Fondamentalismo e Nuovo ordine mondiale L'ambizione del califfato alimenta il sogno della rivincita |
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La maggior parte delle organizzazioni fondamentaliste islamiche fa riferimento, nelle attività di proselitismo e nei documenti di propaganda e di rivendicazione, al ‘califfato’, quale forma di governo arabo da restaurare. Ciò ha fatto sì che in Occidente tale ambizione venisse interpretata come un prodotto utopistico del radicalismo islamico. In realtà, il setaccio del laicismo occidentale comporta delle forti limitazioni semantiche a concetti che, quasi sempre, per il loro connaturato od acquisito significato religioso, sono molto più ampi ed assolutamente non patrimonio esclusivo di frange violente. L'approfondimento di questo argomento fa emergere una forma di governo che, pur con alterne fortune, è sempre stata presente nella storia degli arabi e dei musulmani, anche in quella contemporanea. Anzi, proprio le disparità sociali, le difficoltà economiche, il percepito trattamento non paritario sulla scena internazionale, il timore di un crescente neocolonialismo in previsione di un progressivo ed inesorabile esaurimento delle materie prime, soprattutto in campo energetico, contribuiscono a mantenere più viva che mai questa alternativa alle attuali forme di conduzione politica. Certamente molteplici sono le posizioni dottrinarie e, nelle più recenti, le teorie classiche sono dovute venire a patti col nazionalismo, ma in tutte il califfato costituisce il mondo ideale cui ambire per l'equanimità che garantirebbe nell'amministrazione della vita terrena. La redazione vuole offrire una guida al califfato che, pur non potendo prescindere da alcuni dati storici minimi, permetta al lettore di affrontare un corretto approccio teologico ed ideologico a questo richiamo istituzionale di grande attualità nel mondo arabo e musulmano. foto ansa Origini e significato Alla morte del Profeta, l'anno 11 dell'egira (632 d.C.), vigeva una potente comunità islamica (umma) autogovernata, da lui creata conformemente a quanto gli era stato rivelato. La parola umma deriva dalla radice araba “umm”, "madre", tuttavia, sebbene raramente, in ebraico, la stessa parola designava un insieme di tribù ed è quindi possibile tale derivazione. Nella poesia araba preislamica il termine già indica una "comunità religiosa". Fino alla morte, l'autorità temporale e spirituale di Muhammad era indiscussa: governava l'umma, era arbitro delle dispute interne, capo delle milizie e principale stratega. Tuttavia, pur legiferando, conducendo guerre, proclamando paci e creando istituzioni sociali, egli non si arrogò mai il titolo di governatore, legislatore, giudice o generale, ma continuò sempre a definire se stesso un messaggero di Dio. Ne risultò, dunque, che non soltanto la dottrina e il rituale islamici in senso stretto, ma anche lo Stato, la legge e le istituzioni sociali fossero "religiosi". Islam divenne così il nome di un sistema di vita totale, non semplicemente regola della relazione privata di un individuo con Dio. Nelle tribù e nelle regioni più lontane aveva delegato altri come suoi rappresentanti, denominati halìfa (da cui l'italiano "califfo"), cioè "incaricati", secondo una accezione che gli studiosi inquadrano come già in uso in epoca preislamica. La scomparsa di Muhammad fu un evento di grande drammaticità: i musulmani si trovarono improvvisamente privi non solo del leader, ma anche della guida divina, fonte dell'autorità carismatica del Profeta. Tuttavia, erano sufficientemente impregnati della visione islamica per proseguire nello sforzo di costruire una società ideale informata a quell'imperativo etico. La risposta istituzionale alla necessità di una guida temporale per tutti i musulmani fu il califfato. Con tale soluzione, si intendeva l'azione di governo sulla comunità esercitata da un "incaricato" che emergeva per le sue qualità morali. Come è facilmente intuibile, sorsero aspre controversie tra i vari califfi detentori del potere, facilitate dall'improvvisa crisi che si era generata con la morte del Profeta. Quindi, tutte le rivalità che il messaggio di Muhammad era riuscito a soffocare, riemersero con faziosità tribale. Le teorie classiche del califfato La visione sunnita Secondo la visione sunnita maggioritaria, Muhammad non lasciò istruzioni per la futura guida dell'umma. Il nucleo originario dei musulmani acclamò come capo uno dei più anziani tra loro e, verosimilmente, dotato di grande prestigio: Abù Bakr, regnante tra il 632 e il 634. Non vi è certezza storica che egli sia stato effettivamente nominato khalìfat rasùl Allah, cioè "califfo del Messaggero di Dio", ovverosia "incaricato del Profeta", comunque tutti i sunniti lo considerano il primo califfo. Era un seguace della prima ora, la sorella A'isha era una delle mogli di Muhammad e, poco prima della morte di quest'ultimo, era stato da lui incaricato di guidare la preghiera in sua vece. Il termine "sunniti" deriva dall'appellativo con il quale la comunità musulmana, che per ben tre volte non elesse il primo cugino di Muhammad, 'Alì, quale suo successore, si distingueva dai partigiani di quest'ultimo, che si definivano sciiti: ahl al-sunna wa-al-gamà'a, traducibile con la frase "gente della sunna e della comunità". La parola comunità fa riferimento ai convertiti da Muhammad, mentre più complesso è spiegare cos'è la sunna. Il termine deriva dalla radice “s n n”, utilizzata per descrivere l'azione levigatrice esercitata con uno strumento particolarmente incisivo (ad es. perché dotato di denti), da cui, per estensione, nell'arabia preislamica, passò ad indicare "uso sanzionato dalla tradizione", cioè la "giusta cosa da fare", quella che antropologicamente può definirsi "usanza tribale", universalmente accettata, in fatto di fede, morale e attività sociale. Fu la sunna dei compagni arabi del Profeta Muhammad che inizialmente li portò a rifiutarlo, poiché le costumanze sociali e spirituali dei loro antenati erano incompatibili con la sua visione e le sue richieste. E fu, poi, la sua reinterpretazione della sunna che gli permise infine di conquistarli, poiché fece loro presente che quello che essi prendevano per vera tradizione (il politeismo, ad esempio) non era tale e che la vera sunna dei loro antenati era la stessa del monoteismo abramico che egli annunciava, in quanto invitava i suoi ascoltatori ad adempiere al contratto morale di Abramo con il Dio unico. La sunna del Profeta (sunnat al-nabì) cominciò a prevalere sulla sunna tribale e, la nuova "tribù", i musulmani, acquisirono un nuovo modello di pratica stabilita. Il Corano afferma che il nome proprio muslim venne coniato da Abramo, ciò perché, secondo i musulmani, l'Islam è la religione eterna di Dio, ma in realtà, storicamente, l'Islam ebbe origine in Arabia all'inizio del VII secolo d.C.. Entrambe le parole derivano dalla radice araba preislamica “s l m”, che significa "essere in pace", da cui Islam cioè "sottomettersi alla legge di Dio così da essere in pace" e il termine muslim, ossia colui che attua tale sottomissione. E' bene precisare che, intorno al 610 d.C., Muhammad ebbe delle singolari esperienze che lo convinsero d'essere stato chiamato a divenire il "Messaggero di Dio" (rasùl Allah), incaricato di portare i messaggi, o rivelazioni, da Dio al popolo della Mecca. Singolari poiché sembra abbastanza sicuro che Muhammad non ebbe visioni, né udì voci, ma semplicemente trovava le parole nel suo cuore. Ricordava i messaggi e quindi li recitava ai suoi seguaci, i quali, a loro volta, li mandavano a memoria, oppure, talvolta, li trascrivevano. Le rivelazioni erano costituite, per lo più, da brevi frasi. E' possibile che Muhammad stesso abbia cominciato a riunirle in sure, ma la raccolta definitiva del Corano fu realizzata soltanto vent'anni dopo la sua morte. La parola qur'àn è di origine siriaca e indica qualcosa da recitarsi nella sfera del culto. Ognuna delle principali divisioni o capitoli viene chiamata sùra (spesso, erroneamente, si traduce suwar, plurale dell'italianizzato sure, con il termine "versetti"), il cui significato sembra essere equivalente a "scrittura". Ogni sura del Corano è ulteriormente suddivisa in un certo numero di àyàt (sing. àya), in occidente definibili come versetti, il cui significato è "segno", nel senso di prodigio divino. Nel Corano compaiono sia il termine nabì (profeta) e rasùl (messaggero o apostolo). Alcuni studiosi li considerano equivalenti, altri sostengono che tutti i profeti ricevono messaggi da Dio, ma solo il messaggero ha anche una missione nei confronti della comunità. Ad Abù Bakr successero 'Umar, 'Utman e 'Alì che, assieme al primo, costituiscono i cosiddetti Ràshidùn (Ben Guidati). Costoro, cioè i primi quattro califfi, sono così denominati a causa di un hadìth, attribuito a Muhammad, secondo cui il califfato sarebbe durato soltanto trent'anni dopo la sua morte, avvenuta nel 632 d.C., e gli sarebbero succeduti, dal 661 d.C. in poi, nient'altro che mulk (regni autocratici), ne consegue che, secondo i sunniti, l'autentico ed esemplare califfato, cioè il vicariato dello spirito profetico (khilàfat al-nubùwa) fu ristretto ai primi quattro califfi. I musulmani della maggioranza sunnita usano il termine arabo hadìth (pl. ahàdìth) per riferirsi a qualsiasi discorso o relazione di ciò che il Profeta Muhammad o un membro della prima comunità musulmana disse o fece. Al-hadìth significa "il singolo resoconto". Per i musulmani, il hadìth ha connotazioni che fanno riferimento alle sue origini immediate, ossia le testimonianze oculari, e riflettono la preferenza generale soprattutto per la trasmissione orale. I sunniti consideravano i primi quattro califfi come i più eccelsi rappresentanti dell'umanità dopo Muhammad e, dunque, degni di ereditarne il ruolo di guide della comunità, i successivi sarebbero stati solo dei despoti. Difatti molti vennero considerati ingiusti ed empi. Se il tardo califfato, quindi, era ritenuto imperfetto, la dottrina sunnita continuava a considerarlo una istituzione indispensabile e sanzionata da Dio, e ribadiva l'obbligo per ogni musulmano di obbedire e sostenere attivamente il califfo in carica, che fosse un giusto o un oppressore, a meno che non violasse la legge religiosa. La visione sciita A Ghadir al-Khumm, nella Penisola Arabica, poco prima della morte, pare che Muhammad abbia designato suo cugino 'Alì, poi divenuto il quarto califfo Ben Guidato, marito della figlia del Profeta a nome Fàtima, quale suo successore. Tale scelta venne ignorata dalla comunità musulmana, che riconobbe Abù Bakr quale primo califfo. Nasce così il movimento shì'ita (sciita), dall'arabo shì'at 'Alì (partito di 'Alì). La Shì'a comparve storicamente a sostegno del califfato di 'Alì (656-661 d.c.), durante la prima guerra civile, seguita all'assassinio del terzo califfo, 'Uthmàn. Anche da taluni versetti del Corano e da alcuni hadìth particolari, la Shì'a deduce che Muhammad avesse scelto il successore nel cugino, uno tra i primi convertiti, 'Alì. Fu una congiura ordita fra i compagni del profeta, secondo la Shì'a, a privare 'Alì della sua legittima posizione, una guida molto più importante e carismatica rispetto alla versione sunnita, un leader che, per la maggioranza della Shì'a assumeva in sé la perfezione e l'interpretazione infallibile della scrittura. 