lo scopo di impressionare i gentili. Questa norma deriva dalla interpretazione di una frase del profeta Ezechiele.
La pubblicità per lo shahid islamico è implicita nell’idea dello jihad inteso come un obbligo collettivo più che personale. Per questa ragione non tutti i gruppi fondamentalisti islamici si avvalgono delle videoriprese dei martiri. Ibn Rushd (Averroè) scrisse nella sua opera sullo jihad, Bidayat al-mujtahid, nel XII° secolo, che per cancellare ogni obbligo verso gli shuhada è necessario conoscere e riconoscere il loro martirio volontario.


Martirio e suicidio

Non è semplice approfondire la convinzione degli aspiranti shahid di apprestarsi a compiere un martirio e non un suicidio, seppur giustificato da motivazioni religiose.
Molte tra le maggiori tradizioni religiose rifiutano di considerare giustificabile, da un punto di vista religioso, il suicidio, ma allo stesso tempo fanno un grande elogio del martirio. Tra queste si possono annoverare l’ebraismo, il cristianesimo e l’islamismo. Queste religioni distinguono tra la volontà attiva di porre fine alla vita, nel suicidio, e l’accettazione passiva della morte come volere divino, attraverso il martirio per mano altrui. Le azioni dei primi martiri cristiani e la morte degli ebrei di Masada, nel 74 d.C., offuscano tuttavia, almeno in parte, questa distinzione, poiché l’accettazione fu tuttaltro che passiva. Questo è un passaggio chiave per avvicinarsi al concetto di martirio a scopo terroristico.
In contrasto con il suicidio religiosamente motivato, si può parlare anche di un suicidio eroico ed altruistico, che consiste nell’atto di un uomo che decide di assumersi la responsabilità morale di morire per il bene della comunità o per l’onore di questa. Questa è un’approssimazione ancora maggiore al concetto di martirio. Si deve operare, inoltre, una ulteriore distinzione tra suicidio religiosamente motivato e quello che può essere virtualmente imposto a un individuo dalle norme della sua società e che può rappresentare per lui un dovere o una punizione. Si pensi alla satì, l’usanza di bruciare le vedove in India, e al seppuku, l’autosventramento, quando viene praticato come autopunizione in Giappone.
Il tema del suicidio religiosamente motivato è molto complesso ed è difficile distinguerlo dal martirio e dall’autosacrificio, da una parte, e dal suicidio eroico o altruistico, dall’altra.
Nell’insieme, quello che si può definire suicidio religiosamente motivato costituisce solo una piccola parte del numero totale dei suicidi.
Gli studiosi affermano che l’incidenza dei suicidi, e l’atteggiamento che si assume nei loro confronti, dipendono in gran parte dalla concezione dell’Aldilà che il singolo e la società possiedono. Dove la morte viene percepita come una esistenza felice, là c’è una sorta di incitamento al suicidio. La tendenza al suicidio, in effetti, risulta rafforzata quando esso viene considerato un atto neutrale o addirittura degno di ricompensa. Peraltro, le percentuali dei suicidi crescono anche quando questa vita non è più considerata accettabile o meritevole.
L’islamismo si accosta all’ebraismo e al cristianesimo nel proibire il suicidio (intihàr) mentre glorifica coloro che muoiono da martiri (shuhada) o nella veste di testimoni della fede. Mentre gli studiosi discutono se lo stesso Corano proibisca oppure no specificatamente il suicidio, tutti sono concordi nell’affermare che gli hadith, cioè quelle tradizioni che conservano le parole del Profeta riguardo a un notevole numero di problemi, proibiscono il suicidio. Secondo queste fonti, Maometto proclamò che un uomo che commette il suicidio non otterrà il Paradiso e passerà invece il suo tempo all’Inferno, ripetendo l’atto con il quale ha posto fine alla propria vita. Secondo i modelli della tradizione, il suicidio dettato da motivi religiosi è un’azione impossibile, perché rinunciare alla propria vita è insieme un peccato e un crimine.
Nonostante ciò, come nell’ebraismo e nel cristianesimo, la linea di demarcazione che divide il suicidio dal martirio non è affatto chiara. Dal momento che si credeva che il martire musulmano che muore in difesa della propria fede viene ricompensato con l’immediata entrata in paradiso, dove godrà grandi piaceri e ricompense, non è affatto sorprendente sapere che alcuni musulmani partecipano volontariamente alla battaglia, anche in condizioni di pesante inferiorità numerica, nella speranza di poter morire nel corso del combattimento. Tuttavia sarebbe estremamente riduttivo pensare che nelle vergini e nel sesso risieda la motivazione al martirio. Il fondamento è soprattutto religioso e politico.
All’interno dell’islamismo, la setta sciita assegna una grande importanza al sacrificio di sé e alla sofferenza dei propri imam, i successori di Maometto. La morte di Husayn, nipote del Profeta e terzo imam, per esempio, fu considerata dai suoi seguaci un atto di sacrificio volontario di se stesso, che potrebbe essere definito nei termini di una morte dettata da motivazioni di ordine religioso. Sebbene fosse morto sul campo di battaglia, la fine di Husayn fu riletta in seguito come un traguardo che egli aveva sia desiderato che attivamente ricercato; la rappresentazione della sua passione, che viene eseguita al culmine dell’’A’shùrà (il decimo giorno di Muharram, il primo mese dell’anno islamico), raffigura del resto la sua morte come apertamente voluta. Nel corso di questa rappresentazione, Husayn dice: “Caro nonno (riferimento a Maometto), io aborro la vita; io vorrei piuttosto visitare i miei cari nell’altra vita”.
All’interno del movimento sciita, e in particolare della setta degli ismailiti, Hasan-i Sabbàh, nel XII° secolo, costituì l’ordine degli Assassini, che si dedicò a conquistare la propria autonomia religiosa e di governo anche uccidendo indifferentemente crociati e sunniti. La morte di un membro di questo gruppo non era considerata un suicidio, anche quando la sua missione sarebbe quasi certamente sfociata nella morte, ma piuttosto un glorioso martirio, che gli avrebbe procurato la venerazione da parte della comunità e le delizie del Paradiso. La tradizione cita molti racconti di madri che si allietarono udendo della morte del proprio figlio, ma che indossarono abiti da lutto dopo aver successivamente appreso che egli non era morto e che perciò non aveva raggiunto la gloriosa condizione del martirio.
In ultima analisi non esiste una distinzione facile ed evidente tra suicidio e martirio da una parte, oppure tra suicidio e sacrificio dall’altra. Nel formulare queste distinzioni e nel valutare la moralità e il valore religioso di determinati atti che sfociano nella morte, ciascun uomo applica i propri valori religiosi e morali e la propria tradizione religiosa ed etica.
Un tale giudizio personale deve, comunque, essere unito alla consapevolezza, soprattutto da parte occidentale, che ciò che può essere percepito da un osservatore come un inutile sacrificio di sé, può invece essere giudicato da un altro come il più nobile esempio di suicidio religiosamente motivato, o di martirio, in nome delle credenze, dei valori, oppure della tradizione.


