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GNOSIS 2/2006
Dalla definizione al contrasto

Resistenza o terrorismo?
Il dilemma irrisolto


Aldo GIANNULI

Il processo di analisi segue un tracciato che inevitabimente impone un abbrivo teorico per giungere a conclusioni indispensabili per un corretto approccio operativo. L’approfondimento storico, ideologico e culturale crea le basi per individuare soluzioni e strategie. Questo articolo è una dimostrazione, appunto, di questo percorso. La validità del contributo, però, non si limita a questo aspetto, anzi esso è interessante soprattutto per la capacità di offrire uno scenario chiaro delle paradossali problematiche di natura sociologica e politica che il terrorismo fondamentalista è stato in grado di determinare. L’articolo spiega, con grande semplicità, le difficoltà che i governi occidentali incontrano in un conflitto che pone rischi enormi ma che non può essere definito “guerra”, se non in una accezione retorica, e che comunque non è percepito come tale dalle società che amministrano. Ma c’è di più. L’elaborato suggerisce di interpretare in modo adeguato le strategie fondamentaliste e di riconoscere in esse obiettivi di natura politica che impongono soluzioni che anzitutto abbiano la stessa matrice. Combattere il terrorismo solo sul campo della repressione non è sufficiente, non è auspicabile. E’ indispensabile creare “opinione”, offrire valori a cui aderire ed integrare certune istanze di natura socio-culturale. Questi obiettivi non competono al linguaggio delle armi e delle investigazioni ma a quello della politica e della programmazione.



da www.//news.bbc.co.uk/

Ricorrentemente si polemizza sulla qualifica da attribuire a fenomeni di guerra irregolare: se “resistenza” o “terrorismo” (puntualmente è accaduto anche per l’Irak). E’ singolare come, in circostanze così drammatiche, intellettuali, politici e militari amino perder tempo con polemiche così irrilevanti.
Come è noto a quanti si occupano professionalmente del tema, non esiste una definizione univoca del termine “terrorismo”. Si oscilla fra due ipotesi: per la prima il terrorista è il combattente illegittimo, in quanto soggetto non statuale, per la seconda il terrorista è chi faccia ricorso a particolari forme di lotta bandite dal diritto internazionale (ad esempio, la strage di civili) (1) .
Nel primo caso rientrerebbe nella definizione ogni combattente irregolare e non avrebbe senso distinguere fra terrorista, partigiano, insorto, resistente, rivoluzionario, guerrigliero, ecc.: una conclusione pericolosa, sia perchè questo travolgerebbe il “diritto di resistenza” contro un ordinamento ingiusto, che è alla base della democrazia (2) , sia, più praticamente, perchè non esiste Stato, partito o aggregazione politica che non sostenga (poco importa se strumentalmente o per ragioni etiche) una qualche lotta armata irregolare.
Nel secondo caso, occorrerebbe definire quali siano le forme di lotta bandite, con il rischio, da un lato, di includere anche degli eserciti regolari nel novero dei terroristi (3) , dall’altro di rendere problematica l’applicazione di tale definizione a molte organizzazioni armate irregolari (4) .
Una variante di questo tentativo è quella di sottolineare il carattere eminentemente psicologico di questa forma di conflitto, per cui il terrorista è chi punta più a demoralizzare, disorientare, terrorizzare - appunto - l’avversario che ad infliggergli danni materiali, ma anche in questo caso saremmo di fronte ad una definizione da un lato per eccesso (in quanto qualsiasi esercito regolare fa ricorso anche a queste forme di lotta), dall’altro per difetto (in quanto non esaustiva della fenomenologia delle guerre irregolari).
Questa difficoltà di giungere ad una definizione insieme chiara, univoca ed esaustiva del fenomeno è, in realtà, il riflesso di una operazione concettualmente sbagliata o fraudolenta: presentare come definizione scientifica quello che, invece, è una operazione politica, probabilmente lecita, ma comunque soggettiva ed opinabile.
Si rifletta su un dato: nessun combattente irregolare si è mai definito terrorista ma, di volta in volta, patriota, partigiano, rivoluzionario ecc., così come nessun potere sfidato ha mai concesso la qualifica di partigiano o simili ai suoi avversari, definendoli invariabilmente terroristi, banditi, briganti, criminali, ecc..
Sulla base di queste considerazioni, possiamo concludere che l’unica definizione realistica dei termini “terrorista” o “partigiano” è la seguente:
“terrorista è il combattente irregolare avversario, partigiano è il combattente irregolare alleato”.
Dunque, si tratta di mere considerazioni politiche (ancorchè trasferite in testi di natura giuridica come convenzioni internazionali o leggi penali), e più avanti ne vedremo la funzione pratica. Restando su un terreno avalutativo, parleremo piuttosto di guerra asimmetrica -o, se si preferisce, irregolare o non ortodossa (5) - che può manifestarsi in queste fattispecie spesso indebitamente accomunate nel termine “terrorismo”:
a) soggetto statale contro nemico interno (“terrorismo di Stato” o “guerra ai governati”: es. le Aaa durante la dittatura militare in Argentina fra il 1976 ed il 1982);
b) soggetto statale contro altro soggetto statale (“guerra coperta”: es. azioni di commandos o attentati in periodo di pace);
c) soggetto non statale contro nemico esterno (“terrorismo internazionale”: es. le azioni palestinesi contro obiettivi Usa);
d) soggetto non statale contro nemico interno (“insorgenza”: es. Br o Raf).
