GNOSIS 1/2006
Inaugurazione dell'Anno Accademico 2005/2006 della Scuola di Addestramento del SISDe |
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Da sinistra il Dott. Stefano Folli, il Ministro On. Giuseppe Pisanu, il Direttore del SISDe Prefetto Mario Mori Intervento del Direttore del SISDE Signor Ministro dell’Interno, Autorità, Gentili Ospiti, l’apertura dell’anno accademico è sempre un momento significativo nella vita del Servizio, perché tradizionalmente è l’occasione che consente di aprirsi alla pubblica opinione, derogando dalla normale linea di discrezione. Il rapporto tra intelligence e società civile, in una nazione a democrazia avanzata, è problema di non facile definizione. Gli aspetti trattati da un Servizio ed i conseguenti strumenti operativi usati, comportano canoni di riservatezza che si prestano talvolta a dubbi e critiche. Resta il fatto che, in certi ambiti, l’informalità è un’esigenza ineludibile, universalmente riconosciuta e praticata. Se questa è dunque la condizione per operare, esiste però l’esigenza di informare e il naturale terminale di questa attività è il potere esecutivo. Peraltro, in una società sempre più aperta e condizionata dal “conoscere”, l’informazione corretta diventa un “bene comune”, fatto di cui anche un Servizio deve tenere conto. Forte di questa convinzione, il SISDe ha ritenuto di fornire uno specifico contributo alla conoscenza della materia trattata, modificando con un più marcato orientamento professionale l’indirizzo della propria rivista divulgativa che, come iniziativa editoriale, resta l’unico esempio noto, a livello internazionale, nel settore dell’intelligence. Per questa circostanza e d’intesa con Stefano FOLLI, l’odierno relatore che non ha certo bisogno della mia presentazione, abbiamo scelto un argomento: “Comunicazione e terrorismo” che è pertinente ed attuale, riferendosi alle diverse implicazioni che la trattazione di notizie connesse a materia così delicata comporta. Un problema questo su cui si confrontano i media ed il mondo politico ed istituzionale, ma anche l’intelligence che deve informare col massimo di credibilità; attributo questo direttamente correlato al senso di responsabilità con cui si trattano le notizie disponibili. La comunicazione se gestita correttamente e senza dilettantismi, aumenta la conoscenza e le possibilità di agire; il suo uso superficiale o improprio crea invece disinformazione ed inquina qualsiasi valutazione. Il terrorismo, in particolare quello islamico, ha capito l’importanza della comunicazione e ci inonda di messaggi apocalittici a firma di gruppi che esistono talvolta solo su Internet. Il suo obiettivo è disorientare, creare preoccupazione e minare le certezze del nostro modo di vivere. Internet è sempre più la moschea virtuale di un Islam minoritario ed estremista, che applica al meglio l’esortazione di Bin Laden: “la guerra ai nemici di Dio non si fa solo con le armi, ma anche con la penna e la conoscenza”. A questa offensiva mediatica si deve rispondere aumentando la ricerca informativa ed utilizzando a nostra volta, e senza cedimenti, tutti gli strumenti disponibili per un contrasto efficace, col fine ultimo di allargare il dialogo con la parte sana del mondo musulmano che ne costituisce la stragrande maggioranza. Il complesso di queste iniziative deve porsi l’intento di incrementare non solo il livello di sicurezza reale, ma raggiungere anche lo scopo di migliorarne il senso di percezione da parte del cittadino, sovente incerto e preoccupato da segnali ed indicazioni discordanti e talvolta allarmistici. L’anno appena trascorso ha segnato il declino o la stagnazione di alcune emergenze criminali, a fronte della conferma della pericolosità di altre. Siamo in una fase discendente del terrorismo di natura politica che storicamente si esprime con l’andamento di una sinusoide. Se infatti resiste in pochi, oggi, la convinzione di un’ipotesi rivoluzionaria praticata attraverso la violenza estrema, molti ancora ritengono, per ricorrere al linguaggio disobbediente, che “l’assedio delle moltitudini” possa portare al sovvertimento istituzionale attraverso l’esasperazione del conflitto sociale. Ne sono esempi gli inserimenti estremistici nei casi del termovalorizzatore di Acerra, della TAV in Val di Susa e le attività che ogni giorno si succedono davanti ai cancelli di fabbriche in difficoltà. Si tratta di iniziative che non possono essere sottovalutate, specie in un periodo come l’attuale caratterizzato da una fase economica incerta e nell’imminenza di eventi capaci di attirare l’attenzione anche internazionale e quindi sfruttabili da coloro che coltivano l’illusione del progressivo rovesciamento di questo tipo di società. Fonte di preoccupazione, che incide sulla sensazione di sicurezza collettiva, è anche la crescente aggressività delle bande criminali straniere, in particolare quelle composte da elementi di origine balcanica, specializzate in reati particolarmente odiosi e caratterizzati da violenza sproporzionata. Fatto questo che conferma come certe forme di criminalità