Il martirio come atto politico

Il martirio è anche un atto politico, che riguarda la ripartizione del potere tra due società, oppure tra un sottogruppo e la sua comunità di appartenenza. La rivolta dei Maccabei, per esempio, che offrì i primi martiri paradigmatici, fu l’azione di una comunità ridotta che cercava qualche elemento di indipendenza culturale. Le comunità cristiane dell’Asia Minore, nel I° e II° secolo, offrirono i loro martiri alle autorità romane nella lotta per limitare il potere di Roma di imporre particolari espressioni di lealismo politico.
Certi martiri religiosi rifiutano di operare violenza fisica contro gli avversari, ma il martirio, in quanto atto politico, non è mai una sottomissione passiva. Il martire, anche se non violento, colpisce psicologicamente il suo nemico.


foto ansa

Il grido che si leva per vendicare il martire, mobilita l’azione contro l’avversario. Al martirio di Maria Stuarda, per esempio, seguì la dura lotta religiosa per la corona d’Inghilterra. Elisabetta Tudor temeva che si potesse sviluppare una guerra di religione intorno alle pretese di trono della regina di Scozia. I re cattolici d’Europa erano assai più desiderosi di vendicare una defunta Maria Stuarda che di mantenerla in vita. Il suo sangue versato gridò vendetta contro i suoi nemici, più forte e più chiaramente di quanto la sua viva voce avesse potuto fare.
Là dove emerge il potere ierocratico, non è lontano il potere politico: spesso l’uno si trasforma nell’altro. L’IRA ha utilizzato il potere ierocratico della Chiesa per sostenere la propria lotta per l’indipendenza dell’Irlanda dalla Gran Bretagna.
Il martirio mira a rendere inefficace l’autorità politica, sfidando i fondamenti sacri che legittimano l’autorità dell’avversario. Il martire potenziale è un rivale che rivendica autorità e questa rivendicazione politica può essere religiosamente legittimata.
La lotta politica può anche essere una lotta intestina: la società di riferimento e la minoranza scismatica possono condividere una fede e un sistema politico. I Maccabei, Arnaldo da Brescia, Jan Hus e Savonarola, per esempio, accusarono tutti di tradimento i capi dei gruppi che essi combattevano. L’attacco della minoranza venne in questi casi considerato eretico, pericoloso per la fede.
Il sufi persiano ‘Ayn al-Qudat al-Hamadhani (1098-1131) affermava che la grazia divina si era riversata su di lui in tutti i modi della conoscenza esoterica e delle rivelazioni divine, e che egli era, perciò, una fonte indipendente della legge.
Il boemo Jan Hus (1373-1415) operò direttamente in campo politico. Egli sfidò la legittimità del papato, affermando che Pietro non era il capo della Chiesa, la quale, invece, deve far capo direttamente a Cristo. Condannato dal Concilio di Costanza nel 1414 e incarcerato, Hus scrisse un caratteristico messaggio da martire ad un amico di Praga: “In prigione e in catene, aspettando il domani per ricevere la sentenza di morte, pieno di speranza in Dio che non devierò dalla verità né abiurerò errori imputatimi da falsi testimoni”. Fu ancora esortato a ritrattare dopo essere stato legato sul rogo, ma rispose, secondo l’abitudine dei martiri: “Dio mi è testimone che non ho mai pensato o predicato ciò che i falsi testimoni hanno detto contro di me…ora io muoio gioiosamente”.
Il fuoco fu infine appiccato e Hus ripetè il Kyrie Eleeison finchè non fu soffocato dal fumo. Le sue ceneri furono sparse nel fiume, estremo stratagemma per controllare il significato dell’evento, impedendo l’elevazione di un santuario sepolcrale. Dopo la sua morte gli hussiti tornarono a Praga e fondarono l’organizzazione ecclesiastica di Tabor (cosiddetti taboriti), riconoscendo soltanto due sacramenti, il battesimo e la comunione, e rifiutando la maggior parte del cerimoniale della Chiesa cattolica.
Ogni minoranza può organizzarsi come società segreta, come setta che pratica un culto insolito. Tanchelmo nei Paesi Bassi e Redus de l’Etoile in Bretagna, nel XII° secolo, si dichiararono entrambi figli di Dio. I loro seguaci caddero vittime della repressione ed essi furono imprigionati e martirizzati. Numerosi estatici ed asceti, critici verso la Chiesa riconosciuta, si raccolsero intorno a simili portatori di rivendicazioni e perpetuarono i loro movimenti.