Naturalmente, si tratta di una distinzione solo astratta, sia perchè spesso si tratta di fenomeni reciproci (ad esempio l’ “insorgenza interna” e “guerra ai governati”) o ibridi (ad esempio l’appoggio di un Servizio di sicurezza ad una guerriglia che mescola l’insorgenza alle covert operation).
Noi vogliamo occuparci più specificamente delle tipologie che contrappongono un soggetto non sovrano ad uno titolare di sovranità (“insorgenza” o “terrorismo internazionale”). Il soggetto non sovrano tende, in un modo o nell’altro (conquista del potere interno, secessione di parte del territorio, conquista o ri-conquista dell’indipendenza di un paese occupato o colonizzato) a trasformarsi in soggetto sovrano a scapito del potere sfidato.
Non sempre il soggetto sfidante ne ha consapevolezza sin dall’inizio: a volte, punta ad ottenere obiettivi limitati (autonomia regionale, libertà di espressione, rilascio di prigionieri politici ecc.) (6) , ma nella maggior parte dei casi questa mutazione si produrrà e, spesso, proprio per effetto dell’impatto con l’antiterrorismo.
L’asimmetria del conflitto è data dalla diversa natura dei contendenti (sovrano l’uno, non sovrano l’altro) che implica una conseguenza sul piano militare: aerei, carri armati ed artiglieria pesante non sono occultabili e richiedono un territorio su cui si esercita il pieno controllo, quel che l’insorto non ha (7) , per cui egli non ha alcuna probabilità di vittoria in uno scontro in campo aperto ed è costretto alla clandestinità per avere qualche probabilità di vittoria (8) . Tutto questo produce un riflesso speculare: il soggetto sfidato è esposto ai colpi del nemico perchè gli obiettivi (caserme, sedi istituzionali, infrastrutture, impianti, uomini) sono immediatamente individuabili e - nella stragrande maggioranza dei casi - non occultabili, viceversa, l’irregolare non ha alcun obiettivo visibile, muove dall’ombra della clandestinità. L’invisibilità è l’arma strategica dello sfidante.
Pertanto, il soggetto sfidante cercherà di portare i suoi colpi dove l’antagonista è più vunerabile, secondo la logica del minore sforzo e del massimo risultato, così da provocarne il crollo psicologico, economico (9) o politico.
Infatti, il potere sfidato non può permettersi l’eccessivo prolungamento di una situazione simile:
- la domanda di sicurezza dei cittadini esige soddisfazione in tempi “politici” e non biblici; dopo un certo periodo, la prosecuzione degli attentati incrina il clima di unità nazionale, abbatte il consenso al governo e determina spinte a trovare “una via d’uscita purchè sia” (10) ;
- le misure eccezionali di limitazione delle libertà personali e collettive appaiono sempre meno giustificabili nel tempo, sia perchè una emergenza è tale se dura un periodo ragionevole, sia perchè se gli attentati proseguono vuol dire che sono inefficaci;
- il costo economico delle misure di protezione non può essere sostenuto in eterno;
- gli stessi apparati repressivi (esercito, polizia, Servizi) oltre un certo limite, possono subire diserzioni, insubordinazioni ed ammutinamenti o, all’opposto, orientarsi a prendere il potere direttamente, spodestando l’autorità politica ritenuta non in grado di far fronte alla situazione.
Come si vede, il tempo non lavora a favore dello sfidato ma dello sfidante che punta al logoramento. Per questo ogni governo sa che per domare l’insurrezione ha davanti a sè un periodo più o meno lungo ma non infinito.
Di qui la tendenza del potere sfidato a cercare il “colpo risolutivo” nel minor tempo possibile, mentre l’irregolare non ha il problema immediato della sconfitta dell’avversario, perchè sa che che ogni giorno di guerra in più è una vittoria. Di qui il “paradosso del guerrigliero” per il quale l’attaccato (il potere costituito) non può chiudersi in difesa ma deve andare all’attacco, mentre lo sfidante, applicando la tattica del “mordi e fuggi”, gode del vantaggio dell’iniziativa ed insieme di quello della difesa. Una situazione militare unica che riequilibra la sproporzione dei rispettivi armamenti.
Questa dinamica induce ad un diverso atteggiamento psicologico dei due contendenti che è l’asimmetria finale che contiene tutte le altre.
L’eversore pensa di star combattendo una guerra, per quanto irregolare, e ritiene di avere diritto ad essere considerato un combattente politico.


