Manca un 'uomo forte' al vertice La guerra permanente nella camorra napoletana |
Fabrizio FEO |
La camorra è il fiore della Campania che soffoca e avvelena. L’indagine di Feo, conoscitore da tempo delle vicende camorristiche e dotato di spiccata sensibilità per le ‘cose campane’, offre riflessioni sulle dinamiche mafiose degli ultimi anni anche attraverso le ombre che si muovono sullo sfondo e che tessono trame sottili e ambigue. Tra le righe il richiamo a un risveglio civile, il dispettoso rimbrotto agli stereotipi analitici e il desiderio di capire la criminalità per un futuro che non sia solo speranza. foto ansa Un fenomeno gangsteristico, “polverizzato”, “pulviscolare”, grandi fluttuazioni nelle compagini che di volta in volta si formano tra vecchi e nuovi clan, ma anche con ambizioni, logiche mafiose e imprenditoriali. E’ una lettura sottoscritta dalla Commissione Parlamentare Antimafia nella relazione di maggioranza ed è la chiave interpretativa anche di molti accreditati storici e sociologi. Eppure non può bastare, è forse una lente che non consente di vedere molte sfumature, qualche volta anche tratti salienti, decisivi per la comprensione del fenomeno. Si dirà che anche la magistratura napoletana e gli investigatori consegnano una immagine di questo tipo al termine delle loro inchieste o di ampie ricostruzioni degli equilibri tra clan come quella consegnata nel 2004 dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale sulla sicurezza a Napoli: ma investigatori e magistrati hanno il dovere di fornire nei tempi previsti dalla legge istantanee dei reati, fatti ben determinati e “particolari”, per quanto possa trattarsi anche di catene di delitti ascrivibili ad una unica trama. Chi può e deve andare “a fondo” ha invece l’obbligo di interrogarsi: immaginando che i delitti e le dinamiche dei clan siano una sorta di scena del crimine, nella quale non sempre tutti gli elementi sono individuabili con reagenti e tecniche di rilevamento classiche, su cui compaiono “attori” che non sempre lasciano tracce evidenti. Come si fa a pensare - per andare sul concreto - che l’esistenza di forme secolari di organizzazione della criminalità, almeno 50 anni di certa e continua evoluzione della criminalità sul territorio, di contatto, addirittura di coesistenza, con fenomeni criminali, mafie di altre regioni, abbiano sedimentato così poca complessità da far spiegare, ancora, conflitti con decine di morti come quello di Scampia, soltanto secondo logiche, per così dire, da scontro di branco, primordiali… Beninteso, non che nella camorra il tratto gangsterico sia inesistente o poco importante: anzi è per molti aspetti sicuramente caratterizzante di questo fenomeno criminale. Ma va notato che possono prendere corpo ricostruzioni riduttive se non addirittura deformanti quando cronache e valutazioni non riescono ad andare in profondità, liberandosi del fragore delle armi da fuoco. Probabilmente questo è accaduto anche nella lettura della “guerra di Scampia”. Oltre 50 i delitti collegati allo scontro tra il clan Di Lauro e i così detti “scissionisti”. Esecuzioni, vendette trasversali , vittime tra fidanzate amici e parenti, madri degli appartenenti ai due clan. Come dimenticare l’assassinio della ventiduenne Gelsomina Verde, sequestrata, torturata, uccisa a colpi di pistola. Volevano che rivelasse il nascondiglio del fidanzato, uno degli scissionisti. E l’agguato a Giulio Ruggiero, decapitato, bruciato dopo essere stato ucciso. E la trappola e l’esecuzione per Carmela Attrice, madre di uno degli scissionisti. La mattanza, terminata a maggio 2005 era cominciata all’inizio dell’anno precedente, dopo che Cosimo Di Lauro aveva accusato uno dei luogotenenti del clan, Raffaele Amato di aver intascato una grossa cifra di danaro proveniente dalla vendita degli stupefacenti. Amato, secondo i collaboratori di giustizia, si era allontanato dall’Italia proprio per sfuggire alla condanna a morte decisa dai figli di Paolo Di Lauro. Quando Amato torna dalla Spagna, base dei suoi traffici dove si era rifugiato, comincia la faida. Amato, per i Di Lauro non è solo uno che è scappato con la cassa, ha infatti