'Alì ibn Abì Tàlib divenne il quarto califfo, l'ultimo dei Ràshidùn, ma la sua designazione da parte degli uccisori del predecessore, 'Uthmàn ibn 'Affàn (644 - 656 d.C.), del clan degli Omayyadi, provocò una guerra civile e una lacerazione della comunità che non si sarebbe più ricomposta. Quando 'Alì fu ucciso, nel 661 d.C., il califfato passò agli Omayyadi (661-750 d.C.). Si trattava di una tribù, una delle tante che si erano unite a Muhammad, che faceva derivare il proprio nome da uno degli antenati, tal Omayya, e con la quale la carica di califfo divenne, di fatto, ereditaria. Con loro la capitale del califfato venne trasferita da Kufa, in Irak, ove l'aveva posta 'Alì, a Damasco. Naturalmente, la Shì'a non riconobbe autorità ad alcuno di costoro, poiché ferma nel concetto che solo gli Alidi, la stirpe di 'Alì, potessero aspirare al califfato e che solo la loro pretesa avesse la sanzione divina, in quanto appartenenti al ahl al-bayt, la famiglia del Profeta (letteralmente "le genti della Casa", intendendo, con quest'ultimo termine, la residenza del Profeta). da www.geocities.com La visione khàrigita Il conflitto fra 'Alì e gli Omayyadi diede luogo ad una terza teoria del califfato, considerata anch'essa classica, al pari della sunnita e della sciita, quella dei khàrigiti. Benchè poco numerosi, rappresentano la terza forza dell'Islam ed hanno ricoperto ruoli di grande importanza nella storia della teologia e nella teoria politica musulmane. La loro origine risale all'accordo tra il quarto califfo, 'Alì, e il suo sfidante, Mu'àwiya, parente e vendicatore del terzo califfo, 'Uthmàn, accordo che riguardava una procedura di arbitrato a seguito della battaglia di Siffin (657 d.C.), località sull'Eufrate ove i loro eserciti si erano scontrati. Un gruppo di seguaci di 'Alì, principalmente esponenti della tribù araba dei Tamìn, ritennero che 'Alì si fosse macchiato di un grave peccato nell'aver accettato di trattare con i ribelli, e per questa ragione non lo considerarono più musulmano. Essi compirono un'uscita (khurùg) dal suo accampamento e si radunarono a Harùrà', nei pressi di Kufa (la capitale del califfato di 'Alì), in Irak. Da allora sono detti khàrigiti ("coloro che sono usciti"). 'Alì venne assassinato proprio da un khàrigita sulla porta della moschea di Kufa. Per questi dissidenti, numericamente scarsi già allora, ma molto attivi ed ostili ad entrambe le parti impegnate nella guerra civile, il califfo era passibile di deposizione se appena avesse deviato dalla pratica di Muhammad. Ne degradavano quindi la funzione più o meno a quella di un capo tribù. E, di fatto, le tribù arabe nomadi erano l'ambiente da cui i khàrigiti traevano sostegno. Compiti del califfo Secondo i sunniti A lui spettava il compito di guidare la umma in pace e in guerra, come era stato per il Profeta, e dirigere le preghiere rituali e il pellegrinaggio, funzioni che in precedenza aveva adempiuto per conto del Profeta stesso (khalìfa ->incaricato). Non era previsto, invece, il ruolo profetico espresso negli atti di Muhammad con autorità quasi infallibile. In teoria, la comunità dei musulmani scelse, guidata dall'ispirazione divina, i primi califfi sunniti, mentre l'atto di acclamazione (bay'a) costituiva più che altro un ideale elettivo per scongiurare eventuali tendenze dinastiche. Secondo la teoria sunnita più evoluta, il califfo doveva essere un maschio adulto della tribù Quraysh, clan di commercianti meccani, il principale, cui era appartenuto anche Muhammad, e, fra i criteri di selezione, si guardava abitualmente alla salute della mente e del corpo, alla conoscenza della religione, alla devozione, alla probità. Sue prerogative erano quelle di guidare la preghiera, essere riconosciuto nel sermone del Venerdì quale capo di tutti i musulmani, battere moneta, guidare l'esercito, ricevere per conto della umma un quinto dell'intero bottino. Le incombenze, invece, erano difendere e possibilmente estendere il dominio dell'Islam, mantenere la sharì'a, ossia la condotta prescritta per i musulmani, assicurare la legge e l'ordine, affinchè i fedeli potessero seguire tale condotta in pace e sicurezza, riscuotere le tasse canoniche e, in generale, amministrare la umma con l'ausilio di consulenti esperti. Sharì'a originariamente si riferiva al sentiero percorso dai cammelli diretti verso una sorgente d'acqua. Nel caso della legge islamica, il sentiero è quello che conduce il buon musulmano, nella vita futura, fino al Paradiso. La sharì'a non è considerata una legge religiosa in virtù degli argomenti che tratta, poiché questi vanno ben oltre la sfera culturale, ma in relazione alla credenza che essa derivi da fonti divinamente ispirate e rappresenti il piano di Dio per dare armonia a tutte le attività umane. L'origine storica della sharì'a risiede nella rivelazione che i musulmani credono sia stata donata da Dio al Profeta Muhammad, per il tramite dell'Arcangelo Gabriele, negli ultimi decenni prima della morte. Questa rivelazione divina venne in seguito raccolta in un testo noto sotto il nome di Corano ove, benchè soltanto una piccola parte sia riservata a questioni giuridiche, vi sono stabiliti i principi generali secondo i quali devono comportarsi i musulmani. Da questo nucleo di comandamenti si sviluppò l'ampio corpus di leggi della sharì'a. Secondo gli sciiti Per gli sciiti, invece, la figura del califfo è necessaria per la continuità del mondo e della storia umana, difatti, secondo un hadìth sciita, il califfo è la prova di Dio della quale la Terra non rimarrà mai senza. E' il vicereggente di Allah, possiede la conoscenza perfetta del Corano e nella "Notte del Potere", commemorazione del momento in cui il sacro testo fu rivelato per la prima volta, Dio gli fornisce la conoscenza di tutti gli avvenimenti dell'anno a venire. Il califfo è scelto da Dio e dal Profeta, o dai califfi precedenti, per mezzo di una chiara designazione e possiede il potere "iniziatico", cioè quello di avviare alle attività mistiche, mentre il Profeta possiede sia il potere della profezia che quello della "iniziazione". Tale credo comportava che la gran parte dei compagni di Muhammad, e più in generale della comunità musulmana, avesse peccato di apostasia nel riconoscere Abù Bakr come califfo anziché 'Alì, che era stato pubblicamente designato da Muhammad come suo successore. I cinque anni e mezzo del governo di 'Alì rimangono naturalmente l'ideale cui gli sciiti hanno guardato per secoli, perché quegli anni costituiscono l'unico periodo in cui il potere fu nelle mani di un califfo sciita. In sostanza, se i sunniti hanno sempre appoggiato il vero detentore del potere come garante della coesione della comunità musulmana, gli sciiti hanno solitamente dato maggior peso al principio di legittimità del califfo, che dovrebbe essere legato alla cerchia familiare del profeta Muhammad. La maggioranza dei califfi sciiti, eccezion fatta per gli Zayditi, non ebbe mai alcun potere politico, nonostante la loro comunità li considerasse come le uniche guide adeguate per la comunità musulmana e ritenesse, al contrario, i califfi storici, con l'unica eccezione di 'Alì, degli usurpatori. In parte anche a causa della loro mancanza di potere politico, gli sciiti hanno solitamente investito i loro califfi di un'ampia autorità in materia religiosa e hanno sempre conferito un ruolo centrale a quest'ultima. Gli Zayditi, da Zayd ibn 'Alì, pronipote di Husayn, secondo figlio di 'Alì, quindi un alide, autore di una fallita rivolta (740 d.C.) contro gli omayyadi, costituirono una setta sciita, moderata sia nel definire l'autorità religiosa dei loro califfi, sia nel condannare il resto della comunità musulmana che non assumeva lo stesso atteggiamento, ma, nel medesimo tempo, sostenitrice militante delle rivolte armate contro i governanti illegittimi. Secondo i khàrigiti Mentre gli sciiti fondavano il ripudio del califfato sunnita sulla base di un diverso principio di legittimazione, i khàrigiti giustificarono la loro opposizione servendosi di una visione intransigente di giustizia e integrità morale del califfo. Secondo la dottrina khàrigita, il califfo viene delegittimato in seguito ad una qualsiasi violazione della legge religiosa e deve quindi essere rimosso, eventualmente anche con la forza. Il califfo ingiusto o immorale e i suoi sostenitori devono essere trattati alla stregua di infedeli, a meno che non si pentano del loro comportamento. 'Uthmàn e 'Alì sono considerati califfi inizialmente legittimi, divenuti poi infedeli a causa dei loro atti illegali, e quindi sono stati assassinati giustamente. Ogni musulmano che non si dissoci apertamente da loro e dai loro seguaci è da considerarsi a sua volta un infedele e, allo stesso modo, è un infedele quel musulmano che non proclama il proprio sostegno a califfi giusti come Abù Bakr e 'Umar. I khàrigiti respingevano anche la teoria elitaria sunnita che riservava il califfato ai discendenti dei Quraysh e , anzi, ritenevano che ogni degno musulmano, anche di origine non araba, e perfino uno schiavo, potesse diventare un califfo, e questo principio egualitario veniva esteso addirittura alle donne. Le altre qualifiche e funzioni del califfo erano del tutto simili a quelle previste dai sunniti, con speciale importanza concessa al dovere, fissato dal Corano, di "ordinare la cosa più giusta e proibire ciò che è degno di biasimo", come pure di condurre il jihàd contro i musulmani non khàrigiti. da www.sufi.it Califfato ed imamato Il termine arabo imam significa, in generale, "guida" o "maestro". In senso non specifico la parola è spesso applicata a una riconosciuta autorità in ambito di studio, anche non esclusivamente religioso, o alla guida di una comunità. In qualità di termine tecnico, nella legge e nella teologia islamica, si riferisce alla suprema e legittima guida della comunità musulmana e anche a colui che dirige la preghiera rituale (salàt). Quindi, poiché la grande maggioranza dei musulmani, i sunniti, ha generalmente interpretato il califfato come la legittima autorità dell'Islam dopo il profeta Muhammad, e gli sciiti come prodotto del bisogno di una guida infallibile e di un maestro in campo