foto ansa

Al contrario, il potere sfidato pensa che si tratti di una azione criminale da trattare come tale, imponendo il rispetto delle sue leggi. Per il primo si tratta di una guerra, per il secondo di repressione del crimine: ogni conflitto di tipo terroristico contiene questa ineliminabile ambivalenza (11) .
Il potere sovrano non può accettare l’altro come justus hostis nè cercare un confronto politico, perchè questo apparirebbe come un riconoscimento dello jus ad bellum del suo avversario. In secondo luogo, questo potrebbe aprire la strada a sgraditi interventi internazionali. Infine, un atteggiamento “dialogante” potrebbe incoraggiare nuove sfide, in una spirale che terminerebbe con il collasso del potere costituito.
Stretto dal bisogno di chiudere rapidamente la partita senza far concessioni, il potere sfidato punta sulla sola soluzione repressiva: la rapida debellatio del nemico. Ma ciò mal si concilia con l’applicazione delle usuali procedure di polizia, soprattuto nel caso di organismi di qualche consistenza politico-militare.
Di qui l’esigenza di superare i limiti e gli impacci della giurisdizione ordinaria e la scelta di combattere una guerra che, però, non può chiamarsi tale.
Questo apre una serie di contraddizioni; innanzitutto il “terrorista” è un criminale del quale si riconoscono le motivazioni politiche e non di mero lucro personale, ma questo non costituisce nè una scriminante nè un’attenuante, ma, al contrario, una aggravante che inasprisce le pene e rende sommarie le procedure. Per il potere l’oppositore armato è solo un criminale da trattare come tale.
In secondo luogo, se non si tratta di guerra ma di repressione del crimine, non si comprende il motivo di leggi eccezionali e, viceversa, se la lotta al terrorismo è uno stato assimilabile a quello della guerra la responsabilità delle operazioni dovrebbe passare dalla polizia ai militari e dovrebbero essere applicati il codice penale e di procedura penale militare di guerra ma questo implicherrebbe sia delicati problemi sulla custodia dei prigionieri (12) , ecc., sia un pericoloso spostamento di potere dall’autorità politica ai militari.
Si sviluppa in questo modo “l’ideologia antiterrorista” che non coincide con la nozione di contrasto al terrorismo ma con una rappresentazione ideologica - appunto - di esso, basata su questi presupposti basilari:
a) per battere il “terrorismo” le misure repressive sono sufficienti e, comunque, prevalenti rispetto a quelle politiche che devono subordinarvisi;
b) pertanto l’autorità politica – che, il più delle volte, non sa che fare - delega la direzione della lotta al terrorismo agli apparati di sicurezza che, ovviamente, affrontano il problema sulla base della loro specifica cultura professionale;
c) la risposta legislativa si baserà sulla consueta ricetta: inasprimento delle pene, procedure sommarie, abbassamento della soglia di garanzia;
d) le forti contraddizioni che tutto ciò aprirà con la normativa internazionale (13) e costituzionale verranno sanate dalla categoria dell’ “emergenza”, un succedaneo edulcorato dell’antico “stato d’assedio”, per il quale si produce una normativa “eccezionale” proprio in grazia dell’ “eccezionalità” (e, dunque, temporaneità) della situazione.
Un mix che consente diversi successi iniziali, ma innesca un pericolosissimo congegno ad orologeria destinato ad esplodere una volta superata una certa soglia.
Vediamo perchè.
Da un punto di vista militare, il terrorismo rappresenta un problema di scarsa importanza, perchè la sproporzione delle forze assicura una facile vittoria una volta identificata la base avversaria.
Per questo il terrorismo rappresenta un problema soprattutto sul piano investigativo e viene combattuto con gli strumenti consueti (infiltrazione, pedinamenti, intercettazioni, controlli casuali, analisi dei testi, ecc.) ma prima o poi si affaccerà la tentazione di ricorrere ad un mezzo più sbrigativo: il ricorso alla tortura (14) .
In realtà, si tratta di un mezzo destinato a produrre risultati molto inferiori alle aspettative: è alto il pericolo di imbattersi in informazioni depistanti sia perchè volutamente fornite dall’avversario, sia perchè fornite da un prigioniero - magari ingiustamente sospettato di appartenenza alla guerriglia - che, pur di far cessare il tormento, dichiari tutto quello che l’interrogante voglia sentirsi dire, comprese invenzioni o voci raccolte in cella più o meno fondate.
Inoltre, occorre considerare che qualsiasi organizzazione “terrorista” applica criteri di forte compartimentazione, per cui, salvo il caso di dirigenti di alto livello, il bagaglio di conoscenze della gran maggioranza dei prigionieri sarà molto modesto. Va aggiunto che una parte dei torturati muore senza aver dato informazioni significative.
Ma il ricorso alla tortura ben presto assolverà ad un’altra funzione: ritorcere il terrore contro i “terroristi”. In questo modo l’antiterrorismo diviene un terrorismo di segno cambiato, all’insegna dell’ “occhio per occhio, dente per dente”. Come si ricorderà, recentemente, si è acceso un dibattito negli Usa sull’opportunità di legittimare giuridicamente l’uso della tortura, quel che sinora non ha prodotto alcuna misura legislativa in merito, ma che dimostra come certe iniziative non siano il frutto dell’iniziativa estemporanea di qualche sergente.
