recensioni e segnalazioni 1/2024
Federico Rampini
Suicidio Occidentale
Mondadori 2022
pp. 252 - euro 19,00
Se un attacco nel cuore dell’Europa ci ha colti impreparati è perché eravamo impegnati
nella nostra autodistruzione. Il disarmo strategico dell’Occidente era stato
preceduto per anni da uno di tipo culturale. L’ideologia dominante, quella che le
élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo,
ci impone di demolire ogni autostima, di colpevolizzarci, flagellarci, inducendoci
a credere di non avere più valori da proporre al mondo e alle nuove
generazioni, ma solo crimini da espiare. È il suicidio occidentale. L’aggressione di
Putin all’Ucraina, con un più o meno velato sostegno di Xi Jinping, è anche conseguenza
di questo: le nuove potenze imperiali sanno che ci sabotiamo da soli.
Sta già accadendo in America, culla di un esperimento estremo. Questo pamphlet
è una guida per esplorare il disastro in corso; è un avvertimento e un allarme. Gli
europei stentano ancora a capire tutti gli eccessi degli Stati Uniti, eppure il contagio
del Vecchio continente è già cominciato. Negli atenei domina una censura feroce
contro chi non aderisce al pensiero unico, e così si allunga la lista di personalità
silenziate e licenziate. Solo le minoranze hanno diritti da far valere; e nessun dovere.
L’ecologismo esasperato, religione neopagana del nostro tempo, demonizza
il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi per sottrarsi all’Apocalisse.
I giovani schiavizzati dai social sono manipolati dai miliardari del
capitalismo digitale. L’establishment radical chic si purifica con la catarsi del politicamente
corretto. È il modo per confinare nell’oblio le proprie responsabilità:
l’alleanza fra capitalismo finanziario e Big Tech pianificò una globalizzazione che
ha sventrato la classe operaia e impoverito il ceto medio, creando eserciti di decaduti.
Ora quel mondo impunito si allea con le élite intellettuali abbracciando la
crociata per le minoranze e per l’ambiente. La questione sociale viene cancellata.
Non ci sono più ingiustizie di massa nell’accesso alla ricchezza. C’è solo «un pianeta
da salvare» e un mosaico di identità etniche o sessuali da eccitare perché rivendichino
risarcimenti. In America, a Hollywood e tra le celebrities milionarie
dello sport, questo è il Vangelo delle multinazionali. In Europa il conformismo ha
il volto di Greta Thunberg e Carola Rackete. Le frange radicali non hanno bisogno
di un consenso di massa; hanno imparato a sedurre le forze egemoni, a fare incetta
di cattedre universitarie, a occupare i media. Possono imporre dall’alto un nuovo
sistema di valori. La maggioranza di noi subisce quel che sta accadendo: non abbiamo
acconsentito al suicidio.
Carlo Bordoni
Ethical Violence Polity Press 2024 pp. 176 - euro 19,90 di Alessandro Scarsella
Ethical Violence Polity Press 2024 pp. 176 - euro 19,90 di Alessandro Scarsella
Questo libro nasce dall’osservazione di una condizione di disagio collettivo
impensabile alla fine del secolo scorso e maturata nell’orbita di uno stato di
crisi che rasenta la cronicità e genera violenza. Si tratta di condotte anomale collegate a un’atmosfera
di diffusa sfiducia nella razionalità e nella scienza, che appaiono a prima vista isolate e
differenziate, come ad esempio il diritto alla difesa o l’esercizio della violenza legittima da parte
dello Stato, ma di cui poi si riscontra una continuità regolare, esprimendo così un principio di
omogeneità. Principio che Carlo Bordoni individua nella violenza etica, ossia giustificata, in cui
confluiscono tutti i casi di aggressività, le esternazioni arroganti nel linguaggio verbale e scritto,
le manifestazioni di irresponsabilità e indifferenza. Nulla di nuovo, forse, tranne la consapevolezza,
ragionevolezza e pianificazione: questa violenza si propone come forma di moralità ed è
perciò corroborata da giornalismo e propaganda politica. L’autore traccia la mappatura completa
e sofferta di una tendenza inquietante che sembra inarrestabile e descrive il fenomeno con obbiettività
sufficiente a evitare il giustificazionismo. L’inammissibilità della violenza etica, da non
confondere con quella morale, appare invece conseguenza della corretta applicazione di un sapere
scientifico e umanistico che, a ben vedere, stenta tuttora ad affermare la sua credibilità. Solo
alzando l’asticella delle conoscenze condivise si può infatti recuperare il controllo su una situazione
sfuggita di mano.