religioso, l'imam coincide, in questa specifica accezione, con il califfo regnante. Le parole sono quindi sinonime, così come i rispettivi regni di etimo derivato. Influenze storiche sul califfato classico Le vicissitudini del califfato e le sue mutazioni nel tempo, riproducono, come in un laboratorio, l'evoluzione della civiltà islamica. Se è vero che la morale musulmana espressa dal Corano avrebbe dovuto fornire una guida inalterabile nel tempo, è altrettanto vero che i precetti rivelati subirono pesanti influenze, anche non islamiche, da parte di coloro che, di volta in volta, detenevano il potere. Nel I secolo islamico, il tribalismo arabo fu una sfida continua al califfato. La concezione della leadership araba si fondava sul prestigio, ereditato e/o acquisito, direttamente legato alla discendenza. Il potere, per tradizione, era strettamente associato alla forza numerica e al trascorso prestigio della stirpe e la stima nei califfi venne ben presto a mancare. La comunità musulmana fu afflitta in origine dalle ostilità tra le tribù: gli Omayyadi furono costretti ad alleanze matrimoniali tribali per rafforzare la propria autorità, ma il biasimo suscitato per aver accreditato gli usi sociali arabi in tutto il loro grande impero fu un fattore determinante nel crollo della dinastia. Gli ultimi Omayyadi, questo casato cessò di governare nel 749 d.C., e i primi Abbasidi che li sostituirono (da 'Abbas, zio del Profeta. La tribù proliferava ai confini del deserto siriano) vennero profondamente influenzati dalla tradizione dell'autorità imperiale dei territori conquistati. I loro fautori, generalmente scribi di recente conversione, concepivano una società rigidamente gerarchica di governanti privilegiati e sudditi tassati, col califfo arbitro supremo in ogni materia. I califfi Abbasidi, perciò, si ritiravano in una capitale, apparivano in pubblico unicamente in occasione di cerimonie, governavano dispoticamente e seguivano uno stile di vita in forte contrasto coi valori islamici espressi nel Corano e nella sunna. Si proclamavano investiti di un'autorità conferita direttamente da Dio, non da Muhammad, nè tantomeno dalla umma. Fra il 945 e il 1055 d.C., i Buyidi, tribù di confessione sciita originaria dell'Iran, governarono la capitale califfale Baghdad senza abolire il califfato sunnita, trovando forse politicamente più utile un fantoccio arrendevole come simbolo dell'unità islamica, anziché un califfo sciita, che avrebbe preteso, come minimo, il loro ossequio. Inoltre, i Buyidi rifiutarono di riconoscere il califfato sciita Fatimide sorto nel nord Africa (909 d.C.), che stava apprestandosi ad avanzare ad est e stabilirsi al Cairo (969 d.C.) col fine manifesto di egemonizzare il mondo musulmano. Quale dinastia sciita estremista, i Fatimidi rappresentavano una minaccia per i musulmani sunniti, così come per gli sciiti moderati. Debbono il loro nome a Fatima, una delle quattro figlie del Profeta, ma l'unica ad avere dei discendenti. Il loro primo califfo, 'Ubaydullah, si proclamava appunto discendente di Fatima ed 'Alì. La sua famiglia diede luogo ad una dinastia stabile che venne , quindi, descritta come Fatimide. Una presenza sciita così minacciosa nell'Africa settentrionale suscitò una reazione da parte dei superstiti della dinastia Omayyade di Spagna (755-1031 d.C.) che reclamavano (929 d.C.) il califfato come punto di riferimento per i vicini sunniti. Difatti costoro, ai quali i Fatimidi non avevano imposto con rigore il loro credo, soprattutto in Egitto, avevano potuto continuare a professare liberamente. Tuttavia, il mancato riconoscimento dei loro successori Abbasidi, comportò l'esistenza contemporanea di due califfi. Nello stesso momento i Selgiuchidi, una tribù turca oriunda dell'Asia centrale, si proclamarono autentici rappresentanti del sunnismo, pur continuando ad imporsi sul califfo. Nell'XI secolo rovesciarono la corrente politica sciita, portandosi dietro, tuttavia, lo strascico di una nuova influenza dannosa per il concetto di califfato: visioni di dominio mondiale nutrite tra i pastori delle grandi steppe asiatiche. Nata coi Selgiuchidi, una simile concezione raggiunse il culmine tra i mongoli pagani, che non tolleravano rivali. Il loro attacco a Baghdad del 1258 d.C. mise fine al califfato classico. Il declino del califfato Nonostante la rapida conversione all'Islam, i mongoli che governavano i territori islamici, così come le dinastie turco-mongole che seguirono, non mostrarono grande interesse per il califfato (per tale motivo, i militanti islamici appellano talvolta i dirigenti attuali dei paesi musulmani, ritenuti apostati, con il termine "nuovi mongoli", proprio alludendo all'impostura religiosa della loro conversione). Presumevano di regnare per diritto divino e accolsero nella loro tradizione la concezione persiana di una società organizzata gerarchicamente. I dotti islamici ('ulamà', dalla radice araba “ ‘ l m”, da cui deriva il termine ‘ilm "conoscenza"), benchè riluttanti, si adeguarono alla nuova realtà: da quel momento, pretendendo di essere i custodi della sharì'a, avrebbero conferito il titolo di khalìfat Allàh ("vicario di Dio") a qualunque capo facesse rispettare il corpo delle sacre leggi e governasse rettamente. Il titolo, un tempo esaltato, divenne uno dei tanti coi quali i governanti musulmani dei secoli successivi ornavano i documenti delle loro corti di giustizia. da http://xoomer.virgilio.it I sultani mamelucchi d'Egitto, tuttavia, adottarono un preteso rampollo della casa Abbaside che legittimasse il loro governo oligarchico, quasi un'autorità residua nell'intervallo di tempo, carico di tensione, fra la morte di un monarca e il consolidamento del successore. Mamlùk è una parola araba che significa "schiavo". I califfi usavano reclutare, a partire dagli Abbasidi, schiavi da utilizzare nell'esercito, soprattutto di origine turca, costituendoli in milizia pretoriana. I mamlùk erano, nelle civiltà musulmane, una vera e propria classe sociale, tutelata dalla legge islamica, che prevedeva venissero trattati con rispetto ed equità. Potevano esserlo solo i non musulmani. Il sostegno prestato a molti califfi aveva loro consentito di guadagnare la libertà (l'affrancamento di uno schiavo era un atto meritorio per i musulmani) e, convertitisi, costituendo forza militare, erano riusciti a fondare alcune dinastie, in Egitto e Siria. Fino al 1500 d.C. i re indiani, per rafforzare una legittimità troppo debole, usavano chiedere la convalida dell'investitura al loro "califfo ombra". Il conquistatore ottomano dell'Egitto, Yavuz Sultan Selim, condusse poi il suddetto presunto califfo Abbaside a Istanbul nel 1517, evento sfruttato in seguito dai sultani ottomani del XIX secolo come fondamento delle loro pretese ufficiali. Gli ottomani costituiscono una tribù, in ascesa dinastica nel XIV secolo, di origine turca, che ha preso il nome dal capostipite Osman (in arabo: 'Uthman). La prima reviviscenza del califfato Nella seconda metà dell'Ottocento, la potenza dell'imperialismo europeo provocò una reviviscenza del califfato sotto una nuova forma, che diede luogo, fra i musulmani, ad altrettante controversie quante se ne erano avute con la versione classica dell'istituzione. Il sultano ottomano, che governava un impero estesosi disordinatamente e minacciato dalle potenze europee, cercò di accrescere il proprio prestigio e mantenere un legame coi sudditi musulmani perduti, trasformando il califfato in una carica spirituale. Questo espediente piacque ai musulmani sotto regime coloniale, come in India, a quelli della Russia zarista, della penisola di Malacca e dell'arcipelago indonesiano. Anche in Egitto, sotto l'occupazione britannica, suscitò una reazione favorevole. Tuttavia, all'interno dell'impero ottomano, i nazionalisti non musulmani, in lotta per l'indipendenza vedevano nella rinascita del califfato uno strumento che favoriva la repressione da parte del governatore musulmano (il nazionalismo sarà oggetto di ampia trattazione successiva). All'epoca del primo conflitto mondiale questo concetto fu condiviso anche da alcuni arabi musulmani che denunciavano il califfato ottomano come una finzione priva di qualsiasi traccia di derivazione coranica. Sia i riformatori islamici che i nazionalisti musulmani usavano contro il califfo ottomano (il sultano) un linguaggio oltraggioso e, citando a sostegno i dotti classici, definivano soli autentici califfi i Ràshidùn. La fine del califfato ottomano Nel 1924 si produsse un grave truma nel mondo musulmano: i movimenti nazionalisti più laici dei paesi musulmani, quelli turchi, abolirono il califfato ottomano. Appena due anni prima, nel 1922, l'Assemblea Nazionale turca aveva abolito formalmente il sultanato. La Indian Khilafat Conference (1919-1933), che sosteneva l'autogoverno dei musulmani indiani per la loro fedeltà spirituale al califfo, si vide bocciare irrimediabilmente l'istanza. Di conseguenza, i musulmani che altrove aspiravano all'affrancamento dal colonialismo, furono costretti, una volta superata la delusione, a rivedere la loro strategia. Il primo tentativo di una seconda reviviscenza In effetti, i due provvedimenti turchi, del 1922 e del 1924, suscitarono un nuovo interesse circa la questione dell'esistenza di una guida suprema ed universale dell'Islam. Nei paesi arabi di recente indipendenza si manifestò, di conseguenza, un contesto favorevole al califfato. Molti giuristi ritenevano difatti, apertamente o in cuor loro, che con la fine del califfato classico l'imamato fosse rimasto vacante. I tentativi di far rivivere il vero califfato non durarono a lungo. Tre conferenze nel giro di pochi anni (1926-1931) naufragarono nella confusione. Apparve subito chiaro che i nuovi stati-Nazione si opponevano al ripristino di un'istituzione, tanto vaga nei contorni quanto potenzialmente influente, se non sottoposta al controllo dei rispettivi governi. L'abiura del califfato: il nazionalismo arabo La conoscenza di questo pensiero è necessaria, anche se antitetica all'istituzione in disamina, per meglio comprendere i mutamenti sociali ed ideologici nel corso dei periodi seguenti. Le contraddizioni fra la tradizionale nozione musulmana di umma e la sua lettura moderna come Nazione si esacerbarono nel corso del XX secolo. I nazionalismi laici acquistarono la forza di ideologie capaci di legittimare e di galvanizzare le lotte patriottiche per l'indipendenza. I fattori che hanno fatto nascere la coscienza nazionale nei paesi arabi facenti parte dell'Impero ottomano sono diversi: la decadenza e la disunione della dominazione Osmanica; il trionfo del nazionalismo nei Balcani; il successo di Muhammad Alì (1805-1848) in Egitto, che ottenne l'autonomia dell'apparato amministrativo; le ingerenze europee negli affari