Tutto ciò considerato, il bilancio finale raramente sarà più che mediocre e, ben presto, il potere sfidato scoprirà di aver pagato quei modesti risultati ad un prezzo politicamente molto alto:
a) prima o poi filtrerà la notizia di casi di tortura e i “terroristi” ne ricaveranno un formidabile argomento di propaganda: l’opinione pubblica interna si dividerà fra quanti se ne indigneranno e quanti sosterranno l’opportunità di quelle pratiche, e questo segnerà una prima seria incrinatura nel consenso alla lotta al terrorismo;
b) inevitabilmente questo provocherà l’intervento degli organismi umanitari a livello internazionale, con il risultato di creare un’ondata di riprovazione nell’opinione pubblica internazionale (all’interno della quale i sostenitori della tortura saranno, presumibilmente assai di meno), inoltre questo consentirà ai terroristi di guadagnare tribune internazionali per esporre le proprie ragioni (organismi internazionali, televisioni, stampa) con conseguente indebolimento del loro isolamento;
c) in molti processi le prove così raggiunte diverranno inopponibili perchè raccolte contra legem e le conseguenti sentenze diverrano altrettanti boomerang per il potere costituito: se di assoluzione avranno un inevitabile riflesso delegittimante sulle forze di polizia e, indirettamente, sullo stesso governo, se di condanna, nonostante il comprovato uso della tortura, apriranno la porta a ricorsi in sede giurisdizionale internazionale e comprometteranno ulteriormente l’immagine del Paese all’estero, migliorando, simmetricamente, quella dei “terroristi”;
d) per quanto la normativa emergenzialista possa sforzarsi di legittimare l’uso di mezzi di coercizione ed una magistratura compiacente possa dare il suo contributo ad occultarli, ci sarà pur sempre una soglia oltre la quale il più amorale dei gruppi dirigenti non potrà andare (15) , per cui si produrranno sempre episodi il cui svelamento produrrebbe una fortissima delegittimazione del potere che vi faccia ricorso;
e) tutto questo produrrà un sensibile miglioramento della condizione degli irregolari che li spingerà a rafforzare la loro offensiva ed a ritorcere le stesse pratiche contro agenti di polizia o militari catturati, provocando - ove ve ne fosse bisogno - un ulteriore imbarbarimento del conflitto.
In definitiva, un pessimo affare per il potere sfidato: la violazione delle regole base della civiltà e dello stato di diritto non avviene mai a costo zero e chi se ne illude pagherà un conto più salato.
Sul piano politico, il potere sfidato solitamente reagisce all’interno con la demonizzazione dell’avversario presentato come nemico dell’intera comunità, allo scopo di:
- evitare che la propaganda avversaria possa far breccia in settori dell’opinione pubblica;
- ottenere la mobilitazione attiva della società civile in funzione antiterrorismo (dunque, non solo il consenso alle misure eccezionali, ma la denuncia dei sospetti, la segnalazione di eventi irregolari, ecc).
In questo senso l’”oscuramento” delle reali finalità politiche del nemico è una scelta voluta: il “terrorista” è per definizione “folle”, “barbaro”, “insensato”, dunque, privo di razionalità politica. Ed il guaio peggiore è che il potere sfidato finisce per convincersene diventando la prima vittima della sua stessa propaganda.
Sul piano internazionale, il potere sfidato reagisce cercando di inibire eventuali appoggi di altri Stati al proprio nemico denunciando agli organismi internazionali la condotta di coloro che li aiutino. In qualche caso, lo Stato in questione reagisce simmetricamente: appoggiando (o minacciando di appoggiare) l’eventuale eversione interna dello Stato ostile (16) .
In questo quadro di azione politica internazionale va inserito anche lo sforzo per giungere a Convenzioni internazionali contro il terrorismo che, tuttavia, sono di fatto uno strumento a disposizione dei soli paesi con maggiore influenza internazionale.
Ma, come si vede, anche in questo caso, l’azione politica è impiegata in funzione servente rispetto a quella repressiva.
L’ideal-tipo dell’antiterrorismo è quello di una operazione chirurgica che estirpa una cisti dal corpo sano della società.
In questo modo si ottiene la massima tensione degli apparati repressivi, ma si rinuncia a sfruttare gli elementi di debolezza politica dell’avversario.
La guerra al terrorismo diventa rapidamente “totale” per l’annientamento dell’avversario che perciò stesso si radicalizza.
Il danno maggiore di questa scelta è la graduale perdita di contatto con la psicologia dell’antagonista (e in un conflitto di questo tipo riuscire ad immedesimarsi nel modo di pensare dell’avversario è di fondamentale importanza) e, di solito, è assai difficile battere un avversario che non si comprende (17) .
