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GNOSIS 2/2006
Il Forum

Rispondono: Khaled Fouad ALLAM - Lucia ANNUNZIATA - Lucio CARACCIOLO - Renzo GUOLO - Carlo PANELLA

FORUM:
La vittoria di Hamas:
conseguenze e prospettive



A diversi mesi dalla vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi, si continua a riflettere su un evento che, come accade spesso in questi tempi convulsi ma significativi per il nostro futuro, ha una portata tale da far coincidere il presente che si vive con la storia che si leggerà. Dopo le prime reazioni “rigide” alla prospettiva della gestione, da parte di un gruppo che ha fatto del terrorismo il suo principale strumento di azione, di un’area piccolissima, povera ma fondamentale per gli equilibri geopolitici mondiali, traspare oggi un atteggiamento forse più ottimista e analisi che cercano di individuare con estrema curiosità le dinamiche che accompagneranno l’inevitabile adeguamento di questa organizzazione verso le responsabilità politiche cui si è voluta prestare, responsabilità che potrebbero essere la chiave per far evolvere la violenza a dibattito. Gli scenari da individuare, possibili e probabili, sono dunque molteplici.


Khaled Fouad ALLAM
Lucia ANNUNZIATA
Lucio CARACCIOLO
Renzo GUOLO
Carlo PANELLA


D. La vittoria di Hamas nelle elezioni Palestinesi, pur se ipotizzata dai più attenti osservatori dello scacchiere mediorentale, ha rappresentato un vero e proprio shock per i governi occidentali legati all’idea di considerare Al Fatah unico interlocutore politico concepibile. Quali sono state le cause che hanno determinato questo risultato elettorale?

Lucio Caracciolo - La vittoria di Hamas è il frutto della corruzione e dell'inefficienza dell'Autorità Nazionale Palestinese e di Al Fatah, finora dominate dalla vecchia guardia (da Arafat a Abu Mazen). E' una sconfitta della leadership palestinese formatasi nell'esilio, che ha portato la causa nazionale nel vicolo cieco attuale, mentre la popolazione soffre di una disastrosa situazione economica - accentuata dalla costruzione del muro israeliano - e della mancanza di prospettive visibili. Hamas è un'organizzazione che si richiama al fondamentalismo dei Fratelli Musulmani, ma ha saputo coagulare il voto di tutti coloro - anche laici - che non ne potevano più del vecchio "governo". Il risultato non è quindi solo un successo dell'ala più radicale dell'Islam palestinese, che deve tenere conto della pluralità di impulsi e di motivazioni che hanno portato al risultato elettorale. Spetta anche a noi favorire l'emergere delle correnti pragmatiche nel nuovo governo.

Carlo Panella - Lo stupore generale per la vittoria di Hamas è uno dei tanti sintomi della totale incomprensione della natura del conflitto israelo palestinese. Esperti, politici, media e intellettuali hanno sempre pensato che fosse un conflitto "per la terra" nazionalista. Ma non è mai stato così, non è mai stato solo così. Il nazionalismo è ovviamente centrale, ma sin dal 1920, sin dalla leadership del Gran Muftì, un "a priori" religioso e fondamenatlista islamico ha impedito ogni trattativa, ogni soluzione politica. Le stesse ambiguità della leadership di Arafat si comprendono solo alla luce di questa dinamica. La componente nazionalista è sempre stata minoritaria nelle élites e nel popolo palestinese a fronte di una componente fondamentalista maggioritaria, che rifiuta la logica della "terra contro pace" e che considera la terra di Palestina - tutta, comprendendovi Israele- inalienabile per ragioni religiose. Credo quindi che il fallimento di Al Fatah fosse già evidente nel 2000 a Camp David, con la sciagurata decisione di Arafat di rifiutare la terra e di lanciare la "Intifada delle stragi", che ha posto la parte giovane e trainante del suo movimento "le Brigate dei Martiri di al Aqsa" sotto la piena egemonia ideologica del fondamentalismo di Hamas. L'altra parte di Al Fatah, vedi il caso scabroso della sua agonia e della trattativa a suin di milioni di dollari tra Abu Mazen e sua moglie Shua, è divisa tra una componente nazionalista e una banda di mafiosi (sempre favorita da Arafat), tanto che in Palestina si parla da anni liberamente di "Mafia di Al Fatah". Ma la causa principale della sconfitta non è stata nel rifiuto di questa Mafia, ma nella sua inadeguatezza strategica. Arafat è sempre stato un pendolo tra le due anime, nazionalista e totalitaria, morto lui le loro tensioni erano destinate alla frattura. Il panarabismo di Al Fatah è sempre stato privo di spessore ideologico - tranne qualche venatura di antimperialismo soviettista - la sostanza è sempre stata islamista e per nulla laica (altro grave errore di analisi). Da qui la vittoria di Hamas, ennesima scelta sciagurata tra le cento del popolo palestinese. D'altronde, se il problema fosse stata solo la corruzione, i palestinesi avevano altre tre liste (oltranziste, o moderate) su cui convergere: quella nazionalista di Hsnan Asrawi e Sayyed Feysal, quella di Mustafa Barghuti, i due Fronti popolari. Ma tutte e tre assieme hanno preso solo il 10% dei voti. Segno che l'elettorato ha scelto Hamas non per esclusione ma, - ahimé - per condivisione dei programmi.