interni dell'Impero ottomano; il fallimento dei programmi di riforma portati avanti da alcuni sultani ottomani. Agli inizi degli anni '50 del novecento, nacque il Movimento dei Nazionalisti Arabi, che costituiva il rinnovamento e la ripresa delle idee e delle ambizioni delle generazioni nazionaliste arabe precedenti. Sull'esempio del Gruppo dei Nazionalisti Arabi, che tra le due guerre mondiali era molto attivo in tutte le regioni della mezzaluna fertile, l'M.N.A., nella sua teoria e nei suoi programmi, dava tutta la priorità alla causa dell'unità araba rispetto ad ogni altra aspirazione. I fondatori del movimento erano persuasi che la creazione di uno Stato arabo unificato fosse uno scopo essenziale che avrebbe permesso di liberare tutti i territori arabi occupati e assicurare un destino migliore per tutte le future generazioni della Patria araba. I mezzi per realizzare tutte le aspirazioni erano la formazione teorica e la lotta armata. Essi credevano che la lotta per l'unità araba fosse un compito relativamente facile da eseguire e che avrebbero potuto realizzare il loro sogno in un futuro piuttosto prossimo. La fusione siro-egiziana (1958) e poi la caduta della Repubblica Araba Unita (1961) ebbero una grande influenza sul movimento. I nazionalisti avevano legato il loro destino a quello dello Stato arabo di nuova costituzione, e speravano di poter assumere il ruolo di avanguardia e forza d'urto della R.A.U. in Irak, Giordania e Libano. Dopo la rottura di questa Repubblica Araba Unitaria, il movimento tentò invano di svolgere il ruolo di suo salvatore. Ma fallì per la seconda volta, e non potè evitare lo smembramento di questa nuova repubblica, come in precedenza non era riuscito a svolgere il ruolo di avanguardia. La sconfitta del giugno 1967 portò il colpo di grazia all'M.N.A., poiché gli ultimi legami che ancora tenevano unite le ali opposte, furono spezzati dalla débâcle. E' importante segnalare che tutte le organizzazioni (ad es. l'F.P.L.P. e l'F.P.D.L.P.) che si sono sviluppate sulle rovine dell’M.N.A., hanno adottato la teoria marxista-leninista come metodo d'analisi e d'azione. Tra i molteplici fattori all'origine di questa apertura, va senz'altro menzionato il ruolo del Presidente Jamal Abd-An-Nasser, che aveva legato il nazionalismo arabo al socialismo. Il pensiero socio-politico dell'epoca in cui sono situate la nascita e l'evoluzione del nazionalismo laico, è caratterizzato da un'altra corrente principale rispetto alle varie concorrenti: quella del riformismo o modernismo musulmano. Quest'ultima, a differenza della prima, che affermava che la separazione tra lo Stato e la religione sarebbe stata di beneficio sia per i popoli arabi che per l'Islam, propugnava il sistema di governo califfale. da www.acam.it Modernismo e califfato Il movimento intellettuale denominato modernismo islamico è una risposta all'incontro dei musulmani con l'Occidente nel XIX e nel XX secolo. Altre tipologie di reazione a tale incontro si sono concretizzate in una vasta gamma di possibilità, dal tradizionalismo ortodosso della scuola salafita nei confronti della secolarizzazione occidentalizzante al revivalismo o neofondamentalismo (entrambi approfonditi in seguito). Il modernismo non deve quindi essere considerato il solo tentativo di ridare vita, rinvigorire o riformare l'Islam. La preoccupazione principale del modernismo fu quella di depurare l'eredità religiosa, di reinterpretarne alcuni aspetti e di fonderla con elementi moderni, al fine di riaffermarne la dignità e di stabilirne l'insostituibile validità nei confronti dell'invasione culturale straniera. I pensatori modernisti non erano nemici della cultura occidentale, cui anzi guardavano con grande ammirazione alla scienza e alla tecnologia, ma si opponevano all'importazione totale ed indiscriminata delle idee occidentali, che avevano disintegrato la tempra morale delle società musulmane. Posero così l'accento sulla necessità di un cambiamento attraverso la riforma e l'adattamento e credevano che una nahda (rinascimento) potesse essere raggiunta soltanto con un ritorno all'Islam. Il modernismo è solitamente collegato ai nomi del persiano Gamàl al-Dìn al-Afgànì (1839-1897) e dell'egiziano Shaykh Muhammad 'Abduh (1849-1905). La principale preoccupazione di al-Afgànì era il risveglio musulmano e la solidarietà a fronte della penetrazione dell'Occidente. Vedeva nei dissensi interni e nella mancanza di unità, le cause della sconfitta musulmana, ed esortava il suo pubblico a mettere da parte le differenze settarie e a praticare la reciproca tolleranza, per il bene della umma musulmana. Il suo discepolo e stretto collaboratore, 'Abduh, ebbe un'ampia influenza sul pensiero musulmano moderno. 'Abduh sottolineava la congruenza esistente tra l'Islam e la modernità e dava particolare rilievo al ruolo dell'ijtihàd (esercizio del giudizio individuale) al fine di liberare l'Islam da interpretazioni troppo rigide ed adeguarlo alle richieste della società moderna, pur senza metterne in discussione i principi fondamentali. Ijtihàd nel linguaggio ordinario significa "sforzo strenuo", ma nel campo cultuale è divenuto termine tecnico per indicare lo sforzo del singolo studioso di ricavare una regola di legge divina (sharì'a), direttamente dalle fonti riconosciute (principalmente il Corano e gli ahàdìth) di quella legge, senza nessuna relazione con quanto sostenuto da altri studiosi. In merito al califfo vi erano diverse posizioni tra i modernisti, ma quella maggioritaria ne esaltava la funzione civile, quale massimo rappresentante politico, e non una sorta di Papa. Si può meglio comprendere il modernismo islamico se lo si situa nel contesto storico del XIX secolo. Fu un periodo di agonia politica, sociale, economica e culturale, per le società musulmane, sfidate e scosse dalla penetrazione e dal dominio dell'Occidente. L'impero ottomano, teorico custode della umma musulmana, non solo si dimostrò inadatto a resistere al violento assalto, ma ne divenne una delle vittime. L'invasione occidentale assunse la forma di vittorie militari, dominio politico ed economico e imposizione di sistemi educativi e codici legali occidentali. Il modernismo si sviluppò proprio tentando di affermare la capacità dell'Islam di fronteggiare la nuova sfida. In particolare, i modernisti speravano di confutare la teoria secondo la quale era proprio l'Islam la ragione delle sconfitte musulmane e del sottosviluppo, oltre ad essere rigido e non suscettibile di riforma. All'origine del desiderio di cambiamento si avvertiva un forte bisogno di depurare l'Islam dalle credenze superflue e dalle superstizioni introdotte dagli ordini e dalle confraternite sùfì, come pure dalle rigide interpretazioni dei tempi passati. Per raggiungere questo obiettivo era necessario recuperare le fonti originali dell'Islam, il Corano e la sunna, e tornare ad interpretarle. I modernisti adottarono questa idea dai movimenti fondamentalisti del XVIII secolo, specie i Wahhàbiti in Arabia, ma fecero un uso diverso delle fonti: mentre i fondamentalisti si caratterizzavano per un approccio letterale e assai rigido al testo, l'obiettivo dei modernisti era scoprirne lo spirito e distinguere tra le regole universali dell'Islam, da una parte, e quelle specifiche, valide soltanto in un determinato periodo, dall'altra. Alcuni pensatori modernisti seppero conciliare i principi dell'Islam con le nuove forze che percorrevano i nazionalismi anticolonialisti, e, in certi casi, come in Algeria, fu proprio il modernismo islamico a fornire il sostegno ideologico alla resistenza nazionale. Nei primi decenni del XX secolo il modernismo islamico raggiunse una notevole influenza in diversi Paesi musulmani. Risultava attraente non soltanto ai ceti scolarizzati, in via d'aumento, e alle nuove classi medie che pure volevano mantenere i legami con la tradizione, ma anche agli 'ulamà' più giovani che si rendevano conto dell'inutilità della tradizionale posizione conservatrice al cospetto dell'aggressiva e dinamica cultura occidentale. Tuttavia, il modernismo islamico risentì di alcuni limiti che finirono con il condizionarne lo sviluppo e l'impatto sulla società. In quanto corrente di pensiero, l'essenza del modernismo islamico risiedeva nell'equilibrio tra due elementi: gli aspetti irriducibili e immutabili dell'Islam, e la necessità del cambiamento in altri settori in risposta alla condizione moderna. Il rapporto tra questi due elementi variava sensibilmente tra i vari pensatori. Il bisogno dei modernisti di bilanciare vecchio e nuovo, in un ambiente caratterizzato da continui e rapidi cambiamenti, li fece spesso apparire selettivi e privi di coesione concettuale o di un'organica metodologia interpretativa dell'Islam. Non seppero sviluppare il pensiero musulmano tradizionale dal suo interno, ciò che avrebbe fornito una base adeguata a sostenere i nuovi valori e le nuove istituzioni. I modernisti vennero accerchiati da ogni lato. I ceti laici elevati, detentori del potere, non vollero concedere all'Islam altro ruolo che quello di legittimare la loro condotta, e intanto altre ideologie e suggestioni, specie il nazionalismo e il socialismo, cominciarono a farsi strada tra le generazioni più giovani. Nuovi dubbi e preoccupazioni vennero alla ribalta (in particolare la giustizia sociale), a fronte delle quali i modernisti non disponevano di risposte adeguate. D'altro canto, gli 'ulamà' tradizionali e i gruppi neofondamentalisti, accusarono i modernisti di sacrificare i principi dell'Islam sull'altare delle idee occidentali, e giunsero persino a metterne in dubbio la fedeltà religiosa. La storia rese tutto più difficile per i modernisti; eventi politici e crescenti tensioni sociali resero inutili le loro teorie a fronte dei bisogni immediati dell'epoca. Nello scontro con la civiltà occidentale era necessario il jihad e non l'ijtihàd. L'intellettualismo dei modernisti non permise loro di dare vita a un movimento politico efficace in un contesto che richiedeva la mobilitazione di massa e la solidarietà contro una minaccia esterna. Più tardi, negli anni '70 del novecento, il fallimento di tentativi di sviluppo da parte di regimi secolari o quasi secolari, l'intensificarsi delle contraddizioni sociali ed economiche e il crescente divario tra le classi, crearono un ambiente favorevole ai gruppi neofondamentalisti e indebolirono ulteriormente i modernisti. La nascita di gruppi come i Fratelli Musulmani e il Jihàd islamico in Egitto o la Jamà'at-i-Islàmì in Pakistan è la prova di questa linea di tendenza: in un contesto di forte polarizzazione sociale e politica, le posizioni moderniste liberali e moderate non potevano più trovare cittadinanza. In alcuni casi, dunque, il modernismo islamico smise di essere una forza