La Turchia post-imperiale
Sergio Romano
Dopo la fine della Grande Guerra, la Turchia dovette rinunciare al ruolo imperiale che aveva continuato a recitare nel Mediterraneo, nei Balcani e nel Medio Oriente, sia pure con crescente fatica, sino allo scoppio del conflitto. Francia, Gran Bretagna e Italia ne approfittarono per consolidare le posizioni già conquistate nell’area, dal Marocco al Canale di Suez e ai Dardanelli. La parola ‘colonia’, in quelle regioni, stava diventando desueta, ma vi era un’altra parola (‘protettorato’) che rendeva il colonialismo almeno apparentemente defunto, dando qualche soddisfazione alle potenze europee. La Turchia, nel frattempo, stava subendo una radicale trasformazione. Un colpo di Stato aveva portato al potere un colonnello che nel 1911 aveva combattuto contro gli italiani in Libia e, più recentemente, si era distinto contro le forze britanniche a Gallipoli e contro le ambizioni territoriali dei vincitori per il suo Paese. Si chiamava Mustafà Kemal, ma preferì essere conosciuto come Kemal Atatürk (Kemal, ‘il vero turco’). Abolì il califfato e fece dell’Impero Ottomano, sino ad allora la potenza dominante del mondo musulmano, una Repubblica laica che adottò l’alfabeto latino, importò codici europei (quello civile dalla Svizzera e quello penale dall’Italia), abolì il velo, dette il voto alle donne e, per meglio sottolineare l’inizio di una nuova era, trasferì la capitale ad Ankara, un’antica città costruita sull’altopiano anatolico.
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale Kemal era morto, ma i successori ne ereditarono lo spirito e vollero che il Paese, per meglio consolidare le sue riforme, restasse neutrale. La Turchia era ancora uno Stato mediorientale, circondato da nazioni che erano state più o meno ottomane o avevano appartenuto alla sua sfera d’influenza, ma continuò a coltivare le amicizie europee e, quando l’Unione Sovietica cominciò a lanciare segnali minacciosi contro le sue frontiere settentrionali, fu accolta a braccia aperte nella Nato, divenendo contemporaneamente un eccellente partner economico e il migliore alleato dell’Europa e degli Stati Uniti nell’area. Due eventi negli ultimi anni, tuttavia, hanno alterato la natura dei rapporti che la Turchia aveva stretto con l’Occidente, soprattutto al di qua dell’Atlantico.
Il primo evento fu la ‘primavera araba’. Tutto cominciò il 17 dicembre 2010 quando un venditore ambulante di Sidi Bouzid, una città tunisina, si uccise dandosi alle fiamme per protestare contro le angherie di poliziotti che contestavano la validità della sua licenza e sequestravano la sua mercanzia. L’avvenimento non avrebbe avuto gravi ricadute se non avesse coinciso con una calda fase politica e sociale in cui i malumori delle collettività arabe per il malgoverno delle loro classi dirigenti stavano diventando irrefrenabili. Vi furono manifestazioni in Tunisia, che ebbero l’effetto di costringere alla fuga in Arabia Saudita il presidente Zine El-Abidine Ben Ali; in Egitto, dove il presidente Hosni Mubarak sostituì il presidente del Consiglio ma dovette a sua volta piegarsi alla volontà della casta militare che pretese le sue dimissioni; in Libia, a Bengasi, da cui partirono milizie che catturarono e massacrarono il presidente Muammar Gheddafi.
Vi furono manifestazioni anche in Siria da cui scaturì una guerra civile che durò con fasi alterne per alcuni anni. E vi furono disordini, anche se di minore importanza, in Giordania e in Iraq.
In questo guazzabuglio rivoluzionario la Turchia cominciò a godere di una crescente popolarità. Agli occhi di molti, nella regione, era uno Stato moderno in cui esistevano istituzioni democratiche e dove lo sviluppo economico aveva avuto buone ricadute per l’intera popolazione. Il vecchio padrone ottomano, detestato sino a cent’anni prima, era divenuto un modello da imitare. Durante alcuni viaggi vi constatai, per esempio, che le serie televisive turche, più spregiudicatamente occi-dentali di quelle locali, ma pur sempre rispettose di alcuni canoni musulmani, erano diventate straordinariamente popolari.
