D. In Calabria è presente tra le più pericolose organizzazioni mafiose italiane: la ’ndrangheta. Quanto di calabrese c’è in essa?
Marina Valensise - Molto. Intanto l’origine, e conta moltissimo. Poi il radicamento, che resiste a dispetto dell’internazionalizzazione, e anzi viene addirittura perseguito coinvolgendo direttamente le nuove generazioni e alimentando i legami familiari di sangue, come spiegano gli inquirenti, e questo al fine di evitare che l’organizzazione si trasformi in un’asettica multinazionale del crimine. Infine c’è la somma di questi due fattori che è l’imprinting. Gli esperti parlano di antica civiltà, di gente fredda, pronta a tutto, capace di vivere nella dissimulazione e tenere le emozioni sotto controllo, perché “conoscono l’uomo”.
Salvatore Boemi - La ‘ndrangheta è da sempre un vero e proprio ordinamento criminale essenzialmente ed esclusivamente calabrese. In Calabria, infatti, una delle realtà più significative del dopoguerra è rappresentata proprio dalla malavita organizzata che, nonostante il sottosviluppo ambientale, è riuscita ad assicurarsi potere e risorse. Per un organismo vissuto fino a quel momento d’intermediazione, la seconda metà del secolo passato ha portato cambiamenti sostanziali poiché dalla consolidata mediazione si è rivolta verso la ricerca e l’accumulazione sfrenata di capitali.
E’ stata quella, in definitiva, la stagione in cui le consorterie calabresi hanno conquistato, armi in pugno, spazi economici nuovi gestendo i ricavi in svariate forme di attività paralegali; è stata quella la stagione dell’incontro con alcuni uomini dell’imprenditoria e della politica mentre il latifondo agrario veniva lentamente abbandonato, dopo aver costituito la maggiore risorsa delle famiglie mafiose calabresi. Quella che ritroviamo ad operare, quindi, con ritmi davvero incalzanti, negli ultimi tempi, è una organizzazione tra le più attrezzate e moderne, anche perché riesce ad operare al di fuori degli angusti confini regionali con una azione di vera e propria colonizzazione mafiosa.
Fabrizio Feo - Risponderei a mia volta con una domanda: chi può essere così presuntuoso da dire di aver capito come e dove pulsano il centro, i centri, motori delle ‘ndrine e di aver compreso di quanti strati è fatta la pelle della ‘ndrangheta… Nessuno che sia davvero saggio.
Io credo che la ‘ndrangheta abbia una sua “specificità”, qualcosa che ne farà sempre una “forma” criminale diversa da altre mafie: penso dunque che quando anche sembra assomigliare, proporre metodi e formule tipici di altre mafie, rimane impenetrabile e “calabrese”, pressoché interamente. Non si può dimenticare che essa più di qualsiasi altra "forma" criminale italiana, più della stessa mafia siciliana, mantiene una sorta di "fedeltà" alle origini, alla tradizione, alla strutturazione su base familiare. Questo è un indiscusso punto di forza e di originalità: e rimane tale, qualunque sia stata la portata del processo di modernizzazione di questa organizzazione criminale negli ultimi 15 anni e per quanto sia accertato che parti consistenti di essa hanno costruito stabili rapporti di interscambio di mutua assistenza soprattutto con organizzazioni criminali di altre aree del globo. In più, la ‘ndrangheta è riuscita - pur trasformandosi – a reggere l’impatto dalla legislazione che ha consentito si formasse la tanto discussa eppur importantissima figura del collaboratore di giustizia. Ne è uscita praticamente indenne. E’ riuscita a rimanere da un lato impermeabile a processi di sfaldamento e a rigenerarsi. Infine non ha copiato, subìto, rimasticato, moduli organizzativi visti altrove. È cresciuta per numero di aderenti e fiancheggiatori, ha conquistato gli ultimi angoli di Calabria sfuggiti alla sua legge, ha formato nuove " ’ndrine" e "locali", e ha diffuso colonie nel resto d’Italia e in mezzo mondo, ha accresciuto la propria capacità di penetrazione ai piani alti della politica e della economia: ma è riuscita a farlo sempre rimanendo con i piedi ben saldi nella terra che, si può dirlo, "occupa" e rimanendo se stessa anche quando tratta affari da grande organizzazione globale.
Enzo Ciconte - Perché dire "tra le più pericolose"? Oggi la 'ndrangheta è la più pericolosa perché ha alcune caratteristiche che altre organizzazioni non hanno: è impiantata in Calabria, è la più radicata nelle regioni del centro e dell'Italia settentrionale oltre che in molti paesi stranieri, ed ha una tale affidabilità criminale da essere l'interlocutrice principale dei cartelli colombiani per la vendita di cocaina, settore dove è riuscita a sostituire Cosa Nostra duramente colpita dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dalle indagini che fino a qualche anno fa si erano concentrate proprio sulla mafia siciliana. I mafiosi calabresi hanno abilmente sfruttato il periodo in cui erano in un cono d'ombra perché tutti i fari erano puntati sulla Sicilia e su quanto accadeva nell'isola.