L’ideologia dell’antiterrorismo, nella maggior parte dei casi, produce una sorta di partita a scacchi a mosse obbligate al termine della quale il più delle volte (ma non sempre) c’è la sconfitta dello sfidante ma a prezzi umani, politici ed economici assolutamente spropositati:
- spesso questa soluzione produrrà il contrario di quel che cerca: un allungamento del conflitto anzichè una sua abbreviazione;
- di conseguenza questo produrrà molte più vittime;
- ed anche un sensibile aumento dei costi economici che, talvolta, porteranno al collasso della moneta (18) ;
- la delega agli apparati repressivi comporterà anche una modifica a loro favore dei rapporti di potere con l’autorità politica (19) ;
- molti elementi della legislazione dell’emergenza non saranno affatto rimossi con la fine della ragione che l’ha prodotta, diventando elementi permanenti dell’ordinamento penale, con conseguenze spesso imprevedibili (20) .
Dunque, cosa fare contro il terrorismo? Innanzitutto liberarsi della “ideologia dell’antiterrorismo” e capovolgere i termini della questione.
L’ideologia antiterrorista individua il suo nemico in un criminale che ha delle motivazioni politiche. Al contrario, occorre partire dalla constatazione che il “terrorista” è un soggetto politico che fa ricorso a metodi penalmente sanzionati.
Questo, ovviamente, non significa rinunciare all’aspetto repressivo (comunque inevitabile) nè scegliere necessariamente la linea della trattativa (21) o, tantomeno, della resa, ma, affrontare lo scontro subordinando l’aspetto repressivo a quello politico.
La politica può fornire gli strumenti per penetrare e dividere l’avversario, privarlo di alleati, scoraggiarlo ed indurlo ad abbandonare il conflitto armato. La partita non si chiude con l’uccisione o la cattura dell’ultimo “terrorista” (22) , ma quando i “terroristi” hanno la netta percezione dell’impraticabilità del proprio obiettivo. Un nucleo di irriducibili resterà sempre - e questo costituirà effettivamente un problema di polizia - ma il movimento entrerà in crisi, si manifesteranno forti tendenze alla dissociazione, si produrranno scissioni ed abbandoni individuali.


foto ansa

Dunque, assolutamente basilare è l’identificazione del reale obiettivo strategico dello sfidante che, frequentemente, non coincide affatto con quello dichiarato ed, in qualche caso, c’entra assai poco con esso. In secondo luogo, occorre capire attraverso quali passaggi tattici egli mediti di conseguirlo. In entrambi i casi la raccolta informativa sarà essenziale ma ancor più importante sarà l’analisi politica: sapere dove si nasconde un quadro intermedio dell’avversario o da dove il gruppo si rifornisca di armi è importante, ma ancora di più è capire quale sia lo spettro di posizioni politiche presente nel suo gruppo dirigente, quale siano le vere scelte tattiche, quali i meccanismi di formazione della linea politica, ecc..
Ottenuto un buon disegno dell’avversario, si potrà, di volta in volta, articolare una linea di contrasto che utilizzi sia l’azione repressiva (23) che l’offensiva diplomatica, l’utilizzazione di aree intermedie come “diga” contro l’espandersi del fenomeno, riforme tese a migliorare la condizione del gruppo sociale o nazionale su cui l’avversario fa leva - così da ridurne il consenso -. Fondamentale è comprendere le “ragioni forti” dell’avversario: farsene un ritratto caricaturale e svilirne le ragioni più profonde è sempre sbagliato e controproducente. L’emergere di una guerra irregolare è sempre il sintomo di un malessere politico e sociale che va individuato. Usciamo dalle astrattezze e veniamo al caso dell’iperterrorismo islamico.
Partiamo da alcune evidenze che sono sotto gli occhi di tutti, per le quali il mondo islamico:
a) rappresenta più di un quinto della popolazione mondiale, un potenziale militare fra i maggiori del mondo, un peso pari a circa il 9% della finanza mondiale e controlla la parte più rilevante della produzione petrolifera, ma, essendo frammentato in una trentina di stati - nessuno deiquali in grado di assumere la leadership dell’area - gode di uno scarsissimo peso sulla scena internazionale: non dispone di alcun membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha un peso irrilevante nel Fmi, conta poco e nulla nella Nato, ha una posizione marginale in tutti gli organismi internazionali, non partecipa alle riunioni del G8 neppure come invitato (24) - e tutto questo è fonte di esasperate frustrazioni;
b) è la parte di mondo che mostra maggiori problemi di adattamento al processo di modernizzazione e secolarizzazione: in nessuna altra parte il rapporto fra politica e religione è così stretto e condizionante, e in nessuna altra parte del mondo si manifestano insieme resistenze così decise all’industrializzazione ed alla democratizzazione (25) ;
c) è quello più investito attualmente da conflitti interni ed esterni: delle attuali guerre e guerriglie in atto, circa l’80% vede coinvolto almeno un Paese o un movimento islamico;
d) sta attraversando una fase di intensa mobilitazione interna, in parte per la pressione demografica più accentuata che altrove, in parte per i proventi dell’estrazione del petrolio, mai così lauti, ma di cui si avverte la fine vicina, anche se non imminente.