progressista e fu scavalcato dal corso degli eventi; in altri casi, invece, venne oscurato da forze più potenti, gruppi laici detentori del potere o movimenti neofondamentalisti. da www.diomedes.com Presalafiti, salafiti, neosalafiti e califfato In tutto il Maghreb, la seconda metà del XVIII secolo portò una rinascita. Il potere dell'autorità centrale si era rafforzato, il commercio aveva preso rinnovato vigore e le città erano tornate prospere. Allo stesso tempo, come già aveva fatto la wahhàbiya in Arabia, i faqìh (giuristi) del Maghreb cominciarono a criticare gli aspetti più assurdi della religiosità popolare. Il loro movimento dichiarava di rifarsi direttamente all'ispirazione dei primi musulmani (salaf), e da ciò gli storici diedero al movimento il nome di salafìya. Questa non fu il primo movimento di riforma ad apparire nella storia moderna dell'Islam. In effetti, soprattutto in Marocco, dalla metà del XVIII secolo in poi, l'Islam normativo cominciò a riacquistare il controllo, ma si trovò in minoranza e attaccò solamente gli aspetti più aberranti del movimento marabutto, non i suoi concetti base. Questa fase, che potremmo definire pre-salafìya, non professava ancora apertamente il ritorno ad un sistema califfale autentico. Il termine italiano marabutto deriva da quello anglofrancese marabout, trasformazione del termine arabo al-muràbitùn, che descrive coloro che vivono in un ribàt (monastero fortificato). Nel corso dei secoli XIV e XV, il Maghreb soffrì una crisi generalizzata. La vita nomadica fioriva a spese di una situazione agricola in rovina; il commercio languiva e le città non erano più centri propulsori, mentre spagnoli e portoghesi, signori dei mari, si conquistavano molti porti sulle coste dell'Africa settentrionale. Di fronte a questi sfavorevoli sviluppi, e costantemente indebolite da guerre interminabili, le dinastie allora dominanti giunsero al collasso. Il Marocco fu salvato grazie ad un'esplosione di nazionalismo, il resto dell'Africa settentrionale, invece, per mano dei turchi ottomani. Vi fu un risveglio dell'interesse per le discipline religiose e, in Marocco, la scena politica e sociale fu dominata dalle confraternite sùfì, i mistici islamici. Il pietismo popolare aveva invaso la regione con una fitta rete di zàwiya (nel linguaggio ordinario significa "angolo", ma, cultualmente, indica il piccolo monastero ove vivevano i mistici) nelle quali dimoravano gli asceti, tagliati fuori, almeno in teoria, dal mondo. In pratica, invece, insegnavano ai bambini e anche agli adulti, i rudimenti della religione; impiegavano le offerte che ricevevano dalla popolazione per aiutare i poveri e dare asilo ai viaggiatori; e fungevano da mediatori in caso di lite. Costoro avevano finito per divenire figure indispensabili ed alcuni avevano un'autorità spirituale della quale il rappresentante del potere centrale non poteva non tener conto. La zàwiya, quindi, venne a soddisfare un bisogno sociale e a completare il lavoro del mahzan (il governo statale). Quando quest'ultimo si rivelò incapace di avere ragione dei portoghesi stanziatisi sulle coste, la zàwiya si trasformò in ribàt, che fungeva da centro di raccolta di militanti. Il movimento marabutto si basò su un retaggio di molti secoli, ma la sua originalità fu quella di aggiungere, ai compiti di educazione e riforma morale, un programma politico: la lotta contro la dominazione straniera. La maggioranza dei suoi capi si fregiò del titolo di sharìf (discendente del Profeta attraverso la figlia Fàtima) e la vittoria sugli invasori diede loro un'importanza sociale basata sulla loro presunta santità (baraka). Da quel momento in poi, l'essere marabutto e sharìf fu praticamente la stessa cosa, almeno agli occhi del popolo, se non in realtà. La salafìya vera e propria apparve alla fine del XIX secolo, quando diversi paesi arabi, tra cui l'Algeria (nel 1830) e la Tunisia (nel 1881), caddero sotto il giogo dell'imperialismo europeo. Il movimento si fece portavoce della presa di coscienza della disfatta della società islamica tradizionale di fronte alla dominazione straniera, ed espresse, nel contempo, un desiderio di riforma radicale in campo intellettuale e sociale. Con questi presupposti, l'Islam delle confraternite (zàwiya) apparve come una distorsione del vero Islam, un'alterazione che stava alla base della decadenza musulmana. La salafìya, dunque, dichiarò guerra totale all'Islam dei marabutti. Le zàwiya erano soprattutto attive nel reclutare adepti e nel distorglierli da una vita produttiva. In poche parole, per la salafìya le zàwiya dividevano i musulmani, li disarmavano moralmente, li impoverivano economicamente e li rendevano schiavi spiritualmente. Erano un segnale della ricomparsa di quel paganesimo (jàhilìyya, oggetto di approfondimento successivamente) che il Profeta aveva sconfitto. Un ritorno alla religione del Dio unico era un ritorno alla libertà, al sentimento d'azione e di solidarietà; in altre parole, alle qualità che avevano fatto grandi gli avi. I membri della salafiya si misero al lavoro in un Maghreb dominato dal colonialismo europeo, non facevano parte degli 'ulamà' anche se avevano compiuto gli studi in istituzioni tradizionali. Si batterono soprattutto contro i maestri delle zàwiya, ma criticarono anche i faqìh che, favorendo prudentemente le soluzioni di comodo, gradivano poco la loro veemenza. La salafìya traeva la sua forza dai sentimenti anticolonialisti che permeavano la maggioranza dei popoli dell'Africa settentrionale. Il trionfo della salafìya può trovare una spiegazione nelle condizioni sociali e politiche del tempo. Quando le città si erano impoverite, l'Islam delle confraternite l'aveva fatta da padrone. Ma poi, con la colonizzazione, le città avevano ritrovato la loro prosperità ed era nata una nuova classe mercantile, il cui stile di vita non aveva nulla a che fare con le pratiche delle zàwiya. Fu proprio da questa classe che la salafìya attinse le forze che le permisero di fronteggiare l'amministrazione coloniale, gli shaykh (si tratta di un titolo riservato a certe figure dell'Islam distintesi per aver raggiunto notorietà nel campo della fede) delle confraternite e i prudenti 'ulamà'. Tuttavia, essendo al contempo movimento religioso e movimento sociopolitico, tant'è che anch'essa auspicava un regime califfale civile, la salafìya dovette adeguarsi all'evoluzione della società che, divenendo sempre più urbanizzata e politicizzata, l'obbligò ad assimilare prima il liberalismo, poi il nazionalismo, infine il socialismo. In questo modo il movimento perse la sua specificità. Dopo la liberazione dal giogo colonialista, gli stati del Maghreb adottarono la posizione salafita come ideologia ufficiale. Tuttavia, dal momento che lo Stato non è sempre fedele, nella pratica, alle prescrizioni coraniche, gli individui che adottano questa ideologia, diffusa tra le masse dei meccanismi istituzionali, si trovano di fronte al dilemma se la salafìya sia un puro esercizio spirituale o da essa debba derivare un programma di riforma politica. Questo dilemma non interessa soltanto il Maghreb, ma qui esso prende una forma particolare in quanto l'esperienza religiosa ha caratteristiche diverse. L'Africa settentrionale non ha mai prodotto mistici intellettuali. E' una terra di asceti, educatori, missionari e mujàhidin (guerrieri della fede), tutte figure vicine alla gente comune e sensibili ai problemi della comunità. Nel Maghreb, assai più che altrove, l'Islam sembra aver assunto forme meno individualistiche e intellettuali e più pragmatiche e comunitarie, tant'è che le crescenti difficoltà degli anni '80 e '90 del novecento hanno dato nuovo vigore all'attivismo sopito della salafìya, in Algeria, Tunisia e Marocco, dove la ritenuta apostasia dei governanti ha favorito atteggiamenti belligeranti. Questo movimento, definibile come neosalafita, ha modificato l'ideale di califfato della salafìya, poiché i governanti si sono dimostrati poco fedeli ai principi islamici, facendo riemergere il modello originario, quindi sia politico che religioso. Le recenti vicende algerine, con la diaspora estremista in Europa dell'intellighenzia radicale del Fronte Islamico di Salvezza e la coeva presenza, nel vecchio Continente, di radicali tunisini e marocchini allontanatisi dai rispettivi Paesi per fuggire alla stretta repressiva intesa ad evitare le degenerazioni algerine, hanno consentito la nascita di un neo-salafismo militante sovranazionale. Ancora, la pratica delle zàwiya, che pur resta in vita, è sempre più purificata dagli 'ulamà'. Nella mente delle persone l'Islam è soprattutto una legge (sharì'a) che esprime la solidarietà dei fedeli, come dimostra il fatto che la maggioranza sia legata al digiuno del Ramadàn e al pellegrinaggio alla Mecca. Ciò ha favorito quel particolare fenomeno che, a partire dalla fine degli anni '90 del novecento, è stato definito come "deriva salafita", nell'intento di descrivere l'effervescenza radicale plurinazionale e multietnica che ha accompagnato la proiezione dei neosalafiti maghrebini verso luoghi di jihàd (Bosnia, Afghanistan, Cecenia) diversi dalle proprie terre natie. L'incontro tra i neosalafiti maghrebini e gli oltranzisti, neofondamentalisti e wahhàbiti, arabi, ha quindi originato il cosidetto jihàdismo globale. Neofondamentalisti e califfato I principali artefici del pensiero neofondamentalista sono Sayyd Qutb (1906-1966), l'ideologo dei Fratelli Musulmani in Egitto; Abù al-A'là Mawdùdì (1903-1979), il fondatore della Jamà'at-i Islàmì in Pakistan e 'Alì Sarì'àtì (1933-1977), il maggiore ideologo della rivoluzione in Iran. Per costoro la restaurazione del califfato non solo assume un significato ben diverso da quello delle origini, ma deve avere il suo baricentro nella umma, che, di conseguenza, acquista un ruolo assolutamente centrale. Gli aspetti che in particolare risaltano, nel pensiero quasi completamente condiviso di questi tre studiosi, sono relativi alla "nuova jàhilìyya", al "dinamismo sociale" e al concetto di "Stato islamico". In merito al primo, la "nuova jàhilìyya", cioè la novella ignoranza pagana (per differenziarla da quella antica, che caratterizzava le popolazioni arabe prima della predicazione del Profeta) che minaccia, attraverso gli idoli del nazionalismo (come si è visto nel paragrafo dedicato), del materialismo (portatore, per reazione, delle derive laiche socialista e comunista, oltrechè negazione dello spiritualismo) e del dispotismo (con riferimento all'hadìth maomettano inerente i regni autocratici), il mondo islamico, occorre riconoscere che la comunità musulmana si trova nella stessa situazione degli arabi alla vigilia della venuta del Profeta. da www.storiain.net Non è necessaria una nuova rivelazione, ma è urgente la