Renzo Guolo - Le cause sono diverse: la diffusa corruzione del ceto politico e amministrativo di Fatah; l'ondeggiante linea nei confronti di Israele seguita negli anni della seconda Intifada: ritenuta da alcuni settori della società palestinese troppo morbida ma che, allo stesso tempo, ha visto gli israeliani rispondere con durezza, mettendo fuori gioco le stesse infrastrutture dell'Anp e rendendo difficile l'autogoverno. Dopo la morte di Arafat, Fatah ha imbocato la strada del negoziato ma nel frattempo le tensioni interne al movimento sono deflagrate senza che Abu Mazen potesse tenerle sotto controllo. La politica del governo Sharon non ha poi favorito il rafforzamento della leadership laica palestinese. Persino l'evacuazione della Striscia, compiuta con un gesto unilaterale, ha reso evidente l'impotenza dell'Anp. Infine, non è riuscito il tentativo di ribaltare la leadership "tunisina" da parte della "giovane guardia" legata a Marwan Barghuti, vanificando così ogni speranza di mutamento. A sua volta Hamas è apparsa, agli occhi di molti, l'unica forza in grado di costringere Israele al ritiro dai Territori; così è stata percepita anche la decisione di Sharon di abbandonare Gaza. Hamas ha poi saputo soddisfare la domanda di servizi sociali essenziali di una popolazione largamente provata dagli ultimi anni di conflitto. Attraverso il suo welfare religioso, finanziato dalla raccolta della zakat e da ricche donazioni private, Hamas ha messo a disposizione dei palestinesi scuole, ospedali, mense per i poveri, assistenza ai bisognosi. I suoi uomini, ispirati da una forte etica religiosa, sono apparsi, ai più, come incorruttibili. Il voto appare, comunque, più che un esplicito consenso alle posizioni ideologiche di Hamas sullo Stato di Israele,la presa d'atto del fallimento della vecchia classe dirigente di Fatah.

Khaled Fouad Allam - La vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi ha sorpreso molti tra gli osservatori occidentali; ma gli esperti che si occupano di islam radicale e di neofondamentalismo sapevano bene come, dopo la prima intifada, la società palestinese avesse subìto un processo di reislamizzazione. Quanto è avvenuto è dunque il prodotto di un fenomeno più vasto, di cui già alla fine degli anni '80 si poteva scorgere un'avvisaglia con la vittoria di movimenti legati al fondamentalismo islamico all'università di Bir Zeit, vittora che ha rappresentato il primo scacco ad Al-Fatah. Ciò che è accaduto in seguito, vale a dire la crescita esponenziale del movimento Hamas - un acronimo che corrisponde al termine arabo per "zelo" - si sviluppa parallelamente a una lenta deriva del nazionalismo arabo e al crescere della corruzione nella nomenklatura legata prima all'OLP e poi ad Al-Fatah. Il connubio di questi due elementi ha provocato un'accelerazione nel processo di reislamizzaione della società palestinese. Hamas ha spesso sostituito, come in altri casi nel mondo arabo, la negligenza di Al-Fatah nel venire in aiuto alla sua società; e dallo scontento di gran parte della popolazione palestinese ne ha tratto vantaggio il giorno delle elezioni. Hamas con le sue associazioni caritative, gli apparati scolastici, i dispensari e le banche è riuscita a creare una società nella società. Due elementi risultano dunque evidenti per capire la genesi di questo fenomeno: la lenta reislamizzazione della società palestinese e, parallelamente al declino di Al-Fatah, il suo ristrutturarsi, canalizzata da Hamas.