sottendano anche un potenziale di natura eversiva. Le varie espressioni mafiose, in questo momento, attraversano una fase caratterizzata da incertezza di direzione o da conflittualità interna, mentre all’esterno, salvo esplosioni episodiche ed improvvise, fisiologiche per queste organizzazioni criminali, cercano di mantenere un atteggiamento di basso profilo che non è però, di per sé, indice sicuro di difficoltà. Infatti, in alcune zone, il potere mafioso ha ancora tale vitalità da porsi, seppure con minore presa rispetto al passato, quale modello di riferimento per parti significative della società civile. In questo momento è comunque il terrorismo internazionale l’emergenza di maggiore impatto. L’anno appena trascorso è stato utile per ridurre ulteriormente il deficit di conoscenza che inevitabilmente si accompagna ad ogni fenomeno nuovo quale è stata per noi, ma direi per tutto l’Occidente, l’emergenza di origine islamica. Cominciamo a capire meglio logiche prima faticose da analizzare. Abbiamo anche migliorato le intese con i Servizi amici, così da poter dare un prodotto informativo più completo. Ci siamo resi conto che l’estremismo islamista è fenomeno a più facce, dove interagiscono livelli diversi, non tutti riducibili al binomio prevenzione/repressione. In questo momento, ad esempio, è importante comprendere perché giovani apparentemente secolarizzati si trasformino rapidamente in fanatici combattenti jihadisti, pronti a sacrificare la propria vita per sopprimerne altre. Probabilmente la motivazione religiosa, da sola, non è sufficiente a spiegare il fenomeno. In Europa i giovani musulmani sembrano esprimere un disagio ed un’insofferenza più complessa e dello stesso segno di quella che ha scatenato la rivolta dei ragazzi maghrebini alle porte di Parigi. Una rivolta, ci dicono i nostri colleghi d’oltralpe, per nulla legata a fattori religiosi e men che meno agli avvenimenti in Iraq. Anche qui la comunicazione può giocare un ruolo decisivo. E’ probabile che ai ragazzi delle Banlieue, come a quelli della Kalsa, di San Salvario o di Secondigliano, stiano mancando interlocutori credibili con i quali confrontarsi. Dobbiamo evitare che questo spazio possa essere occupato dai professionisti del terrore in grado di irretire i giovani immigrati, esercitando la stessa attrazione che in certe realtà producono i modelli mafiosi. Il problema non è facilmente delimitabile. Il terrorismo ideologico, quello delle BR e dei gruppi affini, era anch’esso diffuso, ma pur sempre relegato ad una ristretta fascia dell’estremismo politico. Con quello islamico siamo di fronte ad un fenomeno parcellizzato e trasversale, dove un gruppo di ragazzi “della porta accanto” può fare molto male, anche se per una volta sola. Per questo motivo restiamo razionalmente preoccupati. Non si può infatti escludere di poter subire anche noi, in futuro, attentati come quelli che hanno ferito Madrid e Londra. Non tanto perché siamo andati in Iraq o perché siamo “infedeli”. Forse il motivo vero è che le società occidentali non sono ancora in grado di indirizzare altrimenti certe forme inespresse di rabbia, facendole decantare ed impedendo che si trasformino in volontà distruttive. Questo non vuol dire che, nel frattempo, si resti ad aspettare inoperosi. Tutti gli apparati dello Stato sono impegnati al massimo delle loro possibilità, anche con le inevitabili contraddizioni che, comunque, provano come in Italia la separazione dei poteri esista. Ma se la magistratura ha il dovere di assolvere quando non sussistono le ragioni tecniche per condannare, l’Esecutivo ha l’obbligo di proteggere i cittadini con i provvedimenti previsti dall’ordinamento, quando vi siano i presupposti per applicarli. L’intelligence, in questo ambito, svolge un ruolo importante quale strumento della prevenzione, cui spetta il compito di concorrere ad individuare e definire i rischi, anche potenziali, per la sicurezza, fornendo al potere politico gli elementi per decidere in modo selettivo e giusto. Unica possibilità questa per costruire, in prospettiva, le basi di una condivisione di principi tra culture, tale da rendere praticabile una futura, serena convivenza. Prolusione del Dottor Stefano Folli Comunicazione e terrorismo Il terrorismo moderno è tutt'uno con la società dell'informazione, se ne nutre. Vive in essa. Questo lo scriveva già oltre trent'anni fa il grande studioso della comunicazione Marshall McLuhan, il profeta del villaggio globale. Egli affermava: “Senza comunicazione non vi sarebbe terrorismo. Potrebbero esservi le bombe, potrebbe esservi l'hardware, ma il nuovo terrorismo è software, è elettronica. I terroristi adoperano questa gigantesca arma che è l'elettronica”(1). Quando McLuhan esprimeva questi suoi pensieri non esisteva ancora internet, non esisteva ancora la Cnn, la rete globale dell'informazione era palesemente primitiva rispetto a oggi. Ma la tendenza era chiara per chi avesse voluto vedere il nesso informazione-terrorismo. Nel mondo contemporaneo, nella “società aperta” ben descritta da Karl Popper, noi godiamo gli