messo su un vero e proprio tentativo di rivolta - dicono i pentiti - contro la nuova organizzazione che i figli di Ciruzzo “o milionario” tentano di dare al clan. La rivolta di chi fino a quel momento aveva gestito le “piazze” della droga nel feudo dei Di Lauro e si stava vedendo sostituire da nuove leve. Aiutano, ma purtroppo solo fino ad un certo punto, le intercettazioni ambientali, le spiegazioni e i racconti dei collaboratori di giustizia. Investigatori di provata esperienza sostengono che rilevante nello scatenarsi del conflitto di Scampia è stato il peso non solo della partita legata alla suddivisione dei guadagni e alle metodologie della distribuzione degli stupefacenti, ma anche dello squilibrio creatosi all’interno del clan Di Lauro. Squilibrio di carisma, di leadership, di esperienza, tra chi era ad un certo punto al comando della cosca (i figli in libertà di Paolo Di Lauro) e i luogotenenti (dotati di pedigree criminale sicuramente più importante). Ma questa lettura fa, come è giusto che sia, riferimento agli episodi e ai contesti immediatamente riferiti ai fatti reato che sono - e devono essere - in sede di indagine oggetto esclusivo della attenzione degli investigatori. Ma ci sono anche altre cose che pure vanno osservate. Informative e ricostruzioni ripercorrono la storia del capocamorra Paolo Di Lauro - che ha colpito l’immaginario di tanti per il soprannome “Ciruzzo o milionario”- : una carriera cominciata nelle seconde fila della Nuova Famiglia, all’ombra e alle dipendenze dei protagonisti della guerra con Cutolo. Poi durante il conflitto contro la Nuova Camorra lo si incontra con personaggi di maggiore peso, a cominciare da Gennaro Licciardi, Ciro Mariano dei Quartieri Spagnoli, Giuseppe Lo Russo di Secondigliano, Dante D’Alessandro di Castellammare. Ai D’Alessandro rimarrà sempre molto legato ma stringerà rapporti solidi anche con i Nuvoletta, si imbarcherà nei floridi affari imprenditoriali dei capi dell’Alleanza di Secondigliano. Qualcuno tra gli inquirenti mette Paolo Di Lauro sullo stesso piano dei D’Alessandro, dei Nuvoletta, dei Licciardi... Ma, forse, gli attribuisce un gradino troppo alto. E’ cresciuto, e molto, Paolo Di Lauro, ma chissà se fino a questo punto. Sa essere riservato, non usa il telefono, spietato ma sa mediare. Di certo è capo di nutrite paranze di spacciatori e di trafficanti di droga. Un clan con schiere di “manovali” e disponibilità di fiumi di denaro, un figlio Vincenzo, cui delegare i compiti importanti, altri meno affidabili, probabilmente la causa dell’instabilità da cui è cominciata la guerra…finita, si ipotizza (se è finita) solo per intervento dello stesso Paolo Di Lauro, dotato di capacità diplomatiche e di tenere insieme vecchie e nuove figure della scena criminale... ma dopo cinquanta morti ed un anno e mezzo di sparatorie. Certo è che se intervento di Di Lauro c’è stato, è arrivato dopo che gli scissionisti erano finiti in gran quantità al camposanto o in galera, dopo una sequela di morti infinita, dopo che investigatori e magistratura avevano cominciato a sferrare duri colpi. foto ansa Come è possibile che Paolo Di Lauro - arrestato a Napoli a settembre 2005 ad opera dei carabinieri del Ros, dopo tre anni di latitanza, e che di certo anche mesi prima poteva far sentire la sua voce, la sua volontà, a chi dei suoi gestiva lo scontro sul campo di battaglia - è intervenuto così tardi? La situazione gli era sfuggita di mano? O era anche lui a volerla, per ben altre ragioni che una storia di danaro e scelte organizzative? E se i Di Lauro e lo stesso Amato fossero in realtà parte di un gioco più grande? Alleanza? No, una famiglia Quella che è stata dichiarata la “fine della faida” è arrivata dopo mesi e mesi nei quali i grandi clan dei territori intorno al quartiere in cui la guerra si svolgeva sembrano essere stati sostanzialmente, e stranamente, assenti, di fatto quasi fossero per nulla preoccupati da quello che stava accadendo, e dai danni che procurava agli affari di tutti. Possibile? Un interrogativo che riguarda soprattutto quella che viene definita Alleanza di Secondigliano, compagine camorristica che solo di recente