ricostituzione della umma secondo il modello seguito dal Profeta. Questo processo richiede la formazione di un piccolo gruppo di volontari, poi il suo ritiro (poiché il Profeta si ritirò a Medina prima di conquistare definitivamente Mecca) e, infine, la lotta senza frontiere contro le forze della jàhiliyya, fino alla vittoria finale. Circa il secondo, si afferma che l'organizzazione di una dinamica umma purificata è il motore della rivoluzione islamica. La umma guidata da leader che sanno che cosa Dio si aspetta da loro potrà diventare la personificazione dei principi di giustizia e di solidarietà. La guida non è affidata ai tradizionali ‘ulamà’, spesso imbrigliati dall'oscurantismo e legati alle forze del dispotismo; chiunque studi accuratamente i testi dell'Islam saprà, invece, discernere il programma per una società giusta. Il terzo aspetto, l'edificazione di uno Stato islamico, costituisce il segno della vittoria: un governo completamente sotto la sovranità di Dio. Tutti i musulmani parteciperanno pienamente al governo di questo Stato attraverso la consultazione. La sovranità di Dio e il volere della umma terranno a freno il potere dei governanti di tali Stati. L'idea di uno Stato islamico cancella la biforcazione della guida della umma, politica e religiosa, che è antica eredità della storia islamica, e riporta all'ideale della umma originaria. Essa pone anche fine al conflitto fra l'orientamento universale della umma e la spinta al nazionalismo, poiché vi sarà una pluralità di stati islamici, ma, proprio perché islamici, non saranno contaminati dal nazionalismo. Questo è il concetto che si può riassumere nell'affermazione rivoluzionaria iraniana "l'Iran non è una Patria (watan), è l'Islam". Poiché l'attesa dell'edificazione di un unico e universale Stato islamico, il califfato, potrebbe logorare le energie rivoluzionarie, sembra prevalere la strategia di costruire uno Stato islamico in ciascun Paese musulmano. Il terzo aspetto è un concetto piuttosto delicato, che ad una lettura superficiale potrebbe apparire in grave contraddizione con il termine "fondamentalismo", che sembra automaticamente connettersi all'aspirazione al califfato. Tuttavia, quando la sintesi religiosa e politica della umma della prima generazione di musulmani esaurì la sua spinta propulsiva, l'ideale della umma muhammadìya sopravvisse come potente riferimento dell'identità collettiva, ma non come realtà politica. Tra i sunniti, il comando della comunità fu diviso fra governanti e 'ulamà', i quali affermavano di essere la coscienza della umma, ma generalmente si tenevano lontani dalla politica. Gli sciiti, pur fortemente convinti della possibilità di ristabilire il legame fra politica e religione in una umma riunita sotto i loro imam, in realtà non si discostavano dal compromesso dei sunniti che implicava una biforcazione de facto della leadership. Wahhabismo e califfato Di grande importanza, per la piena comprensione degli obiettivi perseguiti da al-Qa'ida, è il moderno pensiero wahhabita in merito al califfato, poiché emblematico del clima cultuale di riferimento del primo agire di bin Laden. La Wahhàbìya è un gruppo islamico di rinnovamento che prende il nome dal suo fondatore, Muhammad ibn 'Abd al-Wahhàb ( morto nel 1792 d.C.). I movimenti di rinnovamento (nahda) hanno radici profonde nell'esperienza islamica. Il Corano e la sunna, cioè la pratica normativa del Profeta Muhammad, forniscono i criteri con i quali giudicare la fede e le azioni dei musulmani in qualsiasi epoca. Una interpretazione rigorosa di questi fondamenti ha spesso fornito la base per una forte sollecitazione riformista. La riforma wahhàbita dà luogo ad uno fra i più famosi movimenti cosiddetti fondamentalisti (il termine neofondamentalisti fa invece riferimento agli omologhi successivi al secondo conflitto mondiale). La si può intendere, più precisamente, come la continuazione della severa tradizione sunnita legata alla scuola giuridica hanbalita, basata sugli insegnamenti di Ahmad ibn Hanbal (morto nel 855 d.C.), ed è per questo che taluni studiosi si avvalgono oggi del vocabolo "neohanbaliti" quale sinonimo per "fondamentalisti", con riferimento esclusivo, naturalmente, ai radicali sunniti. Ahmad ibn Taymìya (morto nel 1328 d.C.) è uno studioso hanbalita le cui opere ebbero grande influsso sul pensiero wahhabita. Divenne famoso per l'avversione nei confronti di tutte quelle innovazioni devozionali e usanze religiose popolari che non trovavano giustificazione nel Corano o nella sunna. La sua predicazione, rivolta anche contro studiosi di grande fama, rese il suo lavoro controverso, laddove la sua abilità di polemista lo rese assai popolare. Il nucleo del suo insegnamento era la "scienza dell'unicità di Dio" ('ilm al-tawhìd), che sottolineava la natura universale e l'unità del messaggio islamico. La razionalità, l'intuizione mistica e le prescrizioni giuridiche sono considerate parti di una singola unità. Ibn Taymìya rifiutava le affermazioni dei mistici islamici secondo cui la "legge" e il " sentiero" (mistico) erano in qualche modo disgiunti. Egli affermava, inoltre, la possibilità di una interpretazione indipendente (ijtihàd) da parte dei dotti, purchè soggetta a regole ben chiare. Si oppose apertamente a quelle che considerava innovazioni nelle pratiche devozionali, come la visita ai sepolcri di personaggi famosi. Con questi e con altri temi, Ibn Taymìya pose le basi per il futuro neofondamentalismo sunnita. La scuola hanbalita non ebbe un seguito di massa nel mondo islamico, ma in certe regioni alcuni gruppi di studiosi hanbaliti raggiunsero una significativa influenza locale. Una di queste regioni fu proprio il Najd, il deserto centrale della Penisola arabica, dove la tradizione hanbalita si sviluppò nelle città in cui risiedevano le famiglie dei più celebri maestri hanbaliti. Lo stile di vita locale, tuttavia, non rifletteva uno spirito fondamentalista. La popolazione del Najd, generalmente, continuava a credere che gli alberi e le rocce possedessero poteri spirituali e che i sepolcri dei santi fossero luoghi speciali di venerazione. Queste credenze erano, per i fondamentalisti islamici, manifestazioni di politeismo (sirk) e dell'ignoranza dell'epoca preislamica (jàhilìyya). Dopo il periodo di prosperità che, nei secoli XV e XVI, aveva caratterizzato i grandi imperi islamici, a partire dal XVIII secolo i compromessi con le usanze religiose locali e le inefficaci organizzazioni politiche, spinsero molti musulmani, dall'Africa occidentale all'Asia sudorientale, a sollecitare l'insorgere di movimenti di rinnovamento islamico. Il movimento wahhàbita emerse proprio nel cuore di questa situazione ed è tuttora diffuso nella Penisola arabica. Secondo gli insegnamenti di Ibn 'Abd al-Wahhàb, non si trattava di una nuova scuola, ma, piuttosto, una chiamata, una missione (da'wa) per l'autentica realizzazione dell'Islam. La sua severità e i suoi richiami alla purificazione sucitarono proteste e solo nella città di al-Dar'ìya, governata da Muhammad ibn Sa'ùd, trovò accoglienza, sino a stipulare, nel 1744, un'alleanza destinata ad essere la base sia degli Stati sauditi, sia del movimento wahhàbita. Dopo alterne vicende di egemonia e sottomissione, nel 1902, un giovane principe saudita, 'Abd al-'Azìz ibn 'Abd al-Rahmàn (1879-1953), riconquistò Riyadh. Con una serie di audaci mosse diplomatiche e militari, 'Abd al-'Azìz riprese sotto controllo molte delle terre del primo Stato saudita. La fase finale si concluse negli anni '20 del novecento, quando anche La Mecca e Medina ritornarono sotto il controllo saudita-wahhàbita. L'espansione territoriale si fermò, ma il nuovo Stato wahhàbita continuò a rafforzarsi. 'Abd al-'Azìz aderì in piena coscienza agli insegnamenti wahhàbiti, e la Costituzione dello stato è basata sul Corano. Dopo il consolidamento della monarchia saudita, il tono predominante del movimento wahhàbita si è notevolmente modificato. In linea generale, il fondamentalismo opera per cambiare l'ordine sociale esistente e non esprime affatto tendenze conservatrici. L'affermazione di 'Abd al-'Aziz e dei suoi successori nella creazione di uno Stato relativamente prospero, tuttavia, ha favorito una politica assai più pragmatica e conservatrice. Pur rimanendo nella tradizione di Ibn 'Abd al Wahhàb, il movimento wahhàbita nel XX secolo si è trovato ad operare nel quadro di uno Stato modernista. Una delle principali cause di questa evoluzione è la consistenza delle entrate petrolifere dell'Arabia Saudita. Esistono, quindi, due diverse concezioni del califfato wahhàbita, che dal punto di vista teologico è contraddittorio definire entrambe wahhàbite, poiché al-Wahhàb ne propugnava una sola, ma che vengono riportate insieme per ragioni di comodità espositiva, essendovi oggi, in Occidente, un innaturale allineamento semantico. La prima concezione è quella wahhàbita che si rifà alla umma muhammadìya, la seconda è quella saudita postpetrolifera. Muhammad ibn Sa'ùd giurò, nel 1744, di proteggere e appoggiare la missione di al-Wahhàb e questa alleanza creò un nuovo Stato, basato sui fondamenti dell'Islam. Dopo la morte di Ibn Sa'ùd nel 1765, al-Wahhàb continuò a svolgere il ruolo di principale consigliere del successore, 'Abd al-'Aziz, e predicò e scrisse fino alla sua morte, nel 1792. Creò un movimento di rinnovamento in un'epoca di fermento del mondo islamico: nel XVIII secolo, furono molti i musulmani che lavorarono ad una ricostruzione socio-morale sulle basi di una stretta interpretazione dei fondamenti islamici. Muhammad Ibn 'Abd al-Wahhàb non fu dunque l'unico, ma fu il più rigoroso nel respingere le "innovazioni" medievali e il più intransigente nell'opporsi ai compromessi con la religione popolare. La morte non fermò la diffusione della missione religiosa, né dello Stato. La guida politica rimase nelle mani della famiglia Sa'ùd, mentre la famiglia di al-Wahhàb, in seguito chiamata "la famiglia dello shaykh", conservò la posizione di guida intellettuale nella storia successiva dello Stato e del movimento. Anche alla nascita del regno di 'Abd al-'Aziz ibn 'Abd al-Rahmàn, la "famiglia dello shaykh" e i principali maestri, hanno avuto un ruolo importante come consiglieri e garanti della legittimità dello Stato. Tuttavia, mentre all'inizio estesero la loro autorità anche sull'amministrazione dello Stato, le scoperte petrolifere indussero 'Abd al-Rahman, che doveva ammantare di pragmatismo il proprio agire politico per assicurare il consolidamento della sua monarchia e gestire al meglio la nuova risorsa energetica, a limitare la loro attività al campo dell'istruzione tradizionale e dell'interpretazione giuridica. Attualità del califfato Il ravvivato impulso religioso percepibile da alcuni decenni nel mondo islamico, suscita