I diversi tipi di martire: indipendenza
politica e orientamento dell'azione


Il rispettivo potere politico delle comunità che scendono in conflitto determina il compito del martirio e le caratteristiche dei martiri scelti per svolgere tale compito. Tutte le società in crescita generarono indifferentemente qualche forma particolare di martirio.
Le comunità cristiane all’interno dell’Impero Romano costituivano una minoranza politicamente in crescita. I martiri di questa minoranza soffrivano passivamente, invitando alla ribellione, ma infliggendo all’avversario soltanto una pressione morale o psicologica. L’Islamismo in espansione dei primi secoli della sua storia esemplifica perfettamente una società in fase di autodeterminazione. I suoi martiri erano attivi e bellicosi.
La comunità ebraica postilluministica dell’Europa occidentale era invece una società politicamente in fase di decadenza. Gli ebrei che morirono per mano dei loro avversari non furono, propriamente, dei martiri, ma semplicemente delle vittime dei massacri di massa o, in seguito, dell’olocausto.
L’atteggiamento della società nei confronti dell’agire terreno rappresenta una seconda influenza sul tipo di martirio. L’orientamento verso l’agire può essere di tipo soprattutto “ultraterreno”, oppure soprattutto “terreno”, per riprendere i termini di Max Weber, cioè se la morte concluda o meno il senso della parabola vitale. Questi due tipi di orientamento sono tra loro in un rapporto dialettico. Una lettura politica dell’esistenza terrena intesa in modo attivo rappresenta un elemento di scarsa influenza per le società in crescita e per quelle in fase di decadenza, mentre costituisce un motivo fondamentale per le società in via di autodeterminazione.


I settori della società a prevalente orientamento terreno tendono a entrare in conflitto con i settori rivolti piuttosto all’ultraterreno.
L’eterodossia rappresenta un caso in cui gli scismatici interni, che costituiscono essi stessi una fase in crescita, forniscono un contrappunto religioso di tipo ultraterreno all’orientamento politico di una società dominante in fase di autodeterminazione. Questo caso è rappresentativo della situazione attuale nei Paesi arabi moderati.


Il martirio nelle società in fase di crescita

Una società in crescita è politicamente priva di potere, ma comincia a muoversi, in alcuni casi a rinascere.
La resistenza degli ebrei all’ellenizzazione, sotto il sovrano seleucide Antioco Epifane, nel II° secolo a.C., rappresenta un primo modello.
L’anziano Eleazaro, secondo l’apocrifo “2 Maccabei”, è il tipo di martire che sceglie di offrire la propria vita piuttosto che mangiare carne di maiale in un Tempio di Gerusalemme già sconsacrato.
Quell’immagine viene riproposta nella ribellione ebraica del II° secolo contro la Roma adrianea, in cui lo studioso e capo politico ‘Aqiva’ ben Yosef si unì a Bar Kokhba, capo della rivolta. La tradizione dice che ‘Aqiva’ venne bruciato, avvolto in un rotolo della Torah, in una arena romana.
Il modello del martirio cristiano è il processo e la crocifissione sul Golgota, così come vengono narrati nei Vangeli. I martiri successivi si sforzarono, infatti, di imitare Cristo.
L’Agnello di Dio sacrificato sopravvive pienamente, non in questo mondo, ma nell’aldilà. In modo relativamente singolare, i carnefici divinamente designati erano dei pagani. Normalmente, infatti, soltanto un sacerdote poteva celebrare un sacrificio valido.
Questo principio ricompare tra gli ebrei di Magonza che, nell’XI° secolo, di fronte al massacro incombente, uccisero prima i propri figli e poi se stessi. In questo modo, santificarono il sacrificio attraverso le loro mani “sacerdotali”, rivivendo simbolicamente il rito del tempio di Gerusalemme (un massacro operato da pagani avrebbe in ogni caso contaminato l’offerta). L’avversario viene reso impotente consegnandogli soltanto dei cadaveri e realizzando così il massimo della non cooperazione e vengono affermate la forza e l’autorità spirituale della comunità del martire.
Il martirio nelle società in fase di crescita produce autorità, accresce la lotta, unifica la minoranza e legittima la nuova cultura attraverso la dimostrazione della propria superiorità sulla natura. I martiri, inoltre, spingono una società politicamente in crescita verso l’autodeterminazione, verso la libertà sociale e culturale. L’istituzionalizzarsi di una nuova autorità rappresenta un primo gradino di questo processo, quando il gruppo del martire, per esempio, diventa infuso dello Spirito Santo. La morte del martire rende la scelta ideologica una questione di vita o di morte. Tutto ciò rafforza la lotta, in genere accelerando la sua soluzione a tutto vantaggio della minoranza. Quando la società si muove verso un’accresciuta responsabilità, muta l’intera cultura. Paradossalmente, i valori per i quali i primi martiri rinunciarono alla vita possono spesso non avere alcun significato per i membri della società successiva, ormai pienamente autodeterminata e prospera.
La radicalizzazione e l’accrescimento del conflitto unifica al loro interno le due parti in causa. L’atroce ingiustizia rappresentata dall’uccisione del martire indifeso e le orrende circostanze nelle quali si realizza l’uccisione coinvolgono tutti gli astanti. Il martirio, inoltre, unifica e rafforza il gruppo nella sua lotta. Se la solidarietà sociale è un prerequisito per il martirio, come trova i suoi primi martiri un gruppo ancora diviso al suo interno, non ancora in fase di crescita? Una risposta parziale a questa domanda è che i martiri costituiscono a loro volta un piccolo gruppo all’interno della minoranza.
Gli intensi rapporti che si realizzano all’interno di questo gruppo lo mettono in grado di ergersi contro il potente gruppo più vasto.
L’unità della comunità minoritaria può essere ostacolata dalla defezione di alcuni dei suoi membri e dal loro passaggio nella maggioranza. Durante la conquista cristiana della Spagna, tra il XIII° e il XIV° secolo, per esempio, una grande quantità di musulmani e di ebrei accettarono di aderire al cristianesimo dichiarandolo pubblicamente, mentre clandestinamente continuarono a praticare la loro fede precedente.