avrebbe superato un periodo difficile, grazie agli “effetti benefici” determinati dalla latitanza del boss Edoardo Contini e poi anche di Vincenzo Licciardi. I due capi, in assenza di Francesco Mallardo, storico padrino di Giugliano tornato in carcere nel 2003, hanno ripreso la guida di una coalizione che conterebbe sui clan “Marfella” (di Pianura), “D’Ausilio” (di Bagnoli), “Aprea-Cuccaro-Alberto” (di Barra), “Lepre” (del Cavone-Montesanto), “De Luca Bossa” (del rione De Gasperi) e “Caiazzo” (del Vomero). Il duo Licciardi - Contini, già capace di controllare il racket delle estorsioni, il traffico ed il commercio al dettaglio di sostanze stupefacenti e la gestione delle scommesse clandestine su diversi generi di attività sportive in buona parte della città di Napoli, condizionando le attività svolte anche in altre aree della provincia, ha utilizzato le enormi risorse finanziarie acquistate gestendo questi settori illeciti con logica da grande impresa per poi arrivare al controllo diretto o indiretto di società manifatturiere e laboratori per la produzione di capi di abbigliamento in pelle, griffe contraffatte, seguendone poi la distribuzione su vasta scala in molti paesi del mondo. Stabilendo accordi in diversi continenti e riuscendo a drenare un mare di soldi, parte immesso nel circuito dell’organizzazione e per finanziare le attività in corso, parte per mettere le mani su nuovi lucrosi affari. Le investigazioni hanno dimostrato che questa formazione criminale gestisce i suoi affari attraverso modelli organizzativi tipici delle holding industriali. Nel 2004 sono state sequestrate 25 aziende commerciali per la vendita all’ingrosso di abbigliamento ed elettroutensili, 60 immobili a Napoli ed in altri comuni dell’interland e 60 conti correnti bancari. Quattro anni prima erano arrivati i sigilli ad altre attivita’ commerciali per il valore di circa 100 miliardi delle vecchie lire. Erano stati messi sotto sequestro investimenti nei settori dell’abbigliamento, dell’edilizia, dell’arredamento, in societa’ per azioni e centri commerciali. Erano venuti a galla rapporti impropri tra il braccio economico dell’Alleanza e funzionari di banca dipendenti dell’ufficio Iva, avvocati. Ed era saltato fuori che le società delle cosche impegnate nel settore dell’abbigliamento facevano affari anche in Russia. Una vocazione imprenditoriale che L’Alleanza ha saputo disegnare secondo un modello originale ma che viene da lontano. Basta pensare a quello che sono state capaci di fare la famiglia Nuvoletta, la famiglia Galasso, per citarne due. Tutto questo che, dunque, non può meravigliare a meno di non essere fermi, anche qui, ad una lettura assai riduttiva di quello che davvero è la cosiddetta Alleanza di Secondigliano. Sottovalutazione diffusa. A Francesco Mallardo, personaggio proveniente da una famiglia di solida tradizione criminale, feroce sterminatore di cutoliani, e’ stato prima attribuito “semplicemente” un solido legame con il capocamorra Gennaro Licciardi (soprannominato “a scigna”, la scimmia, deceduto nel ‘94) proprio per la comune militanza anticutoliana, poi una parentela con Contini e Bosti. Vincolo familiare acquisito per aver sposato tre sorelle, Anna, Maria e Rita Aieta che in realtà legava Mallardo anche a Gennaro Licciardi - anche lui sposato con una delle sorelle Aieta, la quarta. Alleanza o “famiglia”, dunque, quella di Secondigliano? Propendiamo per la seconda lettura. Una sola organizzazione criminale molto più simile ad una famiglia della mafia calabrese che della stessa mafia siciliana, dove il collante è costituito dagli intrecci parentali, che vanno ormai ben oltre i 4 matrimoni con le sorelle Aieta, e un percorso comune nelle vicende criminali napoletane datato ad almeno 20 anni fa. Una famiglia che ha stretto alleanze e ha combattuto una dura guerra con altre organizzazioni criminali di Napoli per il controllo dell’area orientale della città e di affari strategici illegali ma anche imprenditoriali su scala planetaria, che ha affidato il controllo delle varie aree a luogotenenti, che discute i grandi affari in una sorta di consiglio d’amministrazione in cui siedono