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editoriale 4/2022

Inaugurato a febbraio dai Giochi Olimpici Invernali di Pechino, il 2022 è stato un anno di sport, per l'Italia particolarmente ricco di successi agonistici che, sulla scia di quelli conseguiti nell'"estate d'oro" del 2021, hanno confermato il trend positivo nel settore. Degni di menzione sono, al riguardo: i trionfi ai Campionati europei di nuoto che hanno definitivamente consacrato il movimento azzurro, aggiudicatario di 67 medaglie su un totale di 225, quale eccellenza planetaria nella disciplina (seconda solo agli Stati Uniti); i tre ori e gli undici podi conseguiti dalla nostra rappresentativa agli Europei di atletica leggera; l'epica vittoria dell'Italvolley maschile del Campionato mondiale di pallavolo e, mentre andiamo in stampa, il primo bronzo di sempre al Mondiale di pallavolo femminile; il titolo iridato conquistato da Sofia Raffaeli ai Campionati mondiali di ginnastica ritmica; le strabilianti prestazioni ai Mondiali di ciclismo su pista di Filippo Ganna, record dell'ora e "miglior prestazione umana" nella disciplina, di Elia Viviani, oro (bis) nella prova a eliminazione, e del quartetto Guazzini-Consonni-Balsamo-Fidanza, oro nell'inseguimento a squadre donne.
Partendo da tali riflessioni, la Rivista, con questo quarto numero curato da Paolo Sellari, si propone di contribuire al dibattito sulla dimensione geopolitica dello sport, esplorando le implicazioni diplomatiche, economiche, etiche e sociali che, in maniera quasi connaturale, caratterizzano il fenomeno e la sua relazione con la società civile. Dopo un excursus storico–filologico sulla figura dell'atleta nel mondo antico, il focus entra nel vivo indagando il rapporto tra sport e politica, sempre formalmente negato sul piano istituzionale, sulla base di una pretesa neutralità della pratica sportiva rispetto a questioni attinenti l'interesse pubblico e la sicurezza nazionale, eppure palese laddove si analizzino le molteplici intersezioni tra i due ambiti avvenute soprattutto nell'ultimo secolo, indicative di un legame che, al di là della retorica, esiste da sempre e condiziona le dinamiche mondiali (Sbetti, Tranquillo). In questo senso, si può affermare che la storia delle competizioni sportive è la storia della contesa geopolitica, della rivendicazione identitaria e ideologica dei popoli e, in estrema sintesi, dell'umanità stessa. Emblematici, in merito: la finale del torneo maschile di pallacanestro disputata tra Usa e Urss nel corso dei Giochi Olimpici di Monaco 1972, il cui controverso esito – vittoria degli americani annullata, ripetizione degli ultimi tre secondi di gioco, quindi vittoria dei sovietici – accentuò ulteriormente, in piena Guerra fredda, lo scontro tra le due superpotenze (Cattaneo); lo scambio di visite, tra il 1971 e il 1972, tra giocatori di ping pong di Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, meglio noto come "diplomazia del ping pong", che ebbe una funzione decisiva nel processo di riavvicinamento sinoamericano post Secondo conflitto mondiale (Astarita); in tempi più recenti, la "diplomazia del cricket" tra India e Pakistan, che ha agevolato, in occasione d'interminabili partite, colloqui diplomatici e distensioni tra i rispettivi capi di Stato dopo le azioni terroristiche legate al conflitto per lo Jammu e Kashmir (Sellari), o la sconfitta della Cina per mano di Taiwan nel finale di doppio maschile di badminton alle Olimpiadi di Tokyo 2021, divenuta un simbolo di resistenza, fisica e metaforica, contro l'ingombrante vicino (Macioce). Quanto allo sport come emanazione di spinte identitarie, collettive e individuali, si pensi al caso di Israele, ove la fisicità e l'atletismo hanno contribuito a forgiare l'autocoscienza nazionale ebraica (Marconi); al lungo cammino di emancipazione delle donne dalla leadership maschile, snodatosi via via con le conquiste dell'universo femminile in campo sportivo (Miraglia); alla progressiva affermazione del "black power" contro la segregazione razziale, il cui momento culminante resta quello dei "pugni chiusi" alzati sul podio dagli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 (Buffa – Catozzi).
Altrettanto rilevante è poi il rapporto tra sport e mondo degli affari. Una commistione non sempre sinergica e sana, in alcuni casi persino strumentalizzata a vantaggio d'interessi criminali, come avvenuto per il calcio colombiano negli anni Ottanta (Pizzigoni), che più di recente ha assunto tratti patologici contestualmente al decadimento morale del mondo globalizzato. Scorrendo all'indietro le pagine della storia, una simile involuzione caratterizzò anche la società romana a partire dal II secolo a.C., ove il passaggio dai ludi, specialità atletiche con finalità esclusivamente belliche mutuate dalla tradizione greca – culla dello sport e dello spirito agonistico (Sensini) – ai certamina gladiatoria, con finalità ricreative per le masse, andò di pari passo con la decadenza culturale e sociale e la brama delle élite di arricchirsi e raccogliere consensi assecondando i desideri di un popolo indolente, povero di valori (Casale). Un paradigma, questo, purtroppo attualissimo, evidente nelle dinamiche che governano alcuni degli ambiti sportivi più sensibili in termini di investimenti e giro d'affari, non a caso divenuti terreno d'elezione di pratiche di soft power o, meglio dire, di sportwashing da parte di regimi autoritari. È il caso del mondo delle due e quattro ruote, dove alcuni Paesi fanalino di coda nel Democracy Index sono legittimati a ospitare un Gran Premio di Formula 1 nonostante la palese incompatibilità con le indicazioni di Onu e Parlamento europeo in materia di diritti umani (Longhi); è quanto avviene nel calcio, fatto sempre meno di valori tecnici e sempre più d'interessi finanziari, divenuto ormai copia carbone del perenne conflitto tra i Paesi del Golfo Persico, smaniosi di visibilità in Occidente e di nuove sfere d'influenza (Cucchi, Bellinazzo, Del Bò). A ben vedere, forse per le forti analogie con la geopolitica, in termini di concezione dello spazio e del territorio (Boria), il calcio è lo sport più sfruttato dalle trame del potere finanziario mondiale che, anche in questo ambito, non esita ad applicare i suoi spietati meccanismi, ad esempio replicando nei confronti del continente africano – bacino naturale di talenti cui i grandi club europei abitualmente attingono senza assicurare adeguati ritorni economici alla terra natia dei giocatori – vere e proprie forme di neocolonialismo (Repice). Una pericolosa deriva, quella fin qui tratteggiata, che è un chiaro sentore di una crisi etica, di fronte alla quale è forte la necessità di un ritorno alle origini che rivendichi un'idea di sport non negoziabile e (s)vendibile (Tranquillo) e la sua natura di pratica culturale ed educativa (Tintori – Cerbara).


Chiudono il volume: il ritratto a luci e ombre dell'ex colonnello della Stasi Rainer Wiegand (Falanga), la rubrica cinematografica (Battistini), sulle vicende che, nel 1947, portarono Jackie Robinson a essere il primo atleta di colore in una squadra della Major League di baseball, raccontate dal film 42 – La vera storia di una leggenda americana, e lo Humour Top Secret (Melanton).

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