Manlio Graziano
Disordine mondiale
Mondadori 2024
pp. 228 - euro 18,50
di Norma Galiziano
Dalla fine della Guerra fredda, il mondo si è incamminato verso un crescente
stato di disordine. I sogni di pace e benessere degli anni successivi alla caduta
del Muro erano mal riposti: il momento “unipolare” di cui si alimentavano quelle illusioni
non è mai esistito e la “vittoria dell’Occidente” era solo una transizione verso altre inevitabili
contese. La ragione, spiega Manlio Graziano, sta nel fatto che i rapporti di forza geopolitici si
trasformano continuamente, e quella che ad alcuni poteva sembrare la «fine della Storia» era
solo l’inizio di una nuova pagina di una Storia. Quella caratterizzata dal declino relativo degli
Stati Uniti, dalla fine della loro “egemonia stabilizzatrice”. Il caos dilaga in modo direttamente
proporzionale alla crescente impotenza americana, e nessun altro attore sembra in grado di sostituire
la leadership di Washington senza alimentare, estendere e approfondire quel caos. Graziano,
professore di Geopolitica a Sciences Po e alla Sorbona, esplora il proliferare delle crisi
tracciando paralleli illuminanti tra l’attualità e momenti cruciali della modernità. Da Westfalia
(1648) al Congresso di Vienna (1815) e a Yalta (1945), i periodi di “ordine mondiale” (in realtà,
un “parziale ordine europeo”) sono stati resi possibili dalla totale distruzione di una delle parti
in lotta: la “pace” è sempre stata semplicemente l’ordine imposto dai vincitori agli sconfitti. Questa
è la ragione, conclude l’autore, per cui nessun “nuovo ordine mondiale” è oggi concepibile.
Franco Cardini
La deriva dell'Occidente
Laterza 2023
pp. 170 - euro 17,00
Sin dai tempi delle Guerre persiane, che tra il 499 e 479 a.C. videro contrapposte
le poleis greche guidate da Atene e Sparta e l’Impero persiano,
Oriente e Occidente sono fratelli coltelli, amici e nemici, sogno e incubo. «Oh, East is East, and
West is West, and never the twain shall meet… [Oh, l’Est è l’Est e l’Ovest è l’Ovest, e mai i due
si incontreranno]», scrive Rudyard Kipling nella sua poesia La ballata dell’Oriente e dell’Occidente,
pubblicata nel 1889, al tempo della fondazione dell’Impero britannico d’India. Sulla base
dei troppi malintesi generati dal loro confronto sono emersi anche “ismi” ideologici, tanto accaniti
tra loro quanto ambigui: orientalismo e occidentalismo, avvolti nel dilatare delle loro contraddizioni.
Già Oswald Spengler aveva decretato Il tramonto dell’Occidente; ma immediatamente,
dietro l’Occidente-Europa spengleriano, ne sorgeva un altro, quello statunitense, che dopo aver
soggiogato il Pacifico si apprestava a trangugiare anche l’Atlantico: Leviathan di terra e di mare
secondo la rara forza evocativa di Carl Schmitt, contrapposto all’altro mostro biblico Behemoth,
compatto Oriente tutto terragno. Ma intanto, altrove, dal Giappone alla Cina e all’India si andavano
profilando altri Occidenti, fondati su presupposti differenti da quello euroamericano e portatori
di altre “modernità”. Con la Guerra in Ucraina, la Russia viene definitivamente spostata
verso l’Asia ed esclusa dalla sua dimensione cristiana ed europea. Ma questa definizione di Occidente
ha senso o è soltanto utile oggi per ragioni strumentali?