Il senso di frustrazione, unito all’intensa mobilitazione sta producendo la nascita di un’area transnazionale (al cui centro sembrano esserci i Fratelli Musulmani) che pone la sua candidatura alla guida del mondo islamico: una traduzione politica (26) della umma o, se si preferisce, una rivisitazione “moderna” del califfato. In questo tentativo, l’ala transazionale islamista trova il suo principale nemico, prima e più ancora che nel’Occidente, nelle classi dirigenti nazionali che, ovviamente, non hanno alcuna intenzione di cedere il loro potere ai nuovi arrivati (27) . D’altra parte l’islamismo ha conquistato forti consensi fra i ceti popolari (ed i suoi recenti successi elettorali in Egitto e Palestina lo confermano pienamente) ed anche all’interno dell’establishment (28) per cui le classi politiche nazionali evitano un confronto diretto e troppo irrecuperabile, preferendo cavalcare l’ondata attraverso comportamenti ondivaghi ed ambigui (29) .
Ne consegue una sorta di “guerra asimmetrica a tre”:
- Occidente contro fondamentalisti;
- fondamentalisti contro regimi nazionali;
- regimi nazionali in regime di collaborazione-competizione con l’Occidente.
Qualcosa che ha insieme i caratteri della guerra coperta, di una guerra civile e del terrorismo internazionale.
E’ questo il contesto nel quale dobbiamo leggere il fenomeno del cd. “terrorismo fondamentalista islamico” che non è solo Al Qaeda ma anche una galassia di gruppi minori più o meno ispirati dalla centrale di bin Laden, ma dotati di una accentuata autonomia operativa.


da www.adnki.com

Questa guerra irregolare (definita da alcuni “iperterrorismo”) presenta per di più tre peculiarità sin qui inedite:
a) ha caratteri di forte transnazionalità;
b) gode di forti appoggi all’interno di pezzi di apparati statali e classi dirigenti dei vari paesi (30) ;
c) supera l’abituale distinzione fra soggetti dotati di armi pesanti e soggetti dotati di sole armi leggere, perchè fa ricorso a tecniche di lotta (si pensi all’11 settembre) che vanno abbondantemente al di là di questa soglia e, si teme, possano essere in possesso di armi di distruzione di massa.
Dunque, un terrorismo transnazionale, transtatale e ineditamente aggressivo sul piano militare.
A cinque anni dal’inizio della “guerra al terrorismo” abbiamo un bilancio in cui le “luci” (il fatto che non si sia ripetuto alcun attentato della gravità dell’11 settembre; lo smantellamento della base afgha-na (31) , occasionali arresti di gruppi armati in Europa) sono di gran lunga soverchiate dalle "ombre": nè bin Laden nè alcun altro dirigente di primo piano di Al Qaeda è stato catturato, attentati di minore gravità, ma pur sempre assai pesanti, si sono verificati a Bali, Londra, Madrid, Ankara, Sharm el Sheik, l’azione di penetrazione in Al Qaeda non ha dato risultati eccezionali (32) e della guerra civile in Irak non diciamo neppure.
Da tutto ciò conseguono una serie di deduzioni:
a) siamo di fronte ad uno scenario di complessità senza precedenti con una elevatissima quantità di variabili interdipendenti che pongono numerosi interrogativi. Che effetto ha l’aumento del prezzo del petrolio sul terrorismo? Che ripercussioni in Arabia Saudita avrebbe un nuovo conflitto con l’Iran? Che effetto ha la vittoria di Hamas sugli equilibri mediorientali: se dovesse esplodere un nuovo conflitto con Israele, quali atteggiamenti assumerebbero gli altri paesi arabi? E così via in un intreccio sempre più fitto di cause ed effetti interdipendenti. Questo esige un adeguamento delle nostre capacità di analisi e degli stumenti di supporto al livello della complessità dei problemi da affrontare;
b) il problema del fondamentalismo islamico va molto al di là del "terrorismo" e questo non si esaurisce certo nella sola Al Qaeda, per cui, se anche l’Occidente riuscisse a catturare e distruggere l’intero gruppo dirigente riunito intorno a bin Laden - pur cogliendo un grande successo - probabilmente questo non significherebbe automaticamente nè la fine del "terrorismo" nè, tantomeno, quella del fondamentalismo;
c) dunque, pur senza abbandonare il terreno del contrasto al "terrorismo", la partita troverà una soluzione solo sul piano di uno stabile inserimento del mondo islamico nel nuovo ordine mondiale e questo non ha che due possibili esiti: o il conflitto generalizzato con il mondo islamico, secondo il modello del "conflitto di civiltà" (33) , o individuando una qualche rappresentanza del mondo islamico da associare nel contesto decisionale internazionale. E le soluzioni in questo senso potrebbero essere diverse: aiutare qualche Paese ad assumere un ruolo di leadership, puntanto sul ruolo della Lega Araba o del Consiglio islamico, al limite individuando nella stessa fratellanza musulmana l’interlocutore di una trattativa, magari contribuendo alla formazione di un progetto di unificazione alternativo ad esso ma ugualmente transnazionale.