La 'ndrangheta è un prodotto calabrese che però è debitrice prima della camorra e successivamente della mafia siciliana. Quando la camorra, agli inizi dell'ottocento, era una struttura criminale di tutto rispetto, ampiamente e da tempo conosciuta, la 'ndrangheta era ancora in fasce. Sboccerà più tardi, nei primi decenni dopo l'unità, ed è probabile che i riti d'iniziazione e la terminologia mafiosa siano il frutto di una contaminazione della criminalità calabrese con la camorra che a sua volta contaminerà anche la mafia siciliana. Altre affinità si possono cogliere con la mafia siciliana. Per venire a tempi a noi più vicini, fra le due strutture mafiose i rapporti furono molto stretti a partire dagli anni cinquanta del Novecento.
Luigi De Sena - Il termine ‘ndrangheta trae origine dal greco ‘agathia andròs’ che significa uomo di valore. La ‘ndrangheta nasce, infatti, tra le classi subalterne per contrapporsi al potere costituito e, talvolta, sostituirlo in taluni compiti esclusivi, come il dare giustizia. Così come per la mafia e la camorra, prevale, infatti, nella mentalità comune una interpretazione eroica e le cosche mafiose vengono viste come strumento di assistenza e protezione dei più deboli.
Da un punto di vista più generale, la ‘ndrangheta trova poi un fertile humus nei vincoli di sangue e nei rapporti parentali, tradizionalmente fondanti la società calabrese. La stessa suddivisione in ‘ndrine è semplificativa della connotazione familiare che ha la ‘ndrangheta.
Ed è proprio nel prevalere del vincolo familiare su ogni altro valore, la connotazione spiccatamente calabrese della ‘ndrangheta che la rende impermeabile alle sollecitazioni esterne e, quindi, particolarmente forte.
D. La ’ndrangheta riesce a controllare pervasivamente l’area di origine e a gestire competitivamente le più qualificate attività criminali transnazionali, tra cui la droga. Quali ritenete siano i suoi “fattori di successo”?
Valensise - Primo, la perversione di una virtù, come la conoscenza dell’animo umano, a fini di dominio dispotico. Secondo, la degenerazione di una passione, come l’onore: funzionale in una società aristocratica dominata dalla nobiltà e dalla gerarchia, diventa, in una società slabbrata come quella calabrese, afflitta da mali endemici e da ritardi storici, un principio di corruzione dell’insieme, pur essendo percepito da chi lo subisce come un elemento di coesione sociale, come un vincolo comunitario. Terzo, la diffusa indifferenza verso la dimensione pubblica, che deriva dal primo e dal secondo punto. La conoscenza dell’animo umano, l’esperienza associata all’atavismo alimentano un complesso di superiorità, che finisce per tradursi nel menefreghismo nei confronti della società.
Il senso esasperato dell’onore, svuotato di una sua funzionalità in un mondo di cittadini eguali, portatori di pari diritti, investe quella presunta superiorità e l’indifferenza verso l’insieme della società di una sorta di rivalsa vindice e giustiziera. Credo sia questo che spieghi, nel profondo dell’animo di chi subisce il fenomeno mafioso, la fascinazione che paralizza e induce all’omertà.
Boemi - Le modalità e l’operatività mafiose che avevano consentito alla ‘ndrangheta di controllare risorse e profitti del comparto agrario regionale sono state di recente trasferite ed utilizzate nella scalata al più redditizio settore commerciale ed imprenditoriale. Commercio ed impresa sono diventati, quindi, in Calabria e lungo la penisola i nuovi campi di tale perversa azione; ovunque le famiglie del crimine hanno aperto o controllato esercizi commerciali, scoperto i vantaggi derivanti da tali attività investendo su tali comparti le risorse provenienti dai tradizionali interventi criminali. L’imposizione del cosidetto “pizzo”, i flussi monetari ricavati dai traffici internazionali di sostanze stupefacenti, l’uso crescente di operazioni usurarie hanno, infatti, determinato l’accumulo di risorse monetarie enormi che la ‘ndrangheta è solita reimpiegare nei nuovi campi d’intervento.
Le regole di malavita da sempre presenti ed operanti non sono di certo cadute in prescrizione; anche oggi in Calabria qualsiasi opera pubblica continua ad essere rigorosamente sottoposta alla dazione di una tangente. Siffatta disarmante realtà rischia di risultare, perfino, riduttiva di fronte alla capacità del “Socio ‘ndrangheta” di partecipare ed avere la meglio nelle gare di appalto, di gestire in modo esclusivo ogni forma di sub-appalto e fornitura, di controllare in regime di monopolio, perfino, il mercato del cemento.