Douglas Murray
Guerra all'Occidente
Guerini e Associati 2023
pp. 368 - euro 129,00
Dall'introduzione
Negli ultimi anni è diventato chiaro che c’è una guerra in corso: una guerra
all’Occidente. Non è una guerra come quelle del passato, in cui gli eserciti
si scontrano e le vittorie vengono proclamate a gran voce. E' una guerra culturale, e viene condotta
contro tutte le radici della tradizione occidentale e contro tutto ciò che di buono la tradizione
occidentale ha prodotto. All’inizio, è stato difficile riconoscerla. Molti di noi sentivano che qualcosa
non andava. Ci chiedevamo come mai si continuasse a portare avanti argomentazioni a
senso unico e a produrre affermazioni ingiuste. Ma non ci rendevamo conto della reale portata
di ciò che si stava tentando di fare. Soprattutto perché persino il linguaggio delle idee era corrotto.
Le parole non avevano più il significato che avevano avuto sino a poco tempo prima. Le persone
avevano iniziato a parlare di «uguaglianza», ma non sembravano interessarsi alla parità di diritti.
Parlavano di «antirazzismo», ma le loro proposte sembravano profondamente razziste. Parlavano
di «giustizia», ma sembravano intenderla come «vendetta». Solo negli ultimi anni, quando i frutti
di questo movimento sono venuti alla luce, la loro portata è diventata evidente. C’è un assalto
in corso contro tutto ciò che ha a che fare con il mondo occidentale: il suo passato, il suo presente
e il suo futuro. Una parte di questo fenomeno consiste nel fatto che siamo imprigionati in un
ciclo punitivo senza fine. Senza alcun vero tentativo (o addirittura interesse) di alleviamento.
Milan Kundera
Un Occidente prigioniero
Adelphi 2022
pp. 85 - euro 12,00
Nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Solženicyn sulla censura
nell’Urss, si tiene in Cecoslovacchia il IV Congresso dell’Unione degli
scrittori. Un congresso memorabile. Ad aprire i lavori, con un discorso di un’audacia limpida e
pacata, è Milan Kundera, allora già autore di successo. Se si guarda al destino della giovane nazione
ceca, e più in generale delle «piccole nazioni», appare evidente – dichiara Kundera – che
la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto
di qualsiasi interferenza da parte dei «vandali», gli ideologi del regime. La rottura fra scrittori e
potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti,
della letteratura, del cinema avesse accelerato il disfacimento della struttura politica. A questo
discorso, che segna un’epoca, si ricollega un intervento del 1983, destinato a «rimodellare la
mappa mentale dell’Europa» prima del 1989. Con una veemenza che il nitore argomentativo
non riesce a occultare, Kundera accusa l’Occidente di avere assistito inerte alla sparizione del
suo estremo lembo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa
appartengono a tutti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 hanno dato vita a grandiose
rivolte, sorrette dal «connubio di cultura e vita, creazione e popolo», non sono infatti agli occhi
dell’Occidente che una parte del blocco sovietico. Una «visione centroeuropea del mondo»,
quella qui proposta, che oggi appare ancora più preziosa e illuminante.
Umberto Galimberti
Il tramonto dell'Occidente
Feltrinelli 2017
pp. 752 - euro 9,99
«Il messaggio che scaturisce dalle loro analisi [di Martin Heidegger e Karl
Theodor Jaspers, entrambi filosofi tedeschi, il secondo con cittadinanza svizzera]
contiene l’indicazione di un possibile futuro». «Sta forse giungendo a compimento il senso
espresso dalla nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a
un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora
comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa finisce, oggi che l’Occidente è sulla via di occidentalizzare
il mondo e, quindi, di annullare la propria specificità che l’ha reso finora riconoscibile?
Finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo
sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica. Ma la tecnica non
ha alcun fine da raggiungere né alcuno scopo da realizzare, non apre scenari di salvezza, non
redime, non svela la verità, la tecnica “funziona” secondo quelle procedure che, pur nel loro rigore
e nella loro efficacia, si rivelano incapaci di promuovere un orizzonte di senso. E sulle ceneri
della categoria del “senso”, che dell’Occidente è sempre stata l’idea guida, si affacciano le figure
del nichilismo, le quali, nel proiettare le loro ombre sulla “terra della sera”, indicano, a ben guardare,
la direzione del tramonto. Un tramonto già iscritto nell’alba di quel giorno in cui l’Occidente
ha preso a interpretare sé stesso come cultura del dominio dell’uomo sulle cose».
Oswald Spengler
Il tramonto dell'Occidente
Longanesi 2008
pp. LXIII-1522 - euro 55,00
E' difficile trovare, nell’Europa degli anni Venti, un’opera che abbia avuto
peso e influenza culturale pari a questa immensa costruzione ideologica e
mitologica. Scrive Stefano Zecchi nella sua introduzione: «Tutto ciò che passa è soltanto un simbolo,
dice Spengler ricordando un verso del Faust, che ritorna come un leitmotiv wagneriano in
Il tramonto dell’Occidente. Ma anche, aggiunge, il movimento dell’esistere e del conoscere ha
un significato se ha un valore simbolico. Spengler riabilita così i concetti di Simbolo e Destino
che la cultura moderna ha deriso e avvilito, credendo di poterli sostituire con quelli di Segno e
Progresso, più funzionali alla filosofia analitica e al controllo tecnico-scientifico dell’esistenza.
Ma questo non significa che Il tramonto dell’Occidente possa essere letto come una tradizionale
reazione allo spirito dell’Illuminismo, anche se proprio a questa interpretazione deve il suo
grande successo. Una notorietà e una diffusione che però sono state il più delle volte il risultato
di un fraintendimento: il titolo è suggestivo ed evoca facili nostalgie, incoraggia formule rapide
con cui ingabbiare la sostanza del libro». A sua volta il «“tramonto” è un’immagine del simbolismo
cosmico che unisce gli uomini al movimento delle stelle e agli eventi della vita: il sole tramonta
e risorge, così una civiltà nasce e declina […]. Comprendere se la cultura occidentale è
al tramonto e quali sono le ragioni della decadenza, diventa la condizione necessaria per affidarsi
a un destino di declino e preparasi all’evento della rinascita».
Samuel P. Huntington
Lo scontro delle civiltà
Garzanti 2000
pp. 512 - euro 18,00
Da quando, nell’estate del 1993, Samuel Phillips Huntington pubblicò un
saggio sulla rivista «Foreign Affairs», le sue tesi sono al centro di tutte le discussioni
di politica internazionale. In questa più ampia e approfondita analisi, quelle ipotesi
vengono ulteriormente sviluppate affrontando anche i temi della proliferazione degli armamenti,
dello sviluppo demografico e dell’emigrazione, della democrazia e dei diritti umani. Per lo studioso
americano la Storia non è assolutamente finita con il crollo del comunismo. Oggi, conclusa
la Guerra fredda, gli esseri umani non si definiscono più in base all’ideologia o al sistema economico
in cui operano, ma cercano di costruire la loro identità in base alla propria lingua e religione,
alle proprie tradizioni e ai propri costumi. Di conseguenza, è in atto una riconfigurazione
geopolitica del globo secondo schemi culturali. Più precisamente, i «punti caldi» dello scacchiere
si trovano lungo le «linee di faglia» tra le civiltà del Pianeta. Negli ultimi anni questa tesi è stata
purtroppo e tragicamente confermata. In uno scenario multipolare, dove emergono con grande
evidenza l’aumento della popolazione nei Paesi musulmani e l’ascesa della Cina, come potranno
convivere universi così differenti? E quale può essere il ruolo dell’Occidente e dei suoi valori?
Attraverso un lucido e informatissimo panorama delle forze che governano le dinamiche internazionali,
Lo scontro delle civiltà offre uno strumento per capire il mondo in cui viviamo.