Le ipotesi possono essere molte e non è il caso di affrontarle qui, ma questo richiederebbe che Europa e Stati Uniti avessero una linea politica chiara sul come integrare il mondo islamico nel nuovo ordine mondiale.
Ma questa linea esiste? A giudicare dalla conduzione di crisi come quella irakena e palestinese non sembrerebbe affatto.

Bibliografia
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(1) Si confrontino V. Pisano 1997 pp. 15-18; R. De Luca 2002 p. 17; G. Pontara in L. Bonanate 1979 pp. 35-6; H. Hess 1991 p. 5 e segg.; L. Bonanate 2004; M. Fossati 2003 p. 4 e segg.; W. Laqueur 2002 p. 17 e segg; J. L. Marret 2000 p. 5; P. MannoniI 2004 pp. 43-4.
(2) Tutte le democrazie moderne sono nate da rivoluzioni contro il potere costituito: applicando questo criterio dovremmo definire terrorista anche George Washington.
(3) Ad esempio i bombardamenti contro le città nemiche, con l’esplicito intento di colpire la popolazione civile e provocarne il collasso psicologico, rientrerebbero a pieno diritto in questa classificazione (ricordiamo Dresda ed Hiroshima).
(4) Ad esempio, le Brigate Rosse difficilmente potrebbero essere definite terroriste, non avendo mai fatto stragi indiscriminate ma agguati, attentati, rapimenti, cioè azioni tipiche di qualsiasi forma di guerra dietro le linee, condotta tanto da formazioni partigiane quanto da commandos di eserciti regolari.
(5) Noi preferiamo guerra asimmetrica, sia perchè aderisce meglio alla dinamica che ci accingiamo a descrivere, sia perchè gli altri due termini, e quello di "guerra non ortodossa" in particolare, lasciano pensare che si tratti sempre di una forma di guerra coperta da parte di qualche Stato, mentre il cd. "terrorismo" può benissimo manifestarsi come fenomeno privo di uno "Stato di riferimento".
(6) E’ il caso di alcuni separatismi come quello altoatesino o irlandese che non avevano in mente la proclamazione di uno Stato indipendente ma semplicemente il passaggio di alcune province da uno Stato ad un altro.
(7) Va considerato a parte il caso di guerriglieri che dispongano di "territori liberati" (in regioni montuose o foreste) dove, talvolta, possono munirsi di una dotazione di armi pesanti. In questi casi il soggetto irregolare è già diventato "semi sovrano" (nel senso che esercita un potere di fatto su parte del territorio) e la guerra tende a spostarsi sul piano del conflitto regolare come confronto fra due eserciti di forza, se non pari, comparabili, dunque lo stadio della guerra irregolare è superato.
(8) Secondo C. Galli 2002 p.63, l’asimmetria del conflitto si pone come difformità sia sul piano dei valori che su quello degli armamenti e dello status. A chi scrive queste note non sembra che la disparità di valori sia un elemento necessario in questo genere di conflitti.
(9) E’ questo uno dei punti più delicati del potere sfidato. Infatti, l’esigenza di proteggere un gran numero di obiettivi potenziali impone misure militari eccezionali che, ovviamente, hanno un costo assai elevato. Tutto ciò levita la spesa pubblica e spesso determina dinamiche inflattive incontrollabili. Questa, ad esempio, è stata la dinamica che ha portato alla sconfitta i francesi in Algeria.
(10) E questo è ancora più vero nel caso di occupazioni militari di altri paesi.
(11) Questa è la tesi centrale di Paul Gilbert (1997 ) che coglie, in questo modo, uno degli aspetti decisivi del fenomeno, pur senza trarne tutte le conseguenze.
(12) Ad esempio sgraditissime ispezioni della Croce Rossa Internazionale sull’osservanza delle norme sui prigionieri di guerra.
(13) A cominciare dalla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo.
(14) Chi scrive queste righe nutre una pregiudiziale etica assoluta contro l’uso della tortura che non prevede alcuna eccezione, neppure quella eternamente addotta di "risparmiare vite umane". D’altra parte esistono convenzioni internazionali e normative nazionali che fanno esplicito e totale divieto di tale pratica. Tuttavia, questa non ci sembra la sede per siluppare questo genere di argomentazione, per cui preferiamo restare su un diverso piano di trattazione della materia.
(15) Un sistema molto efficace per raccogliere informazioni è quello di puntare una pistola alla tempia di un bambino di sei anni e chiedere ai genitori se preferiscono collaborare o veder massacrare il bambino. Però: alzi la mano chi si sente di giustificare - magari per via normativa - un comportamento del genere.
(16) E’, per esempio, quanto è regolarmente accaduto fra turchi e irakeni a proprosito della guerriglia curda.