una notevole propensione alla rinascita del concetto di califfato. Tuttavia, benchè sembri vivo in molti musulmani un crescente desiderio di unità, è improbabile ravvisare nell'espressione di tale sentimento qualcosa che possa riferirsi a questa istituzione. Più o meno a partire dal 1967 (anno della cosiddetta "guerra dei sei giorni"), si è assistito a una significativa rinascita della coscienza islamica nei Paesi musulmani, in larga parte motivata dalla constatazione che le diverse ideologie importate dall'Europa, come liberalismo, nazionalismo e socialismo, sono di fatto tutte fallite. I Paesi musulmani, inoltre, vedono la tirannia (poiché l'Islam non è il governo di un despota ma l'attuazione dei principi coranici) come la sfida più pericolosa che i popoli islamici devono affrontare e si sono resi conto che soltanto una società rigenerata dalla rivoluzione religiosa è capace di rovesciarla e fondarne una basata sulla giustizia. Questa rinascita non è affatto monolitica, ma numerosi elementi di uniformità sono comunque presenti, soprattutto se si considera la profonda influenza reciproca che ha collegato fra loro i principali propugnatori: il Qutb, il Mawdùdì ed il Sarì'àtì, a cui molti si ispirano pur senza cedere alla militanza neofondamentalista. E' quindi importante tenere presente che il califfato non è assolutamente patrimonio ideale esclusivo delle frange violente. La mancanza di concretezza che ha caratterizzato e contraddistingue tale propensione, non consente di erigerla a dignità di ulteriore tentativo di una seconda reviviscenza del califfato. Qaidismo e califfato In al-Qa'ida convivono due anime: una wahhàbita, cioè fondamentalista primaria o "delle origini", ed una neofondamentalista. L'anima wahhàbita conservatrice La prima è il portato del suo creatore, Osama bin Laden, e dell'ultrasignificato del wahhàbismo, che va ben oltre lo Stato saudita. Nel rigore del loro attaccamento alla missione di rinnovamento, i Wahhàbiti hanno costituito un esempio di ciò che era ed è possibile. La realizzazione della chiamata al rinnovamento ha contribuito alla spinta generale al fondamentalismo nel XVIII secolo. Alcuni musulmani sono stati ispirati direttamente dagli insegnamenti wahhàbiti, altri sono stati indirettamente influenzati da questa spinta generale. La fama dei Wahhàbiti si è diffusa a tal punto che qualsiasi movimento di riforma rigorosamente fondamentalista ha finito per essere chiamato "movimento wahhàbita". I Wahhàbiti costituiscono il più celebre esempio di un movimento musulmano che esige il rigido riconoscimento dell'unicità di Dio, con tutte le implicazioni sociali e morali che ne derivano, e che sostiene la costruzione di una società fondata sull'interpretazione severa e indipendente dei principi dell'Islam. Questo messaggio ha ispirato numerosi movimenti, che vanno dalle guerre sante alle varie revisioni moderniste delle formulazioni medievali. La circostanza che alla guida di al-Qa'ida vi sia un Wahhàbita è uno degli elementi che ha consentito di accomunare, seppur nella divisione in "case", in Afghanistan, nei campi di addestramento, mujahidin di origini tanto diverse. foto ansa Le accuse di apostasia mosse da bin Laden alla famiglia regnante dei Sa'ùd, che traggono origine dalle scelte pragmatiche di 'Abd al-'Azìz ibn 'Abd al-Rahman dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, cioè ai custodi dei due luoghi più santi dell'Islam, dove visse e operò il Profeta, hanno avuto un ruolo dirompente nel mondo musulmano. La tabuizzazione di cui i Sa'ùd credevano di essersi ammantati al fine di rendere più efficace l'esercizio del loro potere, nonché il disegno di espandere la loro influenza nel mondo rinunciando ad ambizioni territoriali, ma implementando quelle confessionali wahhàbite, hanno subito un duro colpo. Tutti i 19 attentatori dell'11 settembre 2001 erano Wahhàbiti, dei quali, ben 15, sauditi. Costoro hanno perpetrato il più spettacolare e micidiale attentato terroristico della storia, e lo hanno fatto nel territorio della Nazione alla quale, con più evidenza, i Sa'ùd hanno sacrificato i dettami wahhàbiti. Il jihad attualmente più importante per il mondo musulmano ha luogo in Irak. L'articolazione di al- Qa'ida in questo Paese ha visto la recente (27-12-2004) nomina del noto Abu Musab al-Zarkawi, precedentemente leader della formazione terroristica da lui denominata al-Tawhid. La scelta ha quindi privilegiato un altro Wahhàbita, allo scopo di implementare la forza di coesione tra le diverse compagini presenti nell'Islam radicale sunnita. La nomina non è quindi stata casuale, pur se certamente favorita dai successi degli insorti guidati dal terrorista giordano, ed è interessante scandagliarne le ragioni. La precedente formazione di Zarkawi era dedicata alla "unicità di Dio" (tawhìd), cioè all'argomento cui Ibn 'Abd al-Wahhàb ha dedicato i suoi scritti più importanti. Per lui il tawhìd era più di un'affermazione monoteistica: era un rifiuto del culto della santità e della venerazione di qualunque altra cosa all'infuori di Dio. In termini intellettuali, quel che scrisse in merito divenne parte del pensiero fondamentalista dell'Islam moderno. I Wahhàbiti fanno spesso riferimento alla "missione dell'unicità di Dio" (da'wat al-tawhìd) e si definiscono "coloro che affermano l'unicità di Dio", o muwahhidùn, proprio come lo Zarkawi, che per rendere ben chiaro il proprio progetto diede il nome della sua missione (da'wa) all'organizzazione terroristica che capeggiava. L'unicità di Dio implica che anche la sfera dell'azione politica ed economica è soggetta a Dio, come lo è la sfera della fede. Qualsiasi azione o credenza che sembri riconoscere autorità ultima o potere spirituale a qualche cosa di diverso da Dio diventa immediatamente politeismo. L'idolatria (sirk) e l'ignoranza colpevole (jàhilìyya) costituiscono una violazione del tawhìd : sono i segnali del vero miscredente. Nel moderno pensiero fondamentalista, il concetto di jàhilìyya è stato allargato fino a includere il rifiuto esplicito della guida fornita dal Corano e dalla sunna all'esistenza degli uomini. Si tratta di una sfida che rende gli uomini miscredenti: contro di essa i musulmani della tradizione wahhàbita sono chiamati al combattimento. La casa saudita si è macchiata di ignoranza colpevole: utilizzando il principio dell'unicità di Dio per fornire giustificazione religiosa ad ogni aspetto del loro programma politico. Un altro concetto fondamentale del programma wahhàbita è l'ijtihàd, cioè, come già visto, il ragionamento informato e indipendente, che deve guidare ciascuno, attraverso una preparazione adeguata, a fondare le proprie opinioni sull'analisi diretta del Corano e della sunna. Chi compie questo genere di analisi servendosi dell'ijtihàd non è obbligato ad accettare le conclusioni dei grandi maestri medievali; anzi, la cieca adesione agli insegnamenti di questi maestri può essere considerata politeismo. I Wahhàbiti, tuttavia, insistendo sullo ijtihàd, non si sono spinti fino a rifiutare per intero la cultura islamica medievale. Al contrario, si sono mantenuti all'interno della tradizione hanbalita, pur considerandosi liberi di spingersi, a volte, oltre i suoi limiti. Nel pensiero di Ibn 'Abd al-Wahhàb questa flessibilità ha aperto la strada a un rifiuto del misticismo sùfì assai più energico di quello che normalmente oppongono gli hanbaliti. Difatti, nella nota lettera sequestrata in Irak ad un corriere di Zarkawi e diffusa dall'Associated Press nel febbraio del 2004, sono inseriti, tra gli obiettivi, anche i sùfì, a conferma della devozione al wahhàbismo delle origini. Devozione che si dimostra anche nei plurimi attacchi agli sciiti, che non trovano solo la loro ragione in una strategia del caos, ma anche nella primitiva da'wa di al-Wahhàb, che prese la forma di una predicazione contro le pratiche religiose popolari e contro la Shì'a islamica. In particolare, Ibn'Abd al-Wahhàb, dopo aver studiato a La Mecca e Medina, proveniente dal deserto del Najd, si trasferì presso la città di Bassora, dove si oppose con fermezza agli sciiti. Agli inizi del XIX secolo, gli eserciti del primo Stato wahhàbita-saudita avevano già saccheggiato i santuari sciiti nel sud-ovest dell'Irak. Naturalmente l'esercizio dell'ijtihàd può giustificare qualunque cambiamento risulti in qualche modo compatibile con i limiti dell'Islam. Questi limiti, secondo bin Laden e Zarkawi, la casa saudita li ha ampiamente superati, anzi, con colpevole ignoranza ha travisato la vocazione di grande rinnovamento sociale cui aspirava al-Wahhàb, adeguandola ai suoi scopi. L'anima neofondamentalista La seconda componente qaidista è il portato della influente frazione egiziana. Esistono, innanzitutto, importanti elementi di contatto tra Wahhàbiti conservatori e neofondamentalisti. L'opera di al-Wahhàb fu considerata con grandissimo rispetto da un importante seguace libanese, Muhammad Rashìd Rìdà (1865-1935), dell'intellettuale egiziano Muhammad 'Abduh (1849-1905). Quest'ultimo, considerato l'architetto del modernismo islamico, si adoperò per rigenerare la religione e purificarla di tutto ciò che egli riteneva essere un'aggiunta aliena e anacronistica rispetto alla dottrina della prima generazione (salaf) di seguaci del Profeta Muhammad. Nel 1897 il Rìdà si stabilì al Cairo e sulla scia del salafismo di 'Abduh, si mostrò contrario a tutto ciò che considerava innovazione, in particolare le credenze e le pratiche sùfì e, nei suoi ultimi anni, si avvicinò fortemente alle opinioni wahhàbite. Secondo il Rìdà la figura del califfo era necessaria, ma non più quale governatore temporale universale, bensì come autorità legislativa superiore e unanimemente accettata. Sottolineò, inoltre, la posizione centrale degli Arabi nel mondo musulmano: l'arabo era la lingua del Corano e delle scienze religiose e, senza gli Arabi, l'Islam non avrebbe potuto essere fiorente. Dall'anno in cui giunse in Egitto, Rìdà fu editore del periodico "Al-manàr", "Il faro", inteso a spiegare le problematiche dell'Islam nel mondo moderno e la sua influenza andò ben oltre il mondo arabo e alcune delle sue idee sono state in seguito adottate dai movimenti neofondamentalisti, in specie quelle relative al ripristino dell'Islam come norma morale della società moderna. Inoltre, quando nel 1928 Hasan al-Banna diede vita alla Società dei Fratelli Musulmani per ricondurre i musulmani egiziani alla coscienza degli obiettivi della religione in una società che, a suo parere, era stata corrotta da ideologie estranee e dalla filosofia materialistica importata dall'Occidente, vide che il regno di 'Abd al-'Azìz ibn 'Abd al-Rahman era fondato proprio sulle dottrine e le leggi dell'Islam. La prima Arabia Saudita fu quindi un esempio cui guardare con