Sia la società musulmana, sia quella ebraica, tuttavia, decaddero. L’Inquisizione tentò di colpire questi nuovi cristiani e, allo stesso tempo, fece pressioni sullo Stato affinchè espellesse coloro che erano rimasti ebrei e musulmani. Una certa unificazione fu raggiunta, dagli ebrei emigrati, soltanto nella loro diaspora.
Prima che sia possibile pensare a una seria resistenza aperta, è necessaria una certa cristallizzazione della minoranza intorno a un nucleo di autorità. La tragedia dell’unificazione nella separazione è drammatizzata nell’apertura apocalittica del Vangelo di Marco (13,9-13), in cui è scritto che il fratello tradirà il fratello, il padre il proprio figlio e che i figli si solleveranno contro i propri genitori e li metteranno a morte.
Nel martirio vengono santificate la cultura della minoranza, la sua ideologia e la sua legge e viene stipulato un patto suggellato con il sangue. E’ scritto in Mekhiltà, un commento e una interpretazione dell’ebraismo, che tutti i comandamenti che gli ebrei hanno, non periranno, fino a che essi non sono realmente riconosciuti, e che tutti i comandamenti che essi hanno decadranno, quando il Signore sarà riconosciuto tra di loro.
Il martirio, ponendo l’ideologia davanti alla sopravvivenza fisica, afferma la priorità della cultura sulla natura; nonchè dell’esistenza, della legge e della civiltà del gruppo sull’egoismo biologico. Una società in fase di crescita che valuti la vita del singolo al di sopra della sopravvivenza del gruppo e perfino al di sopra della propria sopravvivenza culturale non è ancora pronta a diventare una società autodeterminata.


La società autodeterminata:
il martire eroico


La società autodeterminata ha raggiunto il pieno controllo politico della propria esistenza. Sono esempi di questa situazione i cristiani del IV° secolo in Asia minore, dopo la vittoria di Costantino; l’islamismo del califfato omayyade nella Damasco del VIII° secolo e la Yishuv, la comunità ebraica della Palestina durante gli anni ’20, guidata dal Va’ad Le’umi, il Consiglio Nazionale.
I martiri di una società autodeterminata sono attivi, aiutano la società nella sua espansione facendo apertamente propaganda, inviando missionari ai non convertiti e combattendo contro gli avversari. Nell’islamismo lo jihad è un obbligo religioso e il martire, lo shahid, è colui che muore in questa guerra santa.
La società cristiana europea che, sotto papa Gregorio VII°, inviò il pellegrinaggio armato a Gerusalemme, corse verso un sacrificio di massa, una apoteosi di gruppo. La difesa dai nemici esterni costituisce il problema maggiore; il raggiungimento dell’unità interna rimane un problema sociale di minore importanza. Nonostante ciò, la società autodeterminata patisce a sua volta gli scismi interni.
Gli storici islamici parlano assai poco dei martiri musulmani giustiziati nelle primissime fasi di oppressione dagli Arabi pagani, che costituivano il primo gruppo di opposizione. Le testimonianze si fanno più precise sui martiri islamici dei vari conflitti interni, i tanti martiri musulmani uccisi dai musulmani medesimi nel corso del periodo della crescita e dell’autodeterminazione e celebrati dalle loro sette.
L’esempio storico è costituito dal nipote di Maometto, Husayn il figlio di ‘Alì, ucciso dai soldati di Yazid, figlio del califfo Mu’àwiyah, per impedire la salita di Husayn al califfato.
Questo martirio viene commemorato annualmente negli ambienti sciiti con la flagellazione, una forma di sofferenza imitativa. Il conflitto ideologico poneva di fronte l’insistenza sciita sulla successione al Profeta per via familiare e un contesto che si fondava sulla base elettiva della legittimità del califfato.