straordinari benefici di una rete informativa ovviamente senza precedenti nella storia dell'umanità. E tutta la nostra esistenza è calata nell'informazione, ne è positivamente condizionata. Ma c'è un “lato oscuro”. Sì, la società dell'informazione presenta un inquietante “lato oscuro” che coincide, appunto, con l'esposizione al terrorismo. O meglio: coincide con i rischi di una tale esposizione e con la tendenziale, relativa debolezza delle nostre organizzazioni sociali e di sicurezza rispetto all'uso sempre più sapiente e letale che i terroristi contemporanei sanno fare della rete informativa che avvolge il mondo. Il che pone, e non da oggi, problemi delicati e non facilmente risolvibili. Trent'anni fa un sondaggio Gallup dimostrava come gli americani fossero assolutamente divisi su un punto cruciale: se i media dovessero o no fornire una copertura dettagliata degli atti del terrorismo. E un'indagine fra i capi della polizia in trenta città americane dava un risultato che oggi ci pare ovvio, ma che forse allora non lo era: il 93 per cento dei capi delle polizie locali era convinto che il terrorismo traesse incoraggiamento dalla trasmissione in diretta tv delle sue gesta. E inoltre si metteva in luce la relativa impreparazione professionale di molti giornalisti televisivi di fronte al terrorismo. Mentre quest'ultimo, ormai lo abbiamo capito, era perfettamente in grado di capire la psicologia dei media(2). Questo spiega con sufficiente chiarezza un dato che oggi ci è familiare e che forse negli anni Settanta non lo era ancora abbastanza: la crescente “spettacolarizzazione” del terrorismo. Spettacolarizzazione con riferimento alle sue tecniche e ai suoi obiettivi. Vale a dire che nel Duemila il “prodotto” terrorismo si presenta confezionato quasi come un format televisivo, pronto per essere consumato dagli spettatori della tv universale. Questo lo si vede tragicamente l'11 settembre 2001, il giorno in cui si consumò quello che è stato definito “l’evento assoluto”. Ma accade anche nel marzo 2004 a Madrid e nel luglio londinese dell'anno scorso (sia pure in misura minore). Si ha la perfetta conferma di quello che dicevamo all'inizio e di ciò che negli anni Sessanta o Settanta era invece solo intuibile: vale a dire che il terrorismo, quel tipo particolare di terrorismo contemporaneo, non esisterebbe se non fosse pronto per essere inquadrato in uno schermo televisivo. E la televisione ci rimanda l'orrore supremo. Ce lo rimanda per quello che ci fa vedere ma anche - è stato ben scritto da diversi studiosi della comunicazione - per quello che ci lascia immaginare. Come in un terribile gioco di specchi. E' piuttosto evidente. L'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono è stato il più grave attentato terroristico della storia, quanto a numero di morti. Eppure le conseguenze politiche e sociali innescate da quell'attacco sono infinitamente più vaste, drammatiche e durevoli di quanto non sia il numero di morti in sé. E questo proprio per il rimbalzo provocato dall'informazione e dalla spettacolarizzazione del gesto terroristico, che ne viene esaltato. Secondo Umberto Eco, “sin dalla nascita dei grandi circuiti dell'informazione, gesto simbolico e trasmissione delle notizie sono diventati fratelli gemelli: l'industria della notizia ha bisogno di gesti eccezionali e li pubblicizza, e i produttori di gesti eccezionali hanno bisogno dell'industria della notizia, che dia senso alla loro azione”. Eppure non c'è solo questo. L'altro aspetto connesso alla relazione informazione-terrorismo è dato dall'attitudine manipolativa di questa stessa relazione. Ancora Popper, e in Italia Giovanni Sartori(3), hanno messo in guardia sulla funzione negativa della televisione. Sul rischio che la tv ci offra un 'immagine deformata e in definitiva falsa degli eventi. E' stato più volte portato a questo proposito il caso della rivoluzione rumena che rovesciò Ceausescu. Rivoluzione che non si svolse mai, che fu un'abile orchestrazione, ma che tale apparve sugli schermi televisivi che trasmettevano una realtà manipolata. Consapevoli, inconsapevoli? Non lo abbiamo mai saputo con certezza. Ebbene, il terrorismo va al di là dell'uso manipolativo della tv. O per meglio dire, esso la manipola nel sommo grado. Un attentato diventa la guerra mondiale, che si consuma in quell'atto; diventa a tutti gli effetti il sostituto del conflitto tradizionale. Ricordiamo i titoli dei giornali, il giorno dopo quei tragici eventi: attacco all'America, attacco alla Spagna... Non c'è limite alla grancassa mediatica che trasforma un attentato terroristico, per quanto tragico e devastante, in quello che viene poi definito l'evento assoluto. E il senso di onnipotenza che i terroristi spargono intorno a sé non sarebbe possibile senza il sapiente uso dell'informazione. Non è vero infatti che solo attentati molto sofisticati ottengono la spasmodica attenzione dei media. Proprio i fatti di questi ultimi anni dimostrano che non è esattamente così. Se per l'11 settembre l'addestramento, il livello tecnologico e i mezzi finanziari