ammirazione. Nel tempo, l'ideologia dei Fratelli Musulmani è mutata, e sarebbe un grave errore pensare a rapporti organici tra questa organizzazione ed al-Qa'ida. L'importanza della Società dei Fratelli Musulmani e dei suoi derivati odierni, le jamà'àt (gruppi), sta nel fatto che rappresentano un movimento di protesta espresso con il linguaggio islamico tradizionale, espressione dell'ethos del popolo. La società si fece portavoce della protesta contro l'occupazione straniera che minacciava l'identità di un popolo e la dissoluzione della sua cultura e della sua religione. Parlava al popolo in una lingua che esso capiva e apprezzava, quello dell'Islam e del suo passato storico, senza presupporre nozioni estranee derivate da idiomi dei Paesi più industrializzati, pur usando le tecniche occidentali di comunicazione e di riunioni di massa, e rivestendone le idee politiche con una parlata musulmana. Il principale ideologo e teorizzatore moderno della Società dei Fratelli Musulmani fu l'egiziano 'Abd al-Qàdir 'U'da, le cui idee esercitarono grande influenza sul movimento a partire dagli anni '40 del XX secolo. Egli si fece portavoce della necessità di applicare la sharì'a in opposizione alle leggi umane positive, proponendone la reintroduzione programmatica come soluzione alle difficoltà politiche e sociali dei paesi musulmani. Dopo la condanna a morte di 'U'da nel 1954 con l'accusa di una sua partecipazione al tentativo di assassinio del Presidente Nasser, il ruolo di leader ideologico del movimento passò all'intellettuale egiziano Sayyid Qutb, il quale evidenziò la dimensione cosmica della sharì'a che, in quanto legge divina, garantisce la conformità dell'organizzazione sociale umana con l'ordine di Dio, unico legislatore, e si pone dunque come unica valida risposta alla modernità. A partire dagli anni '70, la grande influenza esercitata dal suo pensiero portò alla nascita di movimenti radicali che vedono nella lotta politica il solo modo per dare vita ad uno Stato islamico. Tali gruppi, però, si sono andati distaccando sempre più dalla loro matrice ideologica iniziale: è il caso, tra gli altri, dei due maggiori sodalizi islamici radicali, che costituiscono oggi l'ossatura egiziana di al-Qa'ida, la Jamà'a al-islàmiyya e il Jihàd al-islàmì, che condannano gli attuali Fratelli Musulmani, accusandoli di essere favorevoli ai governi laici dei quali riconoscono la legalità. L'attuale movimento dei Fratelli Musulmani, infatti, ha preso le distanze dal pensiero di Qutb e si propone, piuttosto, uno scopo missionario e un ruolo sociale, così da islamizzare la società, la politica e la legge musulmana dal loro stesso interno e da promuovere una evoluzione complessiva indirizzata alla creazione di uno Stato islamico. Tali posizioni prevedono, quindi, una sostanziale adesione alle forme democratiche fondate su assemblee parlamentari, forme che sono radicalmente escluse, e anzi negate e considerate peccaminose, dai gruppi musulmani fondamentalisti, i quali respingono anche ogni genere di trattativa o di tregua reputandole attacchi ai principi della religione. I dirigenti del Jihàd al-islàmì, per esempio, subirono nel 1984 un processo che li vedeva direttamente coinvolti nell'assassinio del Presidente Sadat, accusato di essersi alleato con gli ebrei israeliani firmando gli accordi di Camp David, mentre uno dei leader della Jamà'a al-islàmiyya, lo sceicco 'Umar 'Abd al-Rahmàn, è stato condannato negli Stati Uniti quale istigatore dell'attentato compiuto nel 1993 presso il World Trade Center di New York. da www.spazioinwind.libero.it In ambito politico e giuridico, le fazioni dei due gruppi che non hanno assunto atteggiamenti trattativisti con il governo egiziano, concordano nel ribadire la loro netta opposizione alla laicità come pensiero e forma di governo, e nel bollare come colpevole di miscredenza, e fuori della comunità musulmana, ogni regime politico laico, nonché chi ne segue le direttive, dal momento che non si attengono alla legge divina alla quale antepongono le leggi umane. La Jamà'a al-islàmiyya si spinge anzi a ritenere che tra l'Islam e la laicità si combatta una lotta intestina che finirà soltanto con la scomparsa di uno dei due. Conclusioni Al-Qa'ida rappresenta "il piccolo gruppo di volontari" che, nel processo di ricostruzione della umma immaginato dai neofondamentalisti, dà l'avvio all'abbandono della novella ignoranza pagana. Pur essendo fermamente convinte della necessità di ripristinare il califfato delle origini, le formazioni qaidiste non vogliono cadere vittime del logoramento delle energie rivoluzionarie ed, ammettono, quindi, una fase di transizione, ampia quanto sarà necessario, dove esisteranno una pluralità di califfati, in pratica coincidenti con le realtà nazionali dei Paesi musulmani ora governati da apostati. L'ulteriore tentativo di una seconda reviviscenza del califfato è stato concretamente portato avanti dai talebani, con il mullah Omar, in Afghanistan. Ed un'opera di allargamento, con l'istituzione di due altri califfati ed il rafforzamento del primo, è stata a sua volta oggetto di tentativo da parte del leader di al- Qa'ida, Osama bin Laden, attraverso l'omicidio del Comandante Massud e gli attentati dell'11 settembre 2001. L'oligarchia qaidista, dopo essersi resa conto, anche per le pressioni occidentali sul Pakistan, luogo di transito per giungere ai campi di addestramento afghani, di aver ormai esposto l'Afghanistan ad interventi militari mirati di ritorsione ed all'isolamento delle strade di accesso, decide di provocare una reazione statunitense in grado di scatenare rivolte popolari in Pakistan e Arabia Saudita. Realizza così l'assassinio del "Leone del Panshir", il 9 settembre 2001, al fine di indebolire l'Alleanza antitalebana del Nord e quindi frammentarla nell'azione di appoggio agli Stati Uniti, anche per il prevalere di interessi tribali che la morte del capo carismatico avrebbe potuto innescare. Esegue quindi il più grandioso attacco terroristico della storia, al fine di indurre gli americani ad un attacco massiccio e rabbioso all'Afghanistan. Ciò allo scopo di risvegliare i Fratelli Musulmani in due Nazioni ove la politica di intervento militare verso i cosiddetti "Stati canaglia" avrebbe subito un grave scacco in caso di presenza di un califfato. Nel caso del Pakistan, poiché piccola potenza militare nucleare e probabilmente un discreto arsenale di armi biochimiche, e, per l'Arabia Saudita, in quanto custode dei due luoghi più sacri dell'Islam: La Mecca e Medina. Il progetto qaidista non ha sinora funzionato, ma le forze jihàdiste globali continuano a perseguirlo e, indipendentemente da queste, nelle masse musulmane fortissima è ancora l'aspirazione verso la restaurazione dell'autentico califfato. E' interessante notare che la gran parte di quelli che si fecero musulmani quando Muhammad era ancora alla Mecca erano giovani. Fra loro c'erano anche i figli e i fratelli più giovani di alcuni dei più importanti mercanti della città. I mercanti pensavano di potere controllare tutto con la loro ricchezza e la loro abilità e di potersi impunemente beffare della morale tradizionale dei nomadi, specialmente nell'uso della loro ricchezza. Muhammad predicava loro che tutti gli eventi erano, in ultima analisi, controllati da Dio e che c'era una vita futura in cui le loro prospettive dipendevano dalla loro condotta in questa vita. C'erano anche alcune persone di età più matura, appartenenti ai clan meno influenti, e anche arabi estranei alla Mecca e uomini dell'impero bizantino. Gli appartenenti a queste due ultime categorie, alcuni dei quali moderatamente benestanti, per ottenere protezione (una garanzia formale di sicurezza per la propria vita e per la proprietà) si collegavano a uno dei clan della Mecca, ma i clan non sempre erano disposti a mantenere la promessa di protezione. Da questi dettagli si comprende che il movimento di Muhammad non era di carattere proletario o plebeo, quindi non fondato sulla speranza di miglioramento di condizioni di indigenza altrimenti non assicurabile, ma basato sulla fiducia, sul carisma, sulla spiritualità, sul sentimento di giustizia. Quando Muhammad giunse a Medina, inviso ai meccani, (Egira), con i suoi seguaci costituenti il "clan degli emigranti" dalla Mecca, si unì agli otto clan ivi presenti. In effetti, Muhammad era soltanto il capo di uno dei nove clan. Egli era, quindi, ben lontano dall'essere l'autorità assoluta di Medina, ma, gradualmente, a mano a mano che ebbe il sopravvento sui suoi avversari della Mecca, via via che molte tribù arabe si unirono alla confederazione e divennero musulmane, Muhammad arrivò ad avere il controllo quasi incontrastato degli affari di Medina. I vinti venivano trattati con magnanimità e non vi erano pressioni per le conversioni. Conquistata La Mecca, non vi era più alcun capo arabo capace di riunire una forza militare in grado di fare fronte a Muhammad in battaglia. Chi si univa al Profeta doveva rinunciare a combattere contro gli altri aderenti. Muhammad seppe sfruttare le energie dei nomadi, non più dedicate a razzie tribali, espandendosi in Siria e Irak, nonché quelle dei mercanti meccani, la cui abilità organizzativa era indispensabile a sostenere i suoi progetti. La religione dell'Islam era scaturita dal malessere, e Muhammad, con le sue realizzazioni politiche e sociali, oltre che spirituali, era riuscito ad alleviare tale malessere. La storia del Profeta è ben nota ai fedeli musulmani, e, secondo il punto di vista dell'Islam, i governi esistono solo per assicurare che la sharì'a venga amministrata e rispettata in modo corretto. I governi sono subordinati alla sharì'a e devono rispettarne i comandamenti e le proibizioni. In altri termini, l'Islam prevede una sorta di nomocrazia divina, in cui la legge è lo strumento per il controllo sociale: insomma un governo delle leggi, non degli uomini. Se il governo di una società musulmana manca nei suoi obblighi di confermare la sharì'a come legge positiva, oppure se i giudici umani falliscono nel loro obbligo di amministrare la giustizia secondo la stessa, il singolo credente è comunque vincolato a conformare la sua condotta alla sharì'a. Nel giorno del giudizio ciascun musulmano sarà chiamato a rispondere di qualsiasi mancanza personale nei confronti dei comandamenti e delle proibizioni della sharì'a. Ma se un governo fallisce e crea malessere, ed il cittadino è costretto al rispetto individuale della legge islamica, è naturale che ambisca ad un miglioramento delle condizioni collettive di vita ove anche il proprio agire sarà più tutelato. L'obiettivo di questa ambizione, spesso, molto spesso, è il califfato, poiché la sunna ed il Corano sono continuo memoriale del successo di questa forma di governo. |