La società in fase di decadenza politica:
vittime e antimartiri


La società in fase di decadenza politica è quella che sta perdendo la propria capacità di essere autodeterminata. Le comunità pagane delle provincie dell’Impero romano decaddero quando furono assimilate dal cristianesimo vittorioso. La società zoroastriana divenne una debolissima minoranza in Persia, con una particolare diaspora in India, subito dopo la conquista islamica. Società numericamente più ridotte, come quelle degli Indiani d’America e delle isole della Polinesia, furono cancellate dai moderni poteri imperiali.
La causa e le caratteristiche di questa decadenza sono da individuarsi nella perdita dell’autonomia politica. I simboli della società non riescono più a controllare la lealtà dei propri membri. In questo modello si inserisce, per esempio, la società ebraica dell’Europa occidentale, a partire dalla fine del XVIII° secolo.
Il controllo delle diverse comunità ebraiche locali, a quanto risulta dagli studi effettuati, fu gravemente indebolito quando si affermarono in Europa i nuovi concetti di indipendenza e cittadinanza. Gli schemi cristiani o profani di riferimento, ed i valori connessi, cominciarono a influenzare le interpretazioni della stessa tradizione ebraica.
Lo Haskalah, o illuminismo ebraico, si costruì sullo sfondo di questi nuovi simboli intellettuali. I maggiori contributi forniti dagli ebrei alla civiltà, non furono rivolti alla società ebraica in quanto tale, ma piuttosto alle società circostanti. Heine, Mahler, Freud e Einstein contribuirono soprattutto alle loro culture, rispettivamente tedesca e austriaca.
Il martirio è latente in una società in fase di decadenza. L’avversario esige semplici vittime che, con la loro morte, non affermino un’ideologia. Le autorità ebraiche tendono a ricordare le vittime dell’olocausto come martiri che hanno operato per la santificazione del nome di Dio. Alcuni studiosi, invece, ritengono che i morti nei campi di concentramento furono, nel complesso, non tanto testimoni sacri, ma piuttosto vittime passive, non fieri martiri per una causa, ma semplici pedine politiche.
I leader di una società in fase di decadenza possono accantonare la resistenza e il martirio in favore della trattativa con l’avversario. Vi sono ricercatori che addebitano ai capi della comunità ebraica ungherese, durante la seconda guerra mondiale, una sorta di complicità nella propria distruzione. Sebbene essi sapessero di Auschwitz, un incontro con Eichmann li convinse che non avevano nulla da temere se cooperavano con le SchutzStaffeln (SS) nell’imporre la ghettizzazione, la confisca delle proprietà personali e la deportazione in Polonia per il “servizio di lavoro”.
La resistenza ebraica, operata in modo indipendente o in cooperazione con i partigiani locali, produsse autentici martiri, ma fu raramente appoggiata dalle autorità della Judenrat, i consigli ebraici del ghetto.
La sollevazione del ghetto di Varsavia, autorizzata dai capi del ghetto, fu una specie di estrema spinta suicida, come Sansone nel tempio di Dagon. L’autosacrificio richiede almeno un residuo di forza morale e la volontà di proteggere l’onore del gruppo. Gli schiavi possono soltanto commettere suicidio, come i reclusi dei campi di concentramento che si gettarono contro i fili elettrici per alleviare le loro sofferenze.
Le vittime che scendono a compromessi possono diventare collaboratori del nemico o convertiti. Possono diventare anche antimartiri. Un antimartire può essere anche convertito all’ideologia dominante, che però rimane un capo della minoranza e cerca di padroneggiare il conflitto collaborando con il gruppo dominante. Questo tentativo può costare loro la vita. Gli antimartiri qualche volta si sforzano di eliminare i martiri, che considerano squilibrati.
Essi non sono dei semplici opportunisti, mossi soltanto dal loro vantaggio personale, ma collaborazionisti, profondamente coinvolti nell’ideologia del nemico, che essi credono più adatta al loro gruppo. L’antimartire può trovare la morte per mano dei suoi nuovi alleati dopo che essi hanno perso la fiducia in lui.
Alcuni nuovi cristiani, accusati dall’Inquisizione spagnola di essere tornati all’ebraismo, salirono al rogo stringendo tra le mani una croce. I capi di un gruppo minoritario che evitano il martirio a causa dell’istinto di sopravvivenza, senza accettare il loro avversario, non sono veri e propri antimartiri.
Un martire è il rappresentante della sua comunità e viene da essa divinizzato. Gli antimartiri, invece, agiscono a titolo esclusivamente individuale, oppure al massimo come membri di un piccolo gruppo separatista. La situazione di minoranza finisce per condannarli come traditori e per trasformare la loro apoteosi in un male.


La produzione dei martiri

Non sempre è possibile trovare candidati al martirio. In quale modo una comunità può reclutare e preparare individui disposti al sacrificio? Ignazio di Antiochia, che a Roma cercava il martirio, supplicò i suoi correligionari di non tentare di liberarlo, ma di lasciarlo morire. Nello stesso periodo, peraltro, alcuni vescovi della Chiesa rinnegarono la loro fede e fuggirono per evitare il processo penale.
Non tutti i settori delle minoranze sociali producono martiri in eguale misura. Il livello di devozione della maggior parte dei membri della comunità, infatti, è insufficiente a sostenere fino in fondo i martiri. Le persone particolarmente zelanti costituiscono speciali cellule all’interno della più vasta comunità dei devoti, e queste cellule possono diventare fucine di martiri, sostenendoli durante la loro prova.
I martiri delle minoranze politicamente in fase di crescita sono in genere i capi, reclutati per la loro nobiltà. Di solito questi martiri sono uomini, non perché le donne rifiutino il martirio, ma perché i martiri vengono tratti dalla dirigenza politico-religiosa. Le donne martiri muoiono, in genere, affermando i valori della famiglia. Barbara, che appartiene al vasto gruppo delle vergini martiri e che era, forse, una seguace di Origene, nel III° secolo, fu murata in una torre e venne infine decapitata da suo padre, quando egli apprese della sua conversione al cristianesimo. Cecilia, secondo la tradizione, morì martire durante il regno di Marco Aurelio, insieme al marito e agli amici che aveva convertito.