Tale emergenza finisce, peraltro, con l’avvicinare in modo nuovo il carattere predatorio della ‘ndrangheta tradizionale con la sua recente capacità di utilizzare anche i meccanismi provenienti dal mercato moderno. Essa è infatti allo stesso tempo causa ed effetto di un livello avanzato di relazioni interdipendenti e di “partnership” tra economia ed impresa legale ed economia ed impresa criminale. La pericolosità e il “successo” di tale organismo criminale trova, pertanto, fondamento nella sua comprovata capacità d’aggiornarsi, d’evolversi ed essere attuale e moderna.
Feo - Da anni nelle sue richieste di ordinanza di custodia cautelare, in particolare contro le cosche della 'ndrangheta impegnate nei grandi traffici di droga su scala planetaria, il sostituto procuratore della Repubblica Nicola Gratteri descrive una organizzazione completa ed eccezionalmente compartimentata. Una mafia capace di curare con le sue famiglie, senza apparenti contrasti, il grande affare della droga: praticamente dal momento in cui la foglia di coca lascia la pianta a quello in cui c'è da studiare le politiche di marketing in Europa, fino al successivo lavoro di occultamento e reimpiego di quantità così imponenti di denaro da creare spesso un "imbarazzo" alle stesse cosche che non sanno dove metterlo... Insomma gli atti di accusa di Gratteri parlano di una organizzazione moderna, che fa delle sue ferree regole, e della impenetrabilità, l'olio che fa girare il meccanismo.
Una organizzazione che ha in una insaziabile sete di potere la ragione della sua inarrestabilità, della sua capacità di piantare sempre nuove bandierine dal Sudamerica al Nordamerica, all’Australia, al Nord Europa. Così la ‘ndrangheta ha saputo anche conquistare nuove caselle in uno specialissimo Monopolio fatto da più di dieci anni di sofisticate operazioni bancarie e finanziarie su scala internazionale e perfino arditi traffici di titoli di credito negoziati… con partners agguerriti smaliziati come gli emissari di alcune delle più potenti famiglie di Cosa Nostra newyorkese.
Le ‘ndrine parlano con autorevolezza ai colombiani come ai russi anche perché presentano una "casa madre", delle retrovie, sicure, colonie diffuse, dove il rispetto dei legami familiari, di relazione, è legge , dove il "tradimento" è una "malattia” che se compare viene debellata sul nascere. Capacità dunque di incutere terrore e al tempo stesso di garantire affidabilità, l’abilità che ci vuole per saper cambiare molte maschere, ma al tempo stesso mantenere tratti inalterabili, dunque riconoscibili, forgiati nel bronzo.
Ciconte - I "fattori di successo" sono tanti, ma indubbiamente quello principale appare la struttura della 'ndrangheta che poggia essenzialmente sulla famiglia naturale del capobastone. I parenti stretti - figli, fratelli, nipoti, zii, cugini - del capobastone appartengono di norma alla 'ndrina. Per fortuna loro e per fortuna nostra non tutti i familiari stretti del capobastone sono a loro volta degli 'ndranghetisti, ma il grosso dei familiari è ritualmente affiliato. C'è un turbinio d'incroci parentali e una girandola infinita di matrimoni che contribuiscono ad allargare e a rafforzare la 'ndrina del capobastone. Non deve sorprendere l'uso dei riti formali tra parenti, perché le cerimonie mafiose hanno un alto valore simbolico e di suggestione.
Tra le altre cose, esse servono a cementare legami, frequentazioni e rapporti. Il rito è una festa, come lo sono le feste di compleanno, quelle dell'onomastico, del battesimo, della prima comunione o del matrimonio. Nella 'ndrangheta c'è l'uso di battezzare i figli del capobastone o di altri personaggi influenti, già nella culla. E' evidente, però, che quel neonato sarà affiliato formalmente solo se se ne mostrerà degno.
Per un lungo periodo storico la struttura familiare è stata irrisa perché considerata segno dell'arretratezza di una criminalità che era organizzata ma che, secondo illustri opinionisti e studiosi, in tema di modernità non poteva certo competere con la mafia siciliana. Questo aspetto ha contribuito non poco a far circolare la errata convinzione che la 'ndrangheta fosse una mafia di serie B, un sottoprodotto della mafia siciliana. Contrariamente a queste opinioni la struttura familiare ha funzionato come un formidabile scudo protettivo ed ha arginato il fenomeno dei collaboratori di giustizia.
La 'ndrangheta è così diventata più affidabile di Cosa Nostra agli occhi dei narcotrafficanti internazionali i quali, da esperti e navigati commercianti, vogliono lavorare tranquillamente, al riparo da sorprese non gradite e gravide di problemi infiniti quali quelli che possono insorgere con le dichiarazioni dei collaboratori.