i tre (una volta 4) cognati, o i loro rappresentanti, e un rappresentante della famiglia Aieta. Ed ha l’aspetto classico dell’idra mafiosa. Puoi tagliare una, due, tre teste, queste si riformano, fino a che non lo colpisci al cuore. Anche quando arresti uno dei capi riesci a tenerlo sotto chiave per poco. Nel 2000 i poliziotti hanno catturato Mallardo dopo l’evasione dall’ospedale di Giugliano, dopo averlo seguito per mesi, dopo aver individuato una ventina di rifugi del latitante, dopo aver passato al setaccio i suoi affari, arrivando al sequestro di beni e società per miliardi. Preso Mallardo, è diventato uccel di bosco l’altro pericolosissimo cognato Edoardo Contini che ha approfittato della scarcerazione nel novembre dello stesso anno, per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Poi era scappato di nuovo Francesco Mallardo ancora una volta da un ospedale, stavolta in Piemonte. Arrestato di nuovo nel 2003. Una famiglia che, dunque, va intesa come un corpo unico dislocato su un territorio che va dal cuore della città di Napoli fino ai confini della provincia di Caserta, una delle aree più densamente popolate d’Italia. Finita una guerra ne comincia un’altra All’Alleanza di Secondigliano si contrappone il cartello che fa capo ai clan “Misso - Mazzarella - Sarno”, insediati nei quartieri centrali ed occidentali della città: ne fanno parte - pur con le solite fluttuazioni e i cambi di fronte tipici della criminalità napoletana - i clan “Di Biasi” (quartieri spagnoli), “Grimaldi” (Soccavo e rione Traiano), “Alfano” (Vomero), “Sorprendente - Sorrentino” (Bagnoli) e “Lago” (Pianura). Proprio il clan egemone, quello dei Misso della Sanità, una delle aree di Napoli, a più alta densità criminale, si è trovato sul finire del 2005 a misurarsi con quella che è stata definita frettolosamente una “nuova guerra intestina”. Le informazioni raccolte da polizia e carabinieri hanno indotto a pensare che gli agguati siano legati al tentativo di scalfire il predominio del clan Misso. Posizione dominante nella gestione dei traffici illeciti in quell’area della città, che sarebbe ora insidiata da un gruppo nato nella zona di Secondigliano e Miano: un gruppo legatosi verso la fine degli anni novanta ai Misso poi in aperta rottura con la leadership del clan. Il conflitto, dicono le fonti degli investigatori, sarebbe legato sia allo spaccio di droga nel quartiere al quale i vecchi capi del clan Misso sarebbero contrari (ma c’è da crederci?) sia al controllo del racket sulle abitazioni del rione Sanità date in fitto agli immigrati. Sparatorie in pieno giorno, in vicoli e strade assai strette: ancora una volta questi delitti hanno minacciato l’incolumità dei passanti per una posta che a ben vedere non sembra spiegare tutto. Per quanto possa essere violenta e priva di regole la criminalità napoletana. Bisogna stare attenti a non compiere sottovalutazioni, a sbagliare interpretazione anche sulla lotta cosiddetta “intestina” ai clan della Sanità. Anche qui è opportuno forse porsi un interrogativo, magari per rispondere con un secco no, ma comunque facendo uno sforzo per abbandonare gli schematismi. E se grandi formazioni criminali, note, come quelle indicate, o dai contorni più sfuggenti avessero deciso di combattersi delegando a nuovi gruppi criminali l’attacco all’avversario, provando così a limitare i conflitti, ad evitare coinvolgimenti diretti? Usando insomma una tattica diversa da quella adottata dalle cosche della Campania prima tra il ‘75 e l’83 (tra cutoliani e anticutoliani) e poi a metà degli anni ‘80 (tra quelli che erano stati i clan della Nuova Famiglia). Una scelta che potrebbe spiegare almeno in parte anche altri conflitti. Ma a destare preoccupazioni non c’è solo il fermento e la turbolenza dei clan della città. Lotte tra cosche si sono registrate negli ultimi tre anni anche in provincia. Dallo scontro armato tra uomini del clan Castaldo nella zona di Acerra e Caivano (2003-2004) a quello tra i superstiti del clan D’Alessandro e nuove formazioni criminali raccolte dall’ex capocamorra cutoliano, Massimo Scarpa, nell’area stabiese, ai quindici delitti compiuti nel corso