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Quali sono le caratteristiche psicologiche, le motivazioni di coloro che cercano la sofferenza e vogliono morire? Sebbene alcuni studiosi tendano a sottolineare motivi di autocelebrazione, come la promessa della redenzione, oppure, secondo l’opinione di Agostino, la volontà di evitare il peccato, si può certamente dire che l’altruismo rappresenti la motivazione fondamentale. Il coinvolgimento profondo nell’azione morale trascende l’interesse immediato del martire, rivolto al proprio destino personale.
Accettando questo coinvolgimento, si manifesta una particolare integrità personale e la capacità di vincere l’istinto che suggerirebbe invece la fuga.
Senza dubbio alcuni si offrono al martirio soltanto per pazzia. Ma gli psicotici devono essere stati assai rari tra i martiri, dal momento che i disturbati mentali di solito non sono in grado di stabilire e di mantenere i legami personali che sono invece richiesti nei gruppi dei martiri. Molte menti originariamente salde, comunque, devono aver ceduto sotto le torture che spesso precedono l’esecuzione.
Un martire viene preparato, nel corso della sua vita, nel suo gruppo, cioè da una sorta di supporto sociale: in esso egli trova aiuto. L’atto del martirio è fortemente connotato dal punto di vista ideologico e il martire potenziale viene ripetutamente messo alla prova. L’ideologia del martire si concentra sul significato della vita in rapporto alla morte.
Essa non ha soltanto lo scopo di attenuare il dolore del martirio attraverso la visione di una vita futura, ma fornisce anche un significato per la morte, in continuità con il significato attribuito alla vita del martire. Per questo il martire procede nonostante le sofferenze. Per gli shuhada è necessaria una minore connotazione ideologico-confessionale essendo assente la fase della tortura.
I martirologi, sia quelli semplicemente narrativi sia quelli di uso cultuale, lodano i martiri e mettono in evidenza il male. Essi preparano i nuovi martiri mediante l’esempio e incoraggiano forme minori di martirio popolare. Il culto cristiano dei martiri, approvato a partire dalla fine del II° secolo, ruota intorno all’esibizione delle reliquie in occasione dell’anniversario del martirio.
In tempi più recenti, l’addestramento dei kamikaze comprendeva anche la venerazione di uno speciale santuario dedicato a coloro che erano morti in addestramento o in combattimento. In esso le reclute ricevevano una sorta di “intossicazione” spirituale.
I martiri esemplari non provengono necessariamente dal loro gruppo. L’invidia e l’orgoglio, infatti, possono essere importanti tanto quanto l’ira nel rafforzare la risoluzione di sopportare il dolore e l’umiliazione fisici. I primi cristiani, che non avevano ancora del tutto tagliato i ponti con l’ebraismo, si identificavano con i martiri Maccabei. Ghandi, durante la sua lotta contro i Boeri, nel Transvaal, lodava le forti donne boere che erano sopravvissute alla vergognosa incarcerazione, da parte degli inglesi, durante la guerra boera.
Per preparare il martire, dunque, l’ideologia sostiene la santità della missione e, al contrario, la qualità satanica dell’avversario. Essa evoca i martiri esemplari precedenti, anche quelli appartenenti a gruppi diversi. La preparazione al confronto si materializza, durante la vita, nella narrazione del martirio.
Questa preparazione comincia con lo studio del martirologio, una esperienza indiretta, e prosegue con la pratica diretta delle forme di martirio minore: fare la carità, digiunare e ricevere i sacramenti. La sottoposizione ad uno shahid attuale dei video registrati dai precedenti shuhada è una forma contratta e maggiormente coinvolgente di studio martirologico.
I primi cristiani disponevano di narrazioni estremamente articolate in vista della prova. Il processo romano, infatti, che era di tipo giudiziario, era perfettamente prevedibile. Le sue fasi comprendevano l’arresto, l’interrogatorio, la minaccia e la persuasione, il proscioglimento per abiura e infine, come prova di lealtà, la celebrazione, da parte dell’abiurante, dei riti pagani. Coloro che verosimilmente sarebbero stati interrogati erano già istruiti: per ciascuna fase del processo le risposte erano pronte.