(17) Sintomatica di questa scarsa capacità della classe politica di comprendere il "terrorismo" ed affrontarlo è la lunga serie di errori e gaffes degli uomini politici in tema: da Bush che subito dopo l’11 settembre, propone agli stati islamici una "crociata" contro il terrorismo (sinchè qualche suo consigliere gli fa sapere che gli islamici non hanno un concetto granchè positivo delle crociate) ad Aznar che, nei primi minuti dopo Atocha, dichiara che si tratta di opera dell’Eta, senza capire che un gesto simile era così lontano dalla logica politica dell’Eta da non potere essere preso in considerazione neppure come depistaggio. Anche Blair, con le sue recenti misure antiterrorismo sembra stia facendo esattamente il contrario di quel che servirebbe: dall’oscuramento dei siti che, invece, dovrebbero essere studiati sin nelle virgole dai Servizi, alla chiusura delle moschee radicali che, al contrario, dovrebbero restare aperte per identificare e sorvegliare il bacino potenziale di reclutamento del terrorismo islamico.
(18) E’ il caso francese nel quale le spese per la guerra di Indocina prima e di Algeria dopo costituirono la principale ragione dell’ondata di iperinflazione, alla fine della quale si rese necessario cambiare la moneta.
(19) Ad esempio, nel caso italiano, questo spostamento nei rapporti di forza ha premiato essenzialmente la magistratura ed, in particolare, la sua parte inquirente. Il "giudice con l’elmetto" chiamato a "combattere il terrorismo" in violazione di ogni principio di terzietà- aveva scoperto un ruolo autonomo.
(20) Sempre per restare al caso italiano, segnaliamo come diversi istituti dell’ "emergenza" antiterrorismo (per tutti la legislazione premiale per i collaboratori di giustizia) sono poi restati nell’ordinamento, così come vi si sono radicati certi orientamenti giurisprudenziali, come la dilatazione oltre ogni limite del reato associativo, per cui la semplice appartenenza ad una organizzazione terroristica rendeva responsabili di ogni sua azione delittuosa, salvo prova contraria. L’una e l’altra cosa sono poi state ampiamente usate dalla magistratura inquirente, nella stagione di "Mani Pulite", per colpire quella stessa classe politica che aveva contribuito ad originarli ("Non poteva non sapere" reciteranno molti rinvii a giudizio in piena sintonia con quella dilatazione del reato associativo di cui dicevamo).
(21) Che è solo una delle possibili scelte politiche a disposizione e non sempre è la più auspicabile.
(22) Pensare di battere il "terrorismo" colpendo uno per uno i suoi uomini è illusorio come pensare di sterminare le zanzare di una palude armati di spry e schiacciamosche.
(23) Di cui è bene non abusare mai: Guantanamo non è una misura dura ma efficace, ma una brutale stupidità ed una dimostrazione di debolezza politica.
(24) Nel luglio scorso, a Londra, oltre agli otto membri effettivi erano presenti anche Cina, India, Brasile e Sudafrica, ma non era presente nessun Paese islamico. Gli islamici, peraltro, hanno trovato un altro modo per imporre la propria presenza.
(25) Ad esempio, la Cina manifesta, sin qui, una totale impermeabilità al processo di democratizzazione ma sta attraversando una fase di intensa industrializzazione.
(26) E forse politico-statuale.
(27) A parte va considerato il caso dell’Iran che cerca, semmai, di porre la sua candidatura come Paese guida in modo probabilmente concorrenziale.
(28) Sono evidenti i segni della penetrazione islamista nelle classi colte, nella finanza islamica (anche in Occidente) in settori di Servizi di sicurezza, ed anche nell’esercito di diversi paesi. Forse anche in qualche famiglia reale.
(29) Riesce difficile immaginare che le recenti manifestazioni per la storia delle vignette danesi non abbiano goduto, in molte situazioni, di qualche tolleranza o addirittura compiacenza dei governi locali.
(30) In questo senso, le facili assimilazioni di bin Laden a Mazzini o Che Guevara dimostrano quanto poco si sia capito del fenomeno: Al Qaeda non sono le Brigate Rosse che parlano in arabo, ma, semmai, la P2 che si vede alla moschea.
(31) Ma a prezzo di una guerra con costi immani e politici troppo pesanti.
(32) Nessuno pensa che i Servizi di sicurezza debbano riferire pubblicamente quali siano i loro successi nella attività di penetrazione dell’avversario, ma se per mesi ci si chiede se bin Laden sia ancora vivo o meno e si sta a ragionare sul perchè i periodici messaggi sono registrati da altro dirigente che compare con "una fascia nera sul turbante", vuol dire che, dopo cinque anni, siamo più o meno al punto di partenza.
(33) Uno sbocco orribile che però non sarà evitato se l’Occidente, e l’Europa in particolare, si limiterà alle dichiarazioni rituali sulla non inevitabilità di questo sbocco e sulla differenza fra l’Islam moderato e Islam radicale, senza che a questo faccia seguito una qualche azione politica conseguente.

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