Lucia Annunziata - Si è detto spesso che la vittoria di Hamas sia figlia della povertà, della disperazione, e del radicalizzarsi del mondo mussulmano dopo l'invasione dell'Iraq. In realtà il successo di Hamas è soprattutto figlio di dieci anni di non dialogo. Se si fa un passo indietro nel tempo, si ricorderà bene quanto poco facile sia stato , all'epoca, imporre ai Territori Occupati il confronto e poi la trattativa con Israele, a partire dalla conferenza internazionale di Madrid. Gli accordi raggiunti furono estremamente precari. Costituivano infatti un ribaltamento culturale dell'intera storia fra Palestinesi e Israeliani, ma mancavano di un potere politico centrale che traducesse questo ribaltamento nella concreta solidità della vita quotidiana. Il consolidamento politico non è mai arrivato. Non da parte di Israele, che invece di considerare gli accordi un inizio li visse come la conclusione di un percorso. Né da parte dei Palestinesi, che proprio dopo l'avvio del processo di pace vissero la traumatica esperienza di un cambio politico della loro leadership, che passò di mano dai potentati locali (che avevano guidato la Intifada) molto vicini ai cittadini, alle strutture di Arafat e di Fatah, organizzazione nata nell'esperienza militare e nell'esilio, verticista, autoritaria, e totalmente esterna ai territori. Fatah non ha mai davvero guidato il processo di pace, ma lo ha solo gestito - per altro con mano rigida e con non poca corruzione. Hamas ha raccolto la doppia disillusione: quella sulla inutilità degli accordi, e quella sulla durezza e la corruzione della leadership palestinese laica.

D. Il governo guidato da Ismail Haniyeh dovrà affrontare diversi problemi interni ereditati dalla precedente leadership dell'ANP. Tra questi il controllo degli apparati di sicurezza (sinora nelle mani di Fatah), l'amministrazione degli aiuti economici provenienti da paesi occidentali e da paesi arabi moderati, la dilagante corruzione nel sistema economico/politico, i rapporti con altri gruppi armati (Jihad, ecc.) per nulla intenzionati a rinunciare alla lotta armata contro Israele. Hamas ha la potenzialità di gestire una situazione così complessa? Un'azione di governo così articolata può essere affrontata esclusivamente con un'alleanza politica con Al Fatah?

Caracciolo - Hamas non è un monolite. Al suo interno convivono istanze e correnti diverse, dagli irriducibili della lotta armata che mirano alla distruzione di Israele fino a coloro che, molto pragmaticamente, sono disposti a gestire un negoziato con lo Stato ebraico per codeterminarne i confini orientali - naturalmente rifiutando il "Piano Sharon" e quindi l'idea dello spezzettamento dello staterello palestinese in diverse entità controllate da Israele. E' impossibile oggi stabilire come Hamas affronterà le responsabilità di governo. Certo il suo "welfare islamico" è più efficiente e popolare delle fatiscenti strutture finora gestite dall'ANP. Ma il fronte palestinese resta diviso e riportarlo a una qualche forma di unità è impresa molto ardua. Fra l'altro, né Israele né la maggior parte dei paesi arabi e islamici hanno interesse a che i palestinesi superino davvero la crisi e si ricompattino intorno al nuovo governo.

Panella - Sul piano interno, il problema centrale di Hamas è quello di evitare la guerra civile. Più di trecento sono stati i palestinesi uccisi da palestinesi per ragioni politiche nel 2005 (più delle vittime di Israele) e la esclusione della "Mafia" di Al Fatah dal controllo dei fondi, degli apparati di sicurezza (e quindi del contrabbando e del traffico di armi e del "pizzo") complichi tensioni già gravissime sul terreno politico. Sul terreno vi sono una decina di milizie che hanno assicurato - grazie alla follia di Arafat - un reddito sociale ai loro membri e ai loro clan. Centinaia di migliaia di palestinesi vivono di riflesso a questi gruppi armati e alle loro attività. Hamas, peraltro, deve condurre assolutamente una dura politica di moralizzazione. Il tutto in un contesto assolutamente disabituato al confronto delle idee, a rapporti democratici e dominato da media irresponsabili ed estremisti (quelli dell'Anp, che hanno allevato generazioni di ragazzini kamikaze) e quelli arabi, al Jazeera in testa. Un'implosione violenta è molto probabile.