Il controllo sociale dei martiri

Un pericolo concreto per una comunità politicamente in fase di crescita è rappresentato dal rischio che alcuni suoi membri inizino una aperta azione politica, addirittura una aperta ribellione, prima che la comunità sia pronta ad appoggiare un simile atto e, perciò, a portarlo al successo. Il martirio, anticipatore della sollevazione, costituisce anche una temporanea alternativa ad essa. Una comunità deve attentamente controllare i propri martiri, proprio come fa con i propri militanti troppo zelanti.
La comunità stabilisce le regole che governano le occasioni per il martirio. Per quali principi vale la pena di morire? In quali situazioni non si deve morire? La perdita di questo tipo di controllo da parte degli ebrei durante l’ultima parte del I° secolo d.C. fu fatale per l’autonomia ebraica e per poco non segnò la fine dell’ebraismo in quanto tale.
La completa sconfitta ebraica nella ribellione del 70 d.C., che portò alla distruzione del Tempio, fu simboleggiata nella nuova denominazione del monte del Tempio, che venne da allora chiamato Aeolia Capitolina. La successiva rivolta di Bar Kokhba (circa 132-135) fu anch’essa duramente repressa. La comunità, non essendo sufficientemente preparata per questi atti disperati, non sostenne sufficientemente Bar Kokhba. Queste catastrofi collocarono il centro della vita ebraica nella diaspora.
Ne sono testimonianza i vari editti di Adriano, come l’editto che proibiva la circoncisione, che sono stati spesso interpretati come causa scatenante della ribellione degli ebrei, mentre in realtà sono ad essa successivi e fungevano come una sorta di legge marziale.
Il controllo sociale sulle regole del martirio prevede anche la possibilità di stabilire quando non deve esserci martirio. Al musulmano, per esempio, è proibito desiderare la morte o un incontro col nemico. Secondo i giuristi islamici, il talab al-shahàdah, la ricerca del martirio, anche sul campo di battaglia, è troppo simile al suicidio. Mahmud Shaltoutis, già professore di Diritto comparato all’Università al-Azhar de Il Cairo, precisò, nel 1977, che sono consentiti alla comunità soltanto tre motivi per dichiarare lo jihad: respingere l’aggressore, proteggere la missione dell’islamismo e difendere la libertà religiosa, cioè la libertà dei musulmani di praticare la loro fede anche nelle terre non musulmane.
Le leggi talmudiche sul martirio furono formulate dal Concilio di Lydda, nel II° secolo, ma tali leggi regolavano soltanto una piccolissima minoranza, in una particolare provincia della Roma pagana. A partire dal medioevo, gli ebrei costituirono sempre una minoranza all’interno di potenti e importanti Stati cristiani. Di quando in quando, la pressione sugli ebrei affinchè si convertissero crebbe, al punto che il martirio divenne talora un problema reale.
Anche la sopravvivenza del gruppo, non soltanto quella individuale, divenne perciò un obbligo sacro. Mosè Maimonide (Mosheh ben Maimon), scrivendo la sua Epistola sull’apostasia nel 1162-1163, mise in guardia di fronte al rischio che la morte del martire possa condannare alla rovina anche tutti i suoi discendenti. Per questo e per altri motivi, Maimonide limitò notevolmente le occasioni che possono portare al martirio.
Pur essendo una reazione non consapevolmente valutabile da parte dell’Impero nipponico, alla scelta americana di utilizzare l’arma atomica su Hiroshima e Nagasaki, concorse anche l’impiego di kamikaze, “arma” alla quale gli statunitensi non sapevano come opporsi se non continuando a pagare un prezzo altissimo di vittime sino a che non fosse stata dichiarata la resa.


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I rabbini del Talmud hanno limitato il martirio ai soli casi in cui è necessario evitare il culto pubblico di divinità straniere, l’incesto, l’adulterio o l’omicidio. Sotto costrizione è sufficiente, scrive Maimonide, pronunciare la Shahàdah, la dichiarazione musulmana dell’unità di Dio e della missione profetica di Maometto. L’ebreo sotto costrizione era libero di comportarsi secondo la sua volontà. Se un ebreo viene costretto a violare pubblicamente i comandi della Torah, oltre ai tre sopra ricordato, Maimonide raccomanda la sottomissione, una posizione che, peraltro, non ricompare, nella sua “Epistola a Yemen” né nella sua Mishneh Torah, la sua opera maggiore.
Si tratta di un atteggiamento assai prossimo alla dissimulazione musulmana, che suggerisce di agire, in caso di costrizione, fingendo di aver davvero abbandonato l’Islam. Ciascuno, comunque, è pienamente colpevole se le violazioni dipendono esclusivamente dalla sua libera volontà. Maimonide consiglia l’emigrazione verso terre più ospitali, piuttosto che attendere l’arrivo del Messia in una terra di oppressione.
Esistono inoltre alcune regole che controllano la candidatura al martirio. Vanno per esempio scoraggiati i candidati che non sarebbero in grado di affrontare l’avversario, così come quelli che non assicurano che la loro azione sia volontaria. Le regole suggerite da Ibn Rushd (Averroè) per raccogliere candidati allo jihad richiamano le regolamentazioni bibliche che limitano il servizio militare secondo l’età, la condizione maritale e l’atteggiamento verso il pericolo. Lo shahid non deve sottrarsi alla lotta fino a che i nemici sono soltanto il doppio delle sue truppe, una valutazione che si basa sopra un versetto del Corano (8,66), ma può fuggire di fronte a una sproporzione più grande.