impiegati furono ingenti, lo stesso non si può dire per gli attentati di Londra. Qui si è visto che furono compiuti con pochissimi soldi e zero tecnologia. L'effetto naturalmente non è paragonabile alle Torri, eppure ai fini dell' impatto terroristico, dell'esaltazione mediatica, delle conseguenze sull'opinione pubblica in chiave di paura diffusa, non si può dire che ci sia stata una differenza così grande. Allo stesso modo bisogna essere consapevoli che i terroristi si preparano a un uso ancora più sofisticato dei media elettronici (internet) per mettere a punto sempre nuove minacce e per riorganizzare via via le loro reti operative. In forme che non sono prevedibili, il terrorismo del futuro si svilupperà su nuovi scenari, connessi all'uso sistematico delle reti elettroniche, come profetizzava McLuhan. E con obiettivi devastanti. Proprio di recente, in un intervento sul quotidiano inglese Daily Telegraph, uno dei capi dell'antiterrorismo statunitense, Henry Crumpton, ha detto: “E' solo questione di tempo, ma un attacco di un gruppo terroristico con armi batteriologiche contro obiettivi occidentali è inevitabile. Un attacco con agenti batteriologici costituirebbe una minaccia ben maggiore di un attacco nucleare”. Questo per dire che il terrorismo si evolve. E' vecchio quasi come il mondo, ma cambia pelle meglio di un camaleonte. E' portatore, in ogni epoca, di un'ideologia assurda e mortifera, meglio sarebbe definirlo un ideologismo nutrito di pura violenza e volontà distruttiva. Ma non si può paragonare il terrorismo del nostro secolo con quello dell'Ottocento. Soprattutto se il nostro focus resta il rapporto con i media. E bisogna andare cauti anche nei paragoni fra il terrorismo di oggi e quelli di trenta-quaranta anni fa. In realtà negli anni Settanta il terrorismo come ora lo conosciamo si stava appena affacciando sulla scena del mondo. Vi sono analogie ma anche molte differenze fra quel terrorismo e l'attuale, sempre in rapporto all'informazione. Le Brigate Rosse, ad esempio, sono sospese tra l'antico e il moderno. In loro sembra prevalere un obiettivo politico che non è il dominio dell'informazione (o lo è solo in via strumentale): la priorità è ottenere il riconoscimento da parte dello Stato, attraverso la dimostrazione di una grande potenza militare. Idem in Germania la Raf. Anche lì prevale la volontà di porsi come interlocutore dello Stato, in nome di un'estrema ideologia di classe. Gli aspetti legati all'informazione sono meno curati, anche se naturalmente cominciano a esistere, non sono per nulla assenti. Ma il giornalista è visto a lungo come un nemico, piuttosto che come un utile benchè inconsapevole compagno di strada. L'omicidio di Tobagi e Casalegno, il ferimento di tanti altri giornalisti, è lì a testimoniare di un tentativo di intimidazione, condotto in forme spietate ma rozze. Le redazioni sono viste come strumento della parte avversa, e soprattutto negli anni Settanta non esiste ancora la tv, intendo il giornalismo televisivo, nella forma che abbiamo poi sperimentato. Negli anni Settanta, almeno in Italia, a prevalere è ancora la carta stampata rispetto ai media via etere. Ed ecco quindi gli omicidi di giornalisti, i tentativi di infiltrarsi nelle redazioni, le tecniche mirate. Siamo ben lungi dal terrore di massa di New York e Madrid o dalle minacce di attentati batteriologici che abbiamo detto prima. Se le Brigate Rosse cercavano il riconoscimento dello Stato, gli attentatori dell'11 settembre hanno tutt'altro obiettivo: cercano la destabilizzazione dei governi arabi moderati, la demonizzazione dell'Occidente, il terrore indistinto sparso nelle società democratiche. S'intravede dunque il salto fra vecchio terrorismo, ancora legato a moduli politici di tipo ottocentesco, e nuovo terrorismo dell'era elettronica. Ma chi è o chi sono i personaggi che hanno fatto da ponte fra le due ere? Il precursore del moderno terrorista mediatico è a mio avviso il terrorista Carlos. Le sue azioni sono studiate con la mente evidentemente rivolta all'effetto spettacolare che ne dovrà discendere (vedi l'assalto a Vienna alla riunione dei ministri dell'Opec). Per la prima volta l'uso non solo dei giornali, ma in particolar modo delle tv, diventa parte integrante, direi strutturale, dell'attentato. Carlos inoltre è il progenitore di Bin Laden per la cura ossessiva dell'immagine, per l'attenzione ai dettagli che si sa fanno la gioia dei media. Per la volontà di creare un personaggio intorno al fatto terroristico, un personaggio che vive una sua vita autonoma prima e dopo l'attentato e diventa oggetto di curiosità mediatica, dunque di leggenda moderna. Le videocassette di Bin Laden sono l'espressione più completa di questa tendenza. Basta guardarle. C'è una cura per ogni particolare, si studia l'effetto televisivo di ogni dettaglio. Il libro, l'orologio, il fucile, il mantello. Il senso di onnipotenza del terrorista non è più dato solo dall'attimo dell'attentato, ma si prolunga nel tempo grazie alla figura imprendibile e imprevedibile del capo nascosto nell'ombra, ma pronto a