della lotta tra i clan Birra - Iacomino e Ascione nell’area di Portici ed Ercolano (nel 2002), al sanguinoso scontro tra i clan Cava e Graziano nel Vallo di Lauro, contrassegnato dal conflitto a fuoco nel quale si affrontarono in pieno centro urbano esponenti dei due clan. E tra questi, fatto senza precedenti, cinque donne, tre delle quali rimasero uccise (2002). Per non parlare dei delitti riconducibili alla lotta, in area nolana, tra il clan Capasso, alleato con la cosca dei Russo e il clan dei Nino - Pianese. E per finire, nel 2004, le lupare bianche, la scomparsa di Luigi Antonio Bonavita, Francesco Cozzolino. Giuseppe Vorraro e Gaetano Del Giudice, forse intenzionati a costituire un clan autonomo nel vesuviano, territorio nel quale dalla sconfitta di Raffaele Cutolo è arbitro unico il boss ora detenuto Mario Fabbrocino detto ‘o gravonaro (cioe’ ‘il carbonaio’). Un padrino, che fu con Alfieri, Nuvoletta e Zaza tra i promotori della Nuova Famiglia e acerrimo rivale di Cutolo, condannato all’ergastolo ad aprile 2005 per due omicidi, tra i quali quello dello stesso Roberto Cutolo jr, figlio del boss Raffaele, ucciso a Tredate (Varese) nel 1991. In un contesto che, sul versante antimafia, tutto appare fuorché sereno si corre il rischio di interpretare in modo riduttivo o deformato la natura di fatti di camorra, di non vedere dinamiche che magari si dovrebbero intuire anche solo interpretando silenzi, assenze, vicende inspiegabili della scena criminale napoletana. La camorra della provincia, storicamente più strutturata di quella della città, in particolare le cosche che controllano i paesoni lungo la strada che porta a Nola e quelle, assai legate ai clan della città/area giuglianese, vivono in un maggior silenzio con tutti i “benefici” che ne conseguono. foto ansa Ci sono latitanze assai importanti che durano ormai da decenni, nomi che compaiono in grandi affari assai sospettabili e che pure non trovano riscontro nelle banche dati elettroniche delle forze di polizia e sugli atti giudiziari degli ultimi 20 anni. Per non parlare di famiglie storiche della camorra che hanno da tempo portato all’estero buona parte dei propri interessi, che fanno soldi partecipando ad affari sporchi o apparentemente leciti di altre mafie. E poi si dovrebbe aprire un inquietante capitolo: quanto realmente hanno abbandonato il servizio attivo alcuni grandi boss, diventati collaboratori di giustizia - e che pure hanno dato un importante contributo - probabilmente solo “contusi” dalle misure patrimoniali adottate nei loro confronti. La reazione della gente, le istituzioni inquinate C’è tanta gente onesta. La maggioranza. E’ ormai un luogo comune, ma è pur sempre la verità. E c‘è chi -e non si può far finta di nulla - è deciso a tacere anche quando le pallottole volano tra le carrozzine e i passanti. E’ accaduto, come si è visto, proprio di recente al Rione Sanità. E c’è poi chi tace anche quando la camorra strozza con l’usura o con il racket… infine c’è gente che apertamente considera, per interesse, paura o convinzione, camorra e camorristi valori e persone che vanno difesi. Gente che inscena anche rivolte, ad ogni arresto. E’ accaduto ad esempio nel 2004, il 7 dicembre, a Scampia, quando le forze di polizia avevano arrestato decine di uomini della cosca di Di Lauro e del gruppo avversario degli scissionisti. Una vera e propria ribellione della gente si è registrata anche in occasione dell’arresto di Cosimo Di Lauro poche settimane dopo. Almeno cinquecento persone, moltissime donne, si sono raccolte in pochi minuti nei pressi dell’edificio in cui si trovava Cosimo Di Lauro. Contro i carabinieri sono state lanciate urla, minacce e poi anche oggetti di ogni tipo. Una reazione che ha imposto l’invio di rinforzi del X Battaglione. Di Lauro è stato portato via solo creando una barriera di automezzi e di militari, un muro umano intorno al portone del palazzo. Drammatico, avvilente, ma nulla di nuovo. Ed è questo il dato che sconcerta: alla Sanità, a San Giovanni, a Forcella, ai Quartieri Spagnoli, a Secondigliano, negli anni, rivolte di questo tipo, anche per l’arresto di uno spacciatore, durante l’intervento