L’eliminazione del martirio
da parte del gruppo dominante


Il gruppo dominante, quando non può utilizzare il significato pubblico del martiro, tenta in tutti i modi di ostacolarlo. I martiri potenziali vengono allora assimilati oppure soppressi.
Il gruppo dominante, può, per esempio, assimilare un settore in qualche modo simpatetico della minoranza. I nuovi “convertiti” allora, se ricevono posizioni importanti nella società dominante, possono costituire un esempio inteso ad attenuare la resistenza della minoranza (questo progetto fallisce miseramente quando finisce, invece, per polarizzare la minoranza, incitando i resistenti ad attaccare coloro che favoriscono l’assimilazione, come nel caso dell’attacco dei Maccabei contro gli ebrei ellenizzanti). Poiché il martirio dipende dall’autorità carismatica, ogni movimento rivolto alla razionalizzazione dell’ordine sociale attribuisce alla minoranza un senso di giustizia e di ordine e indebolisce la spinta al martirio.
Le misure repressive possono essere perfettamente parallele alle misure di assimilazione, in una sorta di politica del bastone e della carota. I gruppi generatori di martiri possono essere attaccati, per esempio, da un agente provocatore che si infiltra in essi. Tali gruppi di resistenza possono essere dichiarati illegali e i loro membri possono essere giustiziati, in una sorta di “caccia alle streghe”.
Il terrore favorito dal governo contro le comunità dei martiri tende a privare di ogni appoggio i gruppi di resistenza.
Altri modi per suscitare una sanzione contro il martirio da parte della comunità che lo pratica sono rappresentati dall’infliggere morti particolarmente dolorose oppure dal giustiziare insieme numerosi martiri, abusando perciò del potenziale di martiri fornito dalla minoranza.
Questa malvagità sempre crescente rappresenta spesso un atto di disperazione. Il suo autentico orrore, infatti, può radicalizzare ulteriormente la minoranza nella sua ribellione contro la società dominante. Le autorità israeliane hanno adottato per un brevissimo periodo la tecnica di cucire i resti degli shuhada all’interno di pelli di maiale, ma le sommosse seguite li hanno convinti a limitarsi, come reazione verso il nucleo familiare di provenienza, all’abbattimento delle dimore della stessa.
Le persecuzioni implicano repressioni perfettamente organizzate contro le minoranze, non semplici azioni isolate o localizzate contro martiri potenziali. La tradizone cristiana parla di dieci persecuzioni: tra esse quelle sotto gli imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano. Nel 257, sotto Valeriano, per esempio, fu emanato un editto che obbligava ad atti di sottomissione in conformità con la religione romana. I cristiani che li rifiutavano furono condannati alle miniere, percossi con scudisci e verghe, marchiati sulla fronte e sbarbati su una sola guancia, in modo da potere essere immediatamente riconosciuti, in caso di fuga, come schiavi fuggitivi o come criminali. Questa durissima persecuzione ebbe luogo soltanto due generazioni prima di Costantino.
Quando si giunge al martirio, il suo impatto sulla società dell’avversario può essere limitato nascondendo l’uccisione dalla vista: per questo l’esecuzione viene in genere affidata a specialisti. Così come esiste una preparazione per i martiri, allo stesso modo c’è una preparazione dei loro uccisori specializzati. Le SS della Germania nazista si ritenevano un ordine sacro, una èlite incaricata di proteggere il Fuhrer.
I campi di sterminio erano un terreno di addestramento, che li preparava a questo compito. I prigionieri erano considerati appartenenti alle razze inferiori, incapaci e asociali, soggetti all’inedia e a condizione malsane, essi finirono per assomigliare a morti che camminano. Ogni ufficiale delle SS che mostrava compassione era immediatamente eliminato dal gruppo. Coloro che fecero causa comune con i prigionieri furono degradati, sottoposti a venticinque frustate e associati al gruppo dei “subumani”.
Una scelta diametralmente opposta e quella di incoraggiare un’ampia partecipazione pubblica, sia della comunità prevalente che della minoranza, alla rappresentazione della repressione. Lo scopo è quello di eliminare o demoralizzare la minoranza, fino al punto che essa non possa più fungere da retroterra per i martiri. Di fronte agli elementi che si pongono al di fuori del controllo delle autorità, infatti, è opportuno per il sistema applicare la giustizia mascherando il proprio intento.


foto ansa

Agendo in questo modo ambivalente, la comunità dominante può fingere di fornire una protezione giuridica e politica, con lo scopo di distogliere, invece, la minoranza da una difesa programmata. La medesima situazione può realizzarsi quando nella società è presente più di una autorità. Nella Germania e nella Polonia medioevali, per esempio, gli ebrei vivevano sotto la tutela del vescovo o della nobiltà locali. Ma questa garanzia di sicurezza si rivelò del tutto inefficace quando gli ebrei furono attaccati dai soldati e dalle folle durante le sollevazioni popolari contro di loro e in occasione dei primi massacri di massa.
Il linciaggio dei neri negli Stati del Sud dopo la guerra di secessione ha lo stesso carattere di una azione provocata dalla folla, che viene talvolta disapprovata e tra l’altro tacitamente accettata dalle autorità.
La società dominante può privare i martiri della loro funzione esemplare dichiarandoli criminali. L’ingiustizia viene realizzata allontanandoli dalla società. A partire dal II° secolo, i Romani hanno sviluppato una ricca letteratura intesa a giustificare la soppressione dei cristiani e a definire il loro martirio una follia. Le opere di Marco Cornelio Frontone e di Luciano, per esempio, attaccavano i cristiani come nemici pubblici e come atei, come una razza fanatica innamorata della morte, che si incamminava verso le torture più crudeli come verso una festa.
Per screditare la loro ideologia, queste opere ridicolizzavano i cristiani, i quali affermavano che Gesù era nato da una vergine in una famiglia povera di una modesta cittadina della Giudea, mentre, in realtà, sua madre era stata ripudiata dal marito per aver commesso un adulterio con un soldato romano chiamato Pantera.
Il significato del martirio emerge spesso soltanto in epoche successive, attraverso i miti che si formano sull’evento. Il martire vede lo scontro come il preludio alla sottomissione del suo carnefice e perciò alla vendetta su di lui e sulla sua comunità.
La società dominante, invece, interpretando l’evento come punizione o vendetta, spera che esso non abbia seguito, che il ciclo si sia concluso con la punizione del criminale.
La distruzione della testimonianza ha lo scopo di controllare la successiva ricostruzione storica. Durante le persecuzioni di Diocleziano (285-323 d.C.), le chiese furono bruciate con tutti i loro manoscritti, che contenevano, tra l’altro, le passioni dei martiri del passato. I libri furono bruciati in roghi pubblici. I persecutori, non essendo riusciti a fermare altrimenti le apostasie, tentarono almeno di cancellarne il ricordo.
Forse la più efficace arma dello Stato, in particolare dello Stato moderno, è stata la sua capacità di rendere il martirio un atto obsoleto e insignificante. La burocratizzazione dell’esecuzione punta a questo fine. L’olocausto non sarebbe potuto avvenire in una comunità politicamente avanzata ma priva di una polizia e una burocrazia statale altamente preparate e disciplinate. Le remore morali di fronte all’eliminazione della popolazione eccedente furono spazzate via togliendo il progetto dalle mani dei prepotenti e dei teppisti e affidandolo invece ai burocrati.



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