offrirsi alle luci di una videocamera. E chi o che cosa se non la televisione genera questo risultato? Certo non è questione che riguarda la stampa scritta, se non in minima parte. Ed ecco allora una distinzione non di poco conto. Quando parliamo del nesso fra informazione e terrorismo, dobbiamo precisare che quel nesso ha un senso solo se lo riferiamo alla televisione. E' l'informazione televisiva a risultare oggettivamente alleata della strategia propagandistica dei terroristi, mentre la stampa scritta segue un'altra logica ed è meno interessante agli occhi degli attentatori. Non c'è dubbio che questo straordinario salto di qualità del terrorismo ha posto l'informazione di fronte a problemi nuovi, mai sondati prima. In poche parole, l'11 settembre e gli attentati successivi hanno posto il problema di ripensare il mestiere di giornalista in tempi di terrorismo globale. La stampa è stata presa in contropiede e ha avviato (o forse non ancora: comunque sa di doverlo fare) una seria riflessione sul proprio ruolo. E qui il problema si divide in due: uno riguarda il modo di fornire una corretta informazione al di là delle ondate emotive; l'altro investe il sentiero stretto che esiste fra la necessità di non restringere l'area della libertà di stampa e il dovere di non agevolare, in modo certo inconsapevole, i disegni del terrorismo. Cioè di non farsi manipolare da esso. Non è impossibile riuscirci. Circa il primo punto, possiamo senz'altro dire che l'enfasi e la retorica sono senz'altro i nemici più subdoli di una corretta informazione. Il terrorismo punta a diffondere la psicosi di massa, come un'onda d'urto che si allarga dal nucleo iniziale dell'attentato. E' chiaro che l'obiettivo di non farsi manipolare passa per la capacità di non prestarsi a questo gioco... Un giornalismo maturo, allenato a essere tale anche nell'era del terrorismo evita di alimentare la psicosi di massa. Il che non significa nascondere le informazioni; in qualche caso significa semplicemente cercare le informazioni corrette. In altre parole, il buon giornalista si dimostra più forte delle ondate emotive che sono la prima conseguenza degli atti terroristici. Non accade sempre, anzi. Un esempio. Negli Stati Uniti, dopo l'11 settembre, si diffuse la psicosi dell'antrace. Si temevano attacchi ovunque a base di antrace e se ne attribuiva la responsabilità ai terroristi islamici. In questo caso il sistema dell'informazione americano - è stato dimostrato - non seppe mostrarsi all'altezza. Favorì in generale questa interpretazione (la responsabilità esclusiva del terrorismo islamico) quando invece sarebbe bastato consultare gli archivi dell'Fbi per scoprire che gli attacchi a base di antrace erano una costante nella seconda metà degli anni Novanta e nascevano da organizzazioni o gruppi estremisti di tutt'altra natura, interni alla società americana(4). Quindi una grave lacuna da parte della stampa, che non seppe indagare oltre la cortina dell'ovvio. E una responsabilità non meno grande dei poteri pubblici, che lasciarono fare fintanto che poi di antrace non si parlò più, una volta cominciate le operazioni militari in Afghanistan. Ma c'è un altro esempio, che ci riguarda da vicino ed è forse più calzante. Riguarda la tendenza dell'informazione ad esasperare i toni, a enfatizzare, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Nel caso in questione c'è stata per molto tempo la tendenza ad accentuare la realtà del fondamentalismo all'interno del mondo islamico. E' evidente che il fondamentalismo esiste ed è la prima causa del terrorismo. Ma non aiuta la lotta contro il terrorismo diffondere l'idea che l'universo musulmano sia un monolite condizionato di fatto, in tutto e per tutto, dagli estremisti e dagli integralisti. Viceversa è nostro interesse, e deve anche essere interesse della stampa, favorire in ogni modo le distinzioni. Proprio su questo terreno si assiste troppo spesso a un errore di prospettiva in base al quale i fondamentalisti sono accreditati di uno spazio maggiore di quanto non godano in realtà nel mondo arabo; mentre all'opposto i moderati, coloro che faticosamente lavorano per democratizzare i paesi islamici, coloro che hanno più bisogno di sostegno per far sentire la propria voce, vengono penalizzati, appaiono più emarginati di quanto non siano nelle dinamiche dell'universo islamico. E' un errore gravissimo. I fondamentalisti alimentano il terrorismo e quest'ultimo trasmette la falsa idea che il mondo islamico sia composto solo da integralisti. Questa distorsione è, anche in questo caso, un prodotto dell'emotività nell'informazione. Si perde la capacità di porsi domande, di investigare. Ci si consegna alla manipolazione del terrorismo quasi in maniera inavvertita, esaltando per l'appunto il ruolo dei fondamentalisti proprio come vogliono Bin Laden e i suoi seguaci. Esistono anche casi, sporadici, in cui questo schema logico viene rovesciato, in cui si usano le immagini prodotte dal terrore per scuotere le coscienze e produrre un sussulto che non è paura, ma il suo esatto opposto: è volontà di