Guolo - La questione degli apparati di sicurezza è uno dei nodi più difficili da affrontare per Hamas. L'assenza di ordine interno, accentuata dalle dinamiche concorrenziali delle diverse milizie armate vicine a questo o quel leader, ha contribuito non poco alla sconfitta di Fatah, che controllava polizia e servizi di sicurezza. Oggi, nonostante le reazioni contrarie di quegli apparati all'ingresso nelle loro fila di militanti di Hamas, pare inevitabile un rimescolamento dovuto ai nuovi equilibri politici. Con tutte le conseguenze del caso. Anche sul piano delle relazioni tra strutture di sicurezza palestinesi, quelli dei paesi dell'area, in particolare l'Egitto, e quelli occidentali. Hamas dovrà poi definire una posizione nei confronti della Jihad islamica. Questo gruppo opera secondo una logica tipicamente "militarista" e non pare intenzionato a rispettare alcuna hudna, tregua, con Israele. La Jihad cercherà di occupare il terreno della lotta armata lasciato scoperto da Hamas, introducendo variabili non controllabili sul piano politico e militare. Le sicure reazioni israeliane alle eventuali "operazioni di martiro" della Jihad potrebbero indurre Hamas a reagire. Per scongiurare simili scenari, la Jihad dovrebbe essere messa in condizione di non nuocere. Ma un conflitto interno al campo islamista tra i due gruppi potrebbe avere esiti indesiderati, a meno che non sia breve, intenso e decisivo. Molto dipenderà anche dai rapporti tra Jihad palestinese e Iran. Hamas punta a cooptare Fatah in un governo di unità nazionale; ma, per sopravvivere come organizzazione politica l'organizzazione fondata da Arafat deve lasciare che Hamas governi da sola e attendere il suo eventuale fallimento. La gestione di una simile linea implica comunque per Fatah un ricambio generazionale nella leadership.

Allam K.F. - Uno dei maggiori problemi che si pone a un movimento di matrice neofondamentalista o radicale che accede al potere politico per via democratica, è di verificare la sua capacità di uscire da una retorica rivoluzionaria e religiosa, per confrontarsi realmente con la politica, ad esempio nella gestione degli apparati dello stato. Il caso di Hamas è in parte inedito, perché in Palestina un vero stato non c'è: e dal punto di vista politico un'autorità non equivale a uno stato. Ma Hamas si trova ad affrontare problemi squisitamente politici: il controllo del territorio, la sua relazione con Israele, il risanamento economico, e la complessa questione di una società che negli ultimi anni si è militarizzata e si è frammentata tra un sistema di solidarietà di tipo ideologico e uno di tipo clanico-tribale. E' ancora troppo presto per valutare la sua reale capacità di creare un'aggregazione intorno alla quale strutturare una gestione più efficace dell'entità palestinese, di fronte all'anarchia che divampa. Per poter arrivare a ciò, il movimento dovrà uscire dalla logica rivoluzionaria per farsi carico dei reali problemi della società; e ciò dipenderà non soltanto dall'abilità dei suoi leader, ma dalla capacità di Hamas di costruire un segmento politico in grado di uscire dalla logica rivoluzionaria, che divide la società, per innescare un autentico processo politico. Finchè il movimento sarà legato alla logica rivoluzionaria, sarà impossibile per Hamas realizzare un reale comportamento politico. Ciò richiede una deideologizzazione del movimento; ma Hamas non è pronta ad abbandonare la sua configurazione, perché perderebbe il consenso che l'ha fatta eleggere. Spesso però i fatti, la realtà finiscono per dettare le regole del cambiamento; ma se si può sperare in un cambiamento, esso non sarà immediato.

Annunziata - Hamas è certo al centro di spinte divaricanti. Comunque, è una organizzazione di rivolta , e dunque inadatta anche come spirito mentale, al governo. Tuttavia, il governo è in sé un forte elemento di trasformazione politica. Non senza difficoltà, e scontri - e al netto di decisioni drammatiche di Israele - Hamas non può non tenere conto delle compatibilità. Nazionali e internazionali. Per loro vale la regola che vale in tutte le battaglie antiterroriste: la istituzionalizzazione del fenomeno è di per sé una forma di "imbragatura". Per quanto riguarda Fatah, come si è già visto, è improbabile ogni alleanza politica. E il controllo della sicurezza sarà risolto con mezzi puramente militari.

D. Da più parti si sostiene che una delle poche armi a disposizioni dell'Europa e degli USA per influire sulle scelte politiche di Hamas sia quella della gestione dei fondi destinati alla Palestina. Lo strumento economico è in grado di condizionare il processo di pace israelo-palestinese? Quali rischi si corrono nel delegare a paesi islamici radicali come l'Iran questo delicato compito?