delle forze di polizia sul luogo di un delitto, ne sono accadute tante, a partire dagli anni ‘80, ma non si può dire che lo Stato abbia saputo o voluto avviare una riflessione, una analisi, una indagine sui significati profondi di manifestazioni di quel tipo. Forme di “antagonismo” che si preferisce ignorare e che forse per alcuni - irresponsabili - sono addirittura utili? A dare un’idea, confusa e anche contraddittoria del fenomeno camorristico concorre, di questi tempi, la quotidiana utilizzazione del tema delle devastanti infiltrazioni camorristiche nelle amministrazioni locali e nelle istituzioni delle province di Napoli, Salerno e Caserta, non per giungere alla individuazione e denuncia della reale portata del fenomeno, delle sue ramificazioni, ma a scopi di mera propaganda politica. Non prevale lo sforzo per capire cosa c’è dietro l’occupazione di ogni singolo comune o la compromissione di questo o quell’amministratore o funzionario, i legami impropri con il mondo delle imprese e le infiltrazioni o addirittura il controllo di ogni più piccolo appalto pubblico. Si assiste invece a spettacoli imbarazzanti per un Paese che si dice civile, moderno: sempre più numerosi i politici prestati, per così dire, ad una criminologia fast food, parlano di infiltrazioni camorristiche. foto ansa Ma poi scopri che si occupano solo di comuni guidati dalla parte politica avversa e non di quelli amministrati dalla propria coalizione, denunciano rapporti di parentela o contiguità di consiglieri avversari in un determinato comune ma dimenticano i sospetti che aleggiano sui consiglieri del proprio partito... o peggio trovi politici coinvolti in inchieste giudiziarie e per nulla liberi da sospetti, se non da condanne e accuse, che salgono sul pulpito e puntano l’indice. Si dimentica alla fine che quello delle infiltrazioni nelle amministrazioni locali, delle contiguità tra politica e criminalità è un problema gravissimo, troppo spesso strumentalizzato, che va avanti da oltre 20 anni, tocca ormai praticamente tutte le formazioni politiche(1) senza che però questo induca a consapevolezza, pudore e conseguenti scelte sul piano della trasparenza, della moralizzazione e soprattutto interventi legislativi che siano realmente efficaci! Intanto nella sola provincia di Napoli sono complessivamente una settantina, su 92 comuni, solo una decina non sono stati sciolti o sottoposti ad ispezione per sospetti di infiltrazioni camorristiche, nella provincia di Caserta diversi i consigli sciolti più volte, nella provincia di Salerno trovi perfino un consigliere che arriva ad affidare ad un killer la soluzione di un vertenza con un consigliere della sua stessa maggioranza.A far da riprova della cattiva coscienza di certi politici proprio in Campania si assiste alla concorde ammissione che la legge sullo scioglimento dei consigli comunali è inadeguata e va cambiata: infatti spesso finisce per penalizzare la macchina politico-amministrativa quando a dover essere colpite sarebbero le infiltrazioni dell’appparato burocratico che, invece, se non intervengono magistrati e forze di polizia, se le inchieste non raccolgono elementi sufficienti, rimangono indisturbati al loro posto. Moltissimi i casi in Campania come hanno poi dimostrato sentenze amministrative e penali... ma intanto è continuato il lancio di accuse reciproche. Non manca, per completare il quadro, una robusta dose di accuse, sospetti e veleni, sul versante delle contiguità, di comportamenti, per così dire, “non proprio leali”, tra uffici investigativi, giudiziari e criminalità organizzata... Vicende alle quali, ancora una volta, non sono estranee strumentalizzazioni politiche, vecchie ruggini, in qualche caso vendette incrociate, la volontà, nemmeno troppo nascosta, di tirare la giacca dei magistrati perché le indagini vadano in una direzione piuttosto che in un’altra o perché si aprano capitoli di inchiesta dove più conviene... Uno spettacolo desolante, soprattutto se si tiene conto di quanto sia delicato proprio il compito di apparati investigativi e giudiziari in una terra che ormai da oltre 25 anni, pur variando i numeri, resta un mattatoio. |