reazione. E' quello che ha fatto in Italia a suo tempo Il Foglio, pubblicando le foto della decapitazione degli ostaggi in Iraq. Con l'obiettivo dichiarato di risvegliare l'opinione pubblica. Ma potè farlo con successo proprio perché si trattava della provocazione di un piccolo giornale che si rivolgeva a un pubblico particolare e selezionato. I grandi network scelsero, giustamente, di non trasmettere quelle stesse immagini nella convinzione che sul grande pubblico, raggiunto in modo indiscriminato, avrebbero avuto effetti negativi e controproducenti. Credo di poter dire, anche in base alla mia esperienza personale e professionale, che in questi anni le voci che hanno saputo “stare ai fatti” non sono numerose, sono anzi una discreta minoranza. Ma è grazie a queste voci che il giornalismo italiano non è rimasto prigioniero delle logiche terroristiche e invece, dopo qualche sbandamento, ha forse ripreso la sua strada di verità. Almeno vogliamo sperarlo. Quindi non si tratta di nascondere i fatti, di ignorare le notizie. In casi eccezionali i direttori dei grandi giornali possono concordare con i rappresentanti del potere pubblico la non pubblicazione di elementi che potrebbero palesemente aiutare il terrorismo. Ma si tratterebbe, è evidente, di casi eccezionali. Nella quotidianità quello che si chiede alla stampa è di fare meglio, non peggio, il suo lavoro. Di cercare la verità con maggiore e non minore impegno. Spiegare ai lettori, ad esempio, che l'Islam non è solo integralismo e che esiste un forte elemento umano moderato su cui far leva per migliorare le ragioni della convivenza: ecco una missione in cui ritroviamo una cifra assolutamente giornalistica, nella migliore accezione del termine. Perché i giornali, non bisogna dimenticarlo, hanno da sempre un ruolo pedagogico, di educazione civica del lettore. Un ruolo che talvolta negli anni recenti è andato smarrito ed è grave. Quindi informazione e pedagogia civile. Un nesso inscindibile. Ma anche uno scudo prezioso per evitare, per quanto è possibile, che il giornalismo televisivo, ma anche quello scritto, possano diventare ostaggio del terrorismo. Pur sapendo, lo abbiamo visto, che proprio questo è quello che tende ad accadere di fronte agli “eventi assoluti”. C'è il rischio della pigrizia, il rischio di una visione passiva del ruolo del giornalista che invece è attivo, cercante. Talvolta c'è anche l'incapacità di cogliere tutti i pericoli che derivano da questa passività. Ribadisco quindi che è un falso dibattito se il giornalista debba o no accettare, in nome dell'interesse nazionale, di omettere alcune notizie. E' un falso dibattito perché prima di questo stadio viene l'altro, che riguarda il modo più generale in cui la stampa “racconta” il terrorismo. E qui siamo ancora per molti aspetti all'anno zero. Gli inglesi, patria della libertà di stampa, ci hanno dato sotto questo profilo una lezione importante. Negli attentati di luglio ha colpito tutti l'understatement con cui sono state trattate le informazioni via via che affluivano. Al di fuori di qualsiasi enfasi, con grande sobrietà. Senza nascondere nulla, ma anche senza cadere nell'esaltazione involontaria degli effetti dell'attentato. Lo stesso numero di morti, più di cinquanta, lo si è saputo solo molti giorni dopo. E si è arrivati alla cifra giusta attraverso uno stillicidio quotidiano che però ha impedito che si spargesse il panico nelle prime ore. La stampa in quel caso ha svolto la sua parte. Non ha nascosto nulla, ma ha evitato di essere cassa di risonanza dell'attentato. Forse è la prima volta che è successo. Anche l'uso delle immagini televisive è stato di rara sobrietà. Questa vicenda ci dimostra che svolgere bene la funzione di giornalista è possibile, senza con ciò agevolare i terroristi. Credo che l'esempio inglese debba essere tenuto bene a mente da tutti noi. E' una questione di misura, di modo di dare le notizie. Di umanità, potremmo dire. Aggiungo che il primo nemico da sfuggire è la passività di fronte ai fatti e alle notizie, tanto più di fronte a quelle clamorose come è un attentato devastante. Il buon giornalista proprio in quei frangenti cerca e scava. E per esempio evita di porre al centro della scena i fondamentalisti come se fossero rappresentativi dell'intero mondo islamico. Abbiamo parlato prima del “lato oscuro” dell'informazione: l'uso che di essa fanno i terroristi. Ma va detto in conclusione che la rete elettronica offre straordinarie opportunità anche a chi combatte il terrore. Probabilmente oggi un altro attentato come quello dell'11 settembre sarebbe impensabile. In questi quattro anni la prevenzione e il coordinamento internazionale hanno fatto passi da gigante, non ho bisogno di dirlo io a chi è protagonista di questa attività. Dico solo che se Internet e le infinite connessioni della rete informativa sono uno strumento in mano ai terroristi, esse costituiscono al tempo stesso la più efficace arma preventiva contro il terrorismo stesso. Analogamente lo scambio di informazioni offre opportunità crescenti, al di là delle barriere