Caracciolo - Lo strumento economico può avere un effetto di condizionamento se chi lo usa dispone della potenza necessaria e di una strategia. L'America ha la prima ma non la seconda (a meno che per gusto del paradosso non si consideri tale la road map), l'Unione Europea né l'una né l'altra. L'Iran ha una potenza relativa ma una strategia coerente, che punta a legittimare se stesso come punta di lancia del radicalismo islamico - non solo sciita - nella regione, vellicandone l'antisemitismo e l'odio per Israele. Senza sopravvalutare l'efficacia del condizionamento economico - anche perché il controllo sull'uso di quelle risorse è relativo - è quindi bene evitare che i palestinesi ricevano i soldi solo da paesi e organizzazioni arabe e islamiche, o dall'Iran. Sarebbe come spararci sui piedi.

Panella - L'Europa non può derogare dalle ovvie precondizioni stabilite. In un contesto in cui peraltro, Israele non deve assolutamente dialogare con chi ne prefigura la distruzione (magari dopo una hudna - tregua - di qualche decennio) e deve quindi operare un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania. Quanto ai fondi, l'Ue può dirottare a Ong varie la distribuzione di beni alimentari, servizi sanitari e scolastici, che aiutino il popolo palestinese nei suoi bisogni primari, ma non può in alcun caso finanziare una Anp in mano ad un governo di Hamas che rifiuti di riconoscere Isrele, gli accordi di Oslo e di abbandonare il terrorismo. Hamas farà proposte trabocchetto (tipo il referendum sul tema, allargato ai profughi, dall'esito negativo scontato), ma l'Europa deve essere intransigente sui principi.

Guolo - Lo è sicuramente ma la decisione di tagliare i fondi rischia di spingere Hamas verso l'Iran o paesi che mirano a mostrare la loro legittimità religiosa attraverso il sostegno alla causa per la "liberazione di al Quds", come la stessa Arabia Saudita. Tenendo conto che i flussi provenienti da canali islamici come donazioni private o la raccolta della zakat nell'intero mondo musulmano, che Hamas ha sin qui utilizzato per costruire il suo welfare religioso, non sarebbero sufficienti a riempire quel vuoto, l'interruzione dei finanziamenti occidentali verrebbe colmata rivolgendosi in quella direzione. Mantenere i finanziamenti occidentali permetterebbe di cercare di influire nella situazione, evitando che Hamas si schiacci completamente sulle posizioni di Khamenei e Ahmadinejad o quelle delle correnti più radicali degli ulema del Golfo. Si tratta di fare un'analisi costi/benefici e, soprattutto, di comprendere la possibile traiettoria politica di Hamas.

Allam K.F. - Si sottolinea spesso il fattore economico-finanziario come modalità di pressione sui movimenti fondamentalisti, soprattutto quando un movimento usufruisce di fondi pubblici come avviene nel caso dei fondi europei che l'UE versa all'autorità palestinese. Ho sempre ritenuto che il taglio dei fondi possa rappresentare un elemento in grado di influire, ma non di invertire una tendenza. A mio parere invece la questione investe un'altra problematica: lo strumento economico dovrebbe essere sempre il punto di arrivo di una dinamica politica che purtroppo oggi non c'è nel conflitto israelo-palestinese: manca un approccio globale alla questione, e manca palesemente una conferenza internazionale sul disarmo delle milizie nel Medio Oriente. Forse bisognerebbe ispirarsi alle trattative che hanno portato l'Irlanda del Nord ad abbandonare la lotta armata per poi negoziare politicamente. Penso che sia in questa direzione che l'UE dovrebbe lavorare di più.

Annunziata - I fondi europei sono parte della "imbragatura" che il governo in sé costituisce. Tuttavia, di chiedersi come usare questi fondi sarebbe ora di chiedersi come si impiegano. La Palestina è recipiente di una delle più straordinarie campagne di finanziamento mondiale: il rischio è farne per sempre un paese in welfare. Meglio, molto meglio, sarebbe (anche ai fini di una maturazione politica) che invece che di denaro la Ue si occupasse di imporre (a Israele come ad Hamas in questo caso) misure mirate rilanciare la autonomia della economia palestinese. Ad esempio: costruire finalmente la strada fra Gaza e Gerusalemme, e un porto per Gaza. E' nella crescita di domanda di pace dei cittadini, e non nei soldi assistenziali, che si trova la utilità della leva economica.

D. Un'ipotetica alleanza strategica tra Hamas, Siria e Iran rappresenta, nei fatti, un accerchiamento di Israele. Questa eventualità può aprire la strada a tentazioni di soluzioni militari del conflitto?