Per la Turchia, in quegli anni, il principale obiettivo politico era l’ingresso nell’Unione europea, con cui aveva già stretto rapporti di amicizia e collaborazione. Ma il suo ingresso avrebbe esteso ai turchi quella libertà di movimenti per lavoro da un Paese all’altro di cui già godevano gli altri cittadini dell’Unione; e questo sarebbe accaduto in un momento in cui il numero crescente degli immigrati provenienti dall’Africa del nord stava causando reazioni ostili in quasi tutti i Paesi dell’UE. Stavano già apparendo sulla scena quei partiti populisti che avrebbero fatto dell’immigrazione il loro cavallo di battaglia: il Rassemblement National in Francia, nato da una costola del Front National (il partito neofascista di Jean-Marie Le Pen) e qualche anno dopo, in Germania, Alternative für Deutschland, un partito nazionalista, se non addirittura neonazista. I due Paesi temevano di essere particolarmente vulnerabili. La Francia aveva già una comunità musulmana che oscillava fra il 5 e 10% dell’intera popolazione, mentre in Germania i turchi erano quasi tre milioni e il problema dell’immigrazione stava diventando un tema delicato.
I timori francesi e tedeschi costrinsero la Commissione europea a interrompere i negoziati per l’adesione della Turchia e il governo di Ankara non nascose il suo disappunto. Da quel momento la Turchia ritrovò le sue radici ottomane e cominciò a coltivare nuovamente l’amicizia dei Paesi della regione con cui aveva una vecchia familiarità; una scelta facilitata dalla presenza in quella società di un uomo e di un partito che avevano adottato, ormai da alcuni anni, una linea politica alquanto diversa da quella di Kemal. L’uomo era Recep Tayyip Erdoğan, un brillante giocatore di calcio nato a Istanbul nel 1954, che aveva lasciato lo sport per la politica e fatto una rapida carriera sino a diventare sindaco della sua città natale dal 1994 al 1998. Per conquistare il potere nazionale creò nel 2001, con l’aiuto di gruppi islamisti, un partito conservatore che chiamò ‘Giustizia e sviluppo’ (Akp). Se ne servì da allora per trionfanti campagne elettorali con un programma racchiuso nei versi di un poeta popolare: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati». Fu Primo ministro dal 2003 al 2014 e, con un altro balzo, giunse alla Presidenza della Repubblica nell’agosto di quell’anno. Ma l’evento che maggiormente gli permise di consolidare il suo potere fu un discusso colpo di Stato contro la sua persona nel luglio del 2016. Nei giorni seguenti fece arrestare e sommariamente processare le persone, soprattutto fra i militari, che ancora appartenevano alla Turchia di Kemal Atatürk. Da quel momento Erdoğan ha accentuato le connotazioni islamiche del suo Stato e lo ha fatto clamorosamente nel marzo del 2018, quando ha recitato il primo versetto del Corano nella Basilica di Santa Sofia, rinnegando così la scelta di Atatürk che ne aveva fatto un museo. Un anno dopo, nel marzo del 2019 andò oltre restituendola al culto musulmano con un decreto presidenziale. Contemporaneamente Erdoğan manifestava un crescente interesse per l’area geografica in cui voleva realizzare le sue ambizioni. Ne ha dato una prova in Siria dove, durante la guerra civile, quando era preoccupato soprattutto dal problema dei curdi: un popolo che conta circa 35 milioni di individui, divisi fra Iraq, Iran, Siria e Turchia. Si battono per la creazione di una patria comune e durante la guerra civile si dimostrarono, come sempre, ottimi combattenti contro le forze islamiste. Ma Erdoğan era soprattutto preoccupato dalla possibilità che l’irredentismo curdo minacciasse l’integrità territoriale della Turchia e non perse l’occasione di intralciare, per quanto possibile, le loro operazioni militari. Più tardi corse il rischio di un conflitto con la Grecia per il controllo dei giacimenti petroliferi delle zone marittime intorno a Cipro. In altre occasioni la sua maggiore preoccupazione fu di atteggiarsi ad arbitro di conflitti locali o più in là, nel Caucaso, quando l’Armenia e l’Azerbaijan (repubbliche sovietiche fino alla disintegrazione dell’Urss) ricominciarono a contendersi una regione (il Nagorno-Karabach), dove da secoli vivono comunità delle due nazioni. In ciascuno di questi casi Erdoğan ha trovato lungo la strada altri interessi europei (fra cui quelli di Grecia e Russia) e ha ulteriormente accentuato il suo profilo di Stato musulmano. Forse tutto questo non sarebbe accaduto se l’UE non avesse chiuso le sue porte. Ma una Turchia neo ottomana e una Europa sempre più unita troveranno prima o poi, realisticamente, altri terreni su cui incontrarsi con vantaggio di entrambi.