politiche, superando le distanze amministrative e psicologiche tra gli Stati. Ho ricordato all'inizio la verità conclamata che il terrorismo non esisterebbe senza informazione. Credo che si possa concludere dicendo che il terrorismo può morire per mano dell'informazione. Se solo quest'ultima cessa di farsi cassa di risonanza e diventa invece quello che è: lo strumento possente e micidiale in mano alla democrazia contro i suoi nemici. Intervento del Ministro dell'Interno Signor Direttore, Autorità, Funzionari, Ufficiali, nell´anno che si è appena concluso il terrorismo internazionale di matrice islamica ha purtroppo continuato la sua offensiva, colpendo di nuovo sia l´Europa con la strage di Londra, sia i Paesi arabi che chiamiamo moderati con i gravissimi attentati di Sharm el Sheik ed Amman, sia l´area caucasica con il raid armato dei terroristi ceceni a Nalchik, sia l´estremo Oriente con l´attentato suicida di Bali. Un terrorismo dunque "globale", come la società di questo inizio di millennio, che proprio nella comunicazione di massa ha uno dei suoi tratti caratterizzanti. Il rapporto tra comunicazione e terrorismo, tema certamente non nuovo, diventa così un argomento centrale per la riflessione di tutti coloro che, a diverso titolo e in contesti diversi, rivestono responsabilità pubbliche legate alla sicurezza. Oltre che, naturalmente, per tutti gli operatori dell´informazione (come ci ha or ora spiegato Stefano Folli). E lo diventa soprattutto in un Paese come l´Italia, ormai da tempo oggetto di vere e proprie e sistematiche aggressioni mediatiche via internet, le quali mirano ad innalzare la nostra percezione di rischio, facendo leva su una indubbia conoscenza dell´attualità politica nazionale. Va da sé che la minaccia telematica non innalza, ma neppure attenua, i rischi più concreti ai quali siamo come tanti altri paesi europei oggettivamente esposti. Il rapporto tra comunicazione e terrorismo è, con tutta evidenza, uno degli aspetti più delicati del grande problema di fondo che le democrazie devono affrontare ogni giorno: il tema dell´equilibrio tra libertà e sicurezza, tra autorità dello Stato, si intende, e libertà. Vale la pena di aggiungere che, in questo caso, si tratta di una libertà particolarmente delicata, che, in un´occasione, la Corte Costituzionale ha definito letteralmente come pietra angolare dei sistemi democratici: e cioè la libertà di manifestazione del pensiero e di informazione. Dunque, il tempo speso a meditare su questi problemi è sempre speso bene e non sarà mai troppo. Da qui il mio sincero ringraziamento a Stefano Folli per la sua prolusione, così ricca di considerazioni allo stesso tempo acute, pacate e chiarificatrici, cosa che le rende ancor più apprezzabili, se consideriamo che egli parlava poco fa nella sua veste, in questo caso non comoda, di giornalista e commentatore politico. E non è certo per un formale obbligo che ringrazio il Direttore del Servizio: intanto,per la scelta del relatore e del tema della prolusione; e ancora per le sue chiare valutazioni sullo stato della sicurezza nella immediata vigilia di grandi eventi, come le Olimpiadi invernali e le elezioni politiche generali del prossimo aprile. Ma, soprattutto, desidero ringraziarlo per la preziosa collaborazione che mi ha dato in questi anni difficili, per l´impegno e l´alta qualità professionale che ha riversato nell´assolvimento del suo delicato incarico, rinnovando il prestigio della nostra intelligence anche sul piano internazionale. Un grazie, dunque, caro prefetto Mori, consapevole, sentito e per niente occasionale. Come già il 2004, anche il 2005 si è chiuso con un bilancio largamente positivo per l´attività del sistema di sicurezza nazionale, ferma restando, naturalmente, l´attualità della minaccia del terrorismo internazionale, la cui complessità è stata ben descritta poc´anzi dal Direttore nel suo intervento introduttivo. Questo è un bilancio positivo soprattutto se guardiamo all´attività di prevenzione, che più direttamente chiama in causa i Servizi di informazione e sicurezza. Purtroppo, come ho detto altre volte, è quasi sempre impossibile "certificare" i frutti di questo lavoro perché, se mi è consentita l´espressione, è assai difficile parlare di ciò che sarebbe potuto accadere e invece non è accaduto in virtù dei nostri sforzi; mentre in tante altre occasioni quei risultati non possono essere resi noti per elementari obblighi di riservatezza. Eppure, lo scorso anno, a Roma, si è svolta una serie di eventi che, in un certo senso, fa eccezione alla regola che ho appena accennato: mi riferisco alle grandiose cerimonie che hanno segnato la fine del pontificato di Papa Giovanni Paolo II e l´inizio di quello di Benedetto XVI. In un breve lasso di tempo Roma è stata meta di enormi flussi di pellegrini e, in particolare, la cerimonia funebre di Papa Wojtila ha fatto registrare il più grande raduno all´aperto di Capi di stato e di governo della storia dell´umanità. Tutto si è svolto tranquillamente, in perfetto ordine, senza che nulla turbasse la solennità dell´ora