Caracciolo - Con gli americani in Iraq e in Afghanistan, l'accerchiamento è quanto meno reciproco. Non vedo soluzioni militari del conflitto che non siano pura catastrofe. Resta aperta la possibilità di un attacco preventivo americano e/o israeliano all'Iran, per riportarne indietro il programma nucleare. Ma la questione palestinese qui non c'entra, anche se le ricadute sui Territori (e non solo) sarebbero drammatiche.

Panella - Questa alleanza non è ipotetica ma è stata formalizzata già da un decennio circa, anche a livello ufficiale. Appena rieletto nel 2001, il presidente "riformista" iraniano Khatami pubblicizzo con forza il suo primo atto ufficiale: un finanziamento ad Hamas. Nel febbraio del 2006 questo Asse (che comprende anche Hezbollah libanese e l'iracheno Moqtada al Sadr) ha solo riconfermato e attualizzato una alleanza che aveva già prodotto lo scandalo della nave Katrine A, piena di armi, inviata da Teheran ad Hamas e intercettata da Israele nel gennaio 2002. La grande novità degli ultimi mesi è nella straordinaria capacità di Mohammed Ahmadinejad di dotare questo Asse di una ideologia mobilitante, di larga presa popolare nel mondo musulmano, attorno al tema del negazionismo. Ahmadinejad sente il "ventre profondo" della "piazza", è un eccellente demagogo e le spiega oggi che un nuovo, cosmico, "complotto ebraico": un Olocausto inventato che ha procurato agli ebrei - grazie a trame oscure- il controllo della Palestina e della sacra al Quds, Gerusalemme. Sicuramente questo Asse -probabilmente a partire dal Libano- metterà in atto una "guerra asimmetrica" contro Israele, ben prima della acquisizione della bomba atomica iraniana. In palio c'è la ripresa della espansione della Rivoluzione Islamica iraniana - arrestatasi con la guerra del 1980/88 - che è la vocazione fondamentale dello stesso Iran. Ahmadinejad apre l'era della fine della fase del "islamismo in un paese solo".

Guolo - Difficile pensare che una simile alleanza possa, almeno nel breve periodo, sfociare in tentazioni militari. Il divario tecnologico, la qualità degli armamenti, il sistema di alleanze internazionali, è chiaramente a vantaggio degli israeliani . E' anche per non perdere questo vantaggio che Israele intende impedire, con ogni mezzo, lo sviluppo del nucleare iraniano. La sua possibile conversione militare potrebbe mutare il quadro strategico nell'area, permettendo di aprire un ombrello protettivo a Hamas. Se riprendesse invece un conflitto a bassa intensità, Iran e Sira potrebbero sostenere, ancora più che in passato, le strutture militari delle due organizzazioni islamisti palestinesi.

Allam K.F - In realtà l'alleanza fra Siria, Iran e Hamas c'è già: basta andare a Teheran per vedere come l'iconografia rivoluzionaria iraniana inneggi ai "martiri" di Hamas; lo sceicco Yassin è una delle figure più ritratte dall'iconografia rivoluzionaria. Ecco perché si dovrebbe affrontare seriamente la questione del disarmo, sia per Hamas che per gli Hezbollah. Se Israele vive una situazione di minaccia permanente, la geopolitica del Medio Oriente sta dimostrando che il crescente affermarsi dei movimenti neofondamentalisti farà crescere sempre più la loro pressione sull'intero mondo arabo-islamico. Alcuni esperti ritengono che nelle prossime elezioni in Marocco vincerà il partito vicino ai Fratelli Musulmani; come si comporterà l'Europa, se non è capace di costruire un quadro esauriente di soluzioni a questi problemi, sapendo che tutto ciò non può che passare attraverso la questione del disarmo?

Annunziata - Sicuramente si. Questa alleanza, comunque, esiste già. Ed è questa la ragione per cui le negoziazioni con l'Iran sul nucleare non possono essere viste come isolate da questo intreccio.

D. Alcuni osservatori sostengono che paradossalmente la vittoria di Hamas potrebbe agevolare la soluzione del conflitto con Tel Aviv. Il prevalere degli oltranzisti, infatti, può indurre le parti a ritenere non più procrastinabile la soluzione pacifica del conflitto. E' un'ipotesi fondata o rappresenta una prospettiva auspicata in ambito politico internazionale ma, di fatto, irrealizzabile?

Caracciolo - L'ipotesi è affascinante. Forse un po' troppo razionale per le mentalità del vicino e del Medio Oriente. Ma è importante che i palestinesi trovino finalmente una rappresentanza legittimata, intanto al loro interno e poi nei confronti di Israele e degli Usa. Prima o poi, a Gerusalemme (che c'entra Tel Aviv?) qualcuno potrebbe tentare di scommettere sul negoziato con i rappresentanti palestinesi - quali che siano - piuttosto che continuare sulla via della definizione unilaterale dei propri confini, che non garantisce affatto la pace e la sicurezza dello Stato ebraico. Senza coinvolgere i palestinesi (e dunque anche Hamas) non c'è soluzione alla questione israelo-palestinese.

Panella - E' una tesi irreale che dimostra la profonda ignoranza delle dinamiche del conflitto. L'oltranzismo di Hamas - e di ampie frange di Al Fatah - non è motivato da un nazionalismo esasperato, ma da un a priori totalitario, fideistico ("la Palestina è un lascito eterno di Allah al popolo musulmano sino al Giudizio universale", come spiega lo Statuto di Hamas). Questo a priori spiega il rifiuto permanente di ogni soluzione politica (compreso il rifiuto del Libro Bianco del 1939 che assegnava tutta la Palestina ai soli arabi, in cambio di 75.000 immigrati ebrei in cinque anni, compreso il rifiuto di Arafat della restituzione proposta da Barak del 97% dei Territori nel 2000). Israele con Sharon e oggi con Olmert, ha già scelto la sua strada: ritiro graduale dai Territori e definizione entro il 2010, dei propri confini definitiva. Israele, va ricordato, grazie alla follia oltranzista arabo-palestinese, non ha nessun confine legale da rispettare con i palestinesi ma solo una "linea armistiziale" del 1949. Dato che Hamas non riconoscerà Israele, questi prenderà le proprie decisioni da solo.

Guolo - L'evolversi della situazione dipende da molti fattori. Dal prevalere o meno dell'ala pragmatica di Hamas su quella ideologica; dalla politica del futuro governo israeliano; dal trionfo della coalizione Kadima-Labour che, a certe condizioni, potrebbe lasciare aperto uno spiraglio alla trattativa, mentre una vittoria del Likud irrigidirebbe le posizioni ; dagli sviluppi della politica americana. Gli Stati Uniti potrebbero aprire un dialogo con Hamas, imperniato sullo scambio politico fondato sull'alternativa "riconoscimento di Israele/fine dell'isolamento". Garantendo di non operare per destabilizzare il governo a guida islamista in cambio di una maggiore flessibilità sul versante Israele. Perchè possa avvenire tale scambio presuppone che Hamas si concentri più sulla reislamizzazione della società palestinese che sulla questione della cancellazione di quella che definisce "entità sionista". L'annunciata decisione di sottoporre a referendum popolare la questione del riconoscimento di Israele, sia pure a condizioni che rendono difficile il prevalere del "si", segnala comunque una novità da sottolineare. Per la prima volta il diritto di Israele a esistere è rimandato alla pronuncia della volontà popolare anziché al dettame del wafq, secondo cui la Palestina storica è interamente inalienabile in quanto lascito religioso. Posizione che, a determinate condizioni, potrebbe ulteriormente evolversi in futuro. Resta inoltre l'incognita della crisi del nucleare iraniano, capace di mutare drammaticamente il già intricato panorama mediorientale.

Allam K.F. - Dal punto di vista strettamente politico, è evidente che non vi è alternativa alla pace e alla trattativa. Ma il problema è tutto ciò che si trova in mezzo: come raggiungere il punto di arrivo? Paul Valéry, grande scrittore francese, negli anni '30 scriveva nel suo testo dal titolo Sguardo sul mondo attuale: "E' nella natura delle cose che i rapporti tra i popoli inizino sempre dal contatto degli individui che sono i meno adatti a ricercare le radici comuni e a scopirire prima di ogni cosa la corrispondenza delle sensibilità. I popoli vengano in contatto inzialmente attraverso i loro uomini più duri, più avidi, oppure i più determinati a imporre la loro dottrina, e a dare senza ricevere ciò che li distingue dai primi. Gli uni e gli altri non hanno come obiettivo la parità degli scambi."

Annunziata - Irrealizzabile. Questo ragionare è uno dei tanti paradossi amati dalle elite della politica estera. Nella concretezza della storia i conflitti finiscono sempre e solo quando le generazioni che li hanno avviati vengono sterminate. Per cui: si, la vittoria di Hamas può fare sufficientemente paura da mettere fine alle furbizie. Ma dobbiamo aspettarci ancora molto sangue.