né, sopratutto, la sicurezza dei presenti. E´ solo un esempio, naturalmente, ma mi piace citarlo perché in quell´occasione l´efficienza del nostro sistema di sicurezza ha meritato elogi ed apprezzamenti da tutte le parti del mondo. E, aggiungo, che gli elogi più consapevoli erano motivati tanto da ciò che si era visto e sentito, quanto da ciò che non si era potuto né vedere né sentire. Ma più di ogni altra cosa, di quella prova così brillante personalmente voglio sottolineare la coralità, la capacità cioè di agire in maniera coordinata che tutte le componenti del sistema hanno saputo dimostrare sul campo, interpretando fedelmente quella che è stata la nostra filosofia operativa di questi anni. Il coordinamento tra le forze di polizia, e la sempre più stretta interazione tra queste e gli apparati di intelligence, sono ormai un patrimonio acquisito, e dobbiamo sforzarci di accrescere ogni giorno questo patrimonio, facendo di ogni nuova tappa un punto di non ritorno ed il trampolino di lancio per nuovi traguardi. Non sarei, però, completamente sincero e ostinato come naturalmente sono, se non facessi oggi riferimento a quella che considero una carenza assai grave del nostro complesso sistema di sicurezza: mi riferisco alla mancata riforma dei Servizi di informazione per il superamento del modello binario. A costo di essere monotono, voglio ripetere che in una realtà politico-istituzionale democraticamente consolidata e stabilmente aperta al gioco dell´alternanza, non c´è più spazio per le vecchie perplessità sulla concentrazione dei poteri in un unico organismo di intelligence. In tempi di minaccia terroristica globale, la configurazione unitaria degli apparati di informazione e sicurezza è un imperativo cui non possiamo sottrarci, se davvero vogliamo metterli all´altezza dell´avversario. Servono con urgenza maggiore compattezza organizzativa, flessibilità operativa, e gestione efficiente delle informazioni. Dobbiamo liberarci rapidamente delle remore che affliggono il sistema da trent´anni: interferenze, duplicazioni, spreco di risorse, eccesso di burocrazia a danno dell´operatività. Tutto ciò che ho letto ed ascoltato in quest´ultimo anno sull´argomento, non ha modificato in nulla la mia convinzione che occorra puntare su un Servizio unico a competenza generale, dipendente dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Il quale non diventerebbe, così, un temibile padreterno, il quale, peraltro, è già oggi non solo il massimo responsabile, ma anche il coordinatore dei Servizi. Quindi non ci sarebbe nessun pericoloso accrescimento di potenza nella mani del Presidente del Consiglio. Naturalmente il nuovo organismo dovrebbe essere articolato in branche diversamente specializzate e il Presidente del Consiglio coinvolgerebbe, a seconda dei casi, il Ministro dell´Interno, il Ministro della Difesa e tutti gli altri ministri eventualmente interessati per le rispettive attribuzioni e i probabili obiettivi della minaccia. La distinzione binaria tra Servizi interni e militari è vecchia come il cucco. Alla intelligence è oggi interessato l´apparato industriale o il sistema della ricerca scientifica più di quanto non lo sia, magari, l´organizzazione militare del Paese, la quale, peraltro, si avvale già di Servizi propri altamente specializzati ed è bene che li valorizzi. L´elemento di chiusura di questo sistema dovrebbe essere costituito da una efficiente organizzazione dei controlli, primo fra tutti quello del Parlamento, fatte salve ovviamente le esigenze di riservatezza delle attività controllate. Ma su questo tema mi sono pronunziato ormai a sufficienza e in tutte le sedi competenti e non voglio qui dilungarmi. Ho solo sentito il bisogno disinteressato come non mai di richiamarlo ancora una volta nel momento in cui la legislatura sta per concludersi con una sorta di vittoria di Pirro ascrivibile a fragili motivazioni politiche o, peggio ancora, a piccoli interessi conservatori annidati nel sistema. L´ovvia conseguenza è che la riforma dovrà passare nell´agenda del nuovo Parlamento. Se le Camere, come mi auguro, riusciranno finalmente a concludere l´opera, ne trarranno giovamento il sistema di sicurezza, le capacità decisionali del Governo e, da ultimo ma non certo per ultimo, gli stessi operatori dei Servizi di informazione e sicurezza i quali hanno diritto a strutture, strumenti operativi e regole di comportamento più efficienti. Con questa viva speranza, ed in ossequio alla tradizione, dichiaro aperto il nuovo Anno Accademico della Scuola di Addestramento del SISDe, Grazie. |
1) Cfr. Francesca Rizzuto, Le strategie comunicative del terrorismo nell'era dei media elettronici, in Torri Crollanti.Comunicazione, media e nuovi terrorismi dopo l'11 settembre a cura di Mario Morcellini, Franco Angeli ed., Milano, 2002.
2) Cfr. Robert Kuppermann, Darrell Trent, Terrorism. Threat, reality, response, Hoover Institution, Stanford University, 1979. 3) Sartori Giovanni, Homo videns, Laterza, Bari, 2000. 4) Cfr. Roberto Gritti, In nome di Dio: terrore, religione e media, in Torri Crollanti, op. cit. |