D. La road map è ancora aperta?

Caracciolo - No. Non lo è mai stata.

Panella - In realtà non è mai stata aperta. La precondizione del percorso di trattative non è mai stata rispettata neanche come enunciazione dalla parte palestinese. Prima Arafat, poi Abu Mazen e oggi a maggior ragione Hamas si sono sempre rifiutati anche solo di iniziare a garantire il controllo delle milizie armate e la fine del terrorismo. Già nel 2003, Abu Mazen disse chiaramente al ministro degli Esteri Franco Frattini: "Neanche l'Europa mi può chiedere di dare inizio ad una guerra civile per disarmare le milizie palestinesi". Il passaggio tra l'egemonia di Al Fatah e quella di Hamas diventa così solo di forma: Hamas dice chiaramente quello che intende fare (minacciare sempre Israele di distruzione e comunque di guerra), mentre Arafat e Abu Mazen non lo dicevano, ma lo facevano, o tolleravano che altri lo facessero. Preso atto di questo quadro Ariel Sharon ha superato d'un balzo la road map con la costruzione della Barriera Difensiva e col ritiro unilaterale da Gaza. Da parte sua la stessa Ue ha dato il colpo decisivo alla road map, quando ha rifiutato la richiesta - avanzata formalmente da Israele, e appoggiata da Washington - di non riconoscere la validità di elezioni cui partecipasse Hamas, (naturalmente prima che si svolgessero, non dopo). Non si è mai vista al mondo una elezione a cui sia ammessa la partecipazione di un partito che rifiuta come immorale e contrario a Dio, lo stesso "patto costituzionale" che regge il parlamento per cui si vota. Ma l'Ue ha voluto che Hamas, che non riconosce la stessa legittimità della Anp, rifiuta gli Accordi di Oslo e rifiuta l'esistenza di Israele, partecipasse ugualmente alle elezioni. Morta la road map, l'Europa deve prendere atto dell'intero quadro mediorientale e prendere coraggio. Deve prendere atto che Israele sarà costretta d'ora in poi ad una politica di ritiro dai Territori unilaterale, che non avrà un interlocutore palestinese, che Hamas continuerà a avere la strategia millenaristica di distruggere Israele e che comunque dei passi vanno fatti. La prima scelta dell'Europa - per cui non avrà coraggio - dovrebbe essere quella di chiedere a tutti i paesi musulmani di riconoscere - senza condizioni - l'esistenza dello Stato di Israele, legittimata dall'Onu nel 1948 (saggia proposta di Bourghiba del 1965). La proposta di Beirut della Lega Araba è inaccettabile. L'Europa deve dire a gran voce quello che si è sempre rifiutata di dire: il riconoscimento del diritto di Israele a esistere non può essere sottoposto ad alcuna condizione. In questo quadro, la seconda strada che l'Europa dovrebbe percorrere è intensificare i contatti già in corso con Israele per un suo ingresso pieno nella Nato, che chiarisca a tutto il mondo musulmano, Iran e Siria in testa, che la difesa di Israele è strategica per la sicurezza nazionale dei 25 paesi occidentali aderenti.

Guolo - Hamas sostiene che la road map è morta per decisione di Israele, anche se non ha mai riconosciuto né quegli accordi né quelli di Oslo. Anche lasciando da parte la questione del ritorno dei profughi, Hamas non rinuncerà ai confini del 1967 e all'intera Gerusalemme. In caso di vittoria di Kadima, Olmert potrebbe offrire solo lo scambio di territori al quale pensava Sharon, prima della sua uscita di scena. Uno scambio che, per gli israeliani, ha lo scopo di evitare in futuro la formazione di una maggioranza araba nello stato di Israele e prevede la cessione ai palestinesi di alcune aree del Negev contro l'annessione degli insediamenti oltre la Linea Verde e il mantenimento di una zona di sicurezza lungo la Valle del Giordano. Difficile che, nella sua versione originaria, la road map possa rimanere strumento capace di indurre Hamas a negoziare.

Allam K.F. - E' da tempo che la road map si trova in stato comatoso; ma considero la metodologia della road map ancora utile. E'probabilmente sul quartetto che si dovrebbe ragionare di nuovo, forse aggiungendo altri interlocutori, come ad esempio la Turchia, paese musulmano che ha riconosciuto Israele e che potrebbe fungere da mediatore, in un luogo in cui tutto resta possibile.

Annunziata - La road map così come è stata definita finora, no. Ma le novità della situazione ( in Israele forse ancora più che fra i Palestinesi) sono tali da far ipotizzare la sua reinvenzione.





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