Il secondo fattore di successo - strettamente connesso a quello appena sommariamente descritto - è determinato dalla scelta strategica della criminalità organizzata calabrese di impiantarsi e di radicarsi nelle regioni del centro e del nord Italia e in alcuni paesi stranieri che prima erano stati fondamentali per il contrabbando di sigarette estere e che in seguito sarebbero diventati cruciali per il narcotraffico.
C'è da dire che tale scelta maturò con il tempo, ma appena fu fatta coinvolse le famiglie più numerose e più prestigiose della 'ndrangheta. Queste avevano visto che al centro-nord si erano spostate grandi masse in cerca di lavoro. Tra di loro sicuramente vi erano degli 'ndranghetisti. Insieme, confinati ed emigrati legati alla 'ndrangheta, cominciarono a creare le prime basi, le teste di ponte iniziali. Nessuno, tranne i sindaci dei comuni dove c'erano i soggiornanti, si accorsero della pericolosità di quelle presenze. Le denunciarono, ma le loro lamentele non trovarono accoglienza nei governi dell'epoca. E così, nella sottovalutazione più generale, la 'ndrangheta mise piede in quei territori.
Che ci fosse un reticolo molto vasto di 'ndrine diffuse nel territorio delle regioni centrali e settentrionali lo si vide durante la stagione dei sequestri di persona quando gli ostaggi catturati in quelle città furono trasportati in Calabria per essere custoditi negli anfratti dell'Aspromonte.
Il terzo fattore di successo fu l'ingresso dei mafiosi calabresi nel contrabbando delle sigarette estere. Entrare in quel mondo significava valicare i confini regionali, venire in contatto con criminali di altri paesi, penetrare rotte illegali transnazionali.
De Sena - La ‘ndrangheta presenta regole interne, gerarchie e statuti che servono a garantire dignità alle sue azioni e l’accettazione di esse da parte dell’adepto.
Impermeabilità alle ingerenze esterne, omertà e spiccata capacità di adeguarsi al mutare del contesto sociale ed economico sono i principali fattori di successo di questa organizzazione.
Impermeabilità è la capacità di ‘fare muro’ in difesa dei propri spazi di potere, attraverso la costituzione di una rete invisibile ma impenetrabile di collegamenti e connivenze a tutti i livelli che non consente devianze o tentennamenti, tant’è che la ‘ndrangheta, a differenza della mafia siciliana, conta un numero ridottissimo di pentiti.
L’omertà è il silenzio che circonda le attività mafiose, la parola d’ordine che regola i rapporti interni e le collusioni esterne.
Alla rigidità delle strutture istituzionali ed economiche che caratterizzano la Calabria legale, spesso vincolata da disorganizzazione gestionale e da vaste aree di inefficienza, corrisponde una organizzazione illegale improntata alla massima flessibilità, notevolissima capacità operativa e diabolico intuito finanziario ed affaristico.
A tali fattori si aggiunge il dispotismo: la ‘ndrangheta, infatti, è passata dalla tradizionale attività parassitaria (estorsioni, imposizioni della guardiania, accaparramento della proprietà fondiaria), al più redditizio traffico di sostanze stupefacenti, favorita dalla capillare presenza, in punti strategici (Stati Uniti, Canada e Australia), di immigrati calabresi. Tale passaggio, segnato da centinaia di omicidi, ha consentito alla ‘ndrangheta di posizionarsi ai vertici di associazioni delinquenziali internazionali. Il nucleo operativo di questa organizzazione resta, comunque, la Calabria.
D. La conoscenza e il contrasto a Cosa Nostra hanno “sicilianizzato” l’impegno antimafia. Ritenete che gli schemi maturati in Sicilia possano valere efficacemente anche in Calabria?
Valensise - A condizione che si riesca ad adattarli a un contesto diverso e a un costume mentale ben più impenetrabile e complesso.
Boemi - E’ evidente che ignorare l’esperienza “siciliana” nel contrasto dei poteri mafiosi presenti in tutti i territori meridionali costituirebbe un grave ed imperdonabile errore.
In Calabria la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria non ha avuto alcun tentennamento nel tentare di riprodurre “il modello falconiano” ed ha, pertanto, unitamente all’operazione “Olimpia” (500 indagati e 600 imputazioni) istruito e portato a definizione procedimenti per reati associativi che hanno consentito, in pochi anni, l’individuazione e la condanna di affiliati di sessantaquattro consorterie mafiose operanti nella provincia reggina. Va sottolineato, però, che il contrasto alla mafia nel nostro Paese continua ad essere condotto“per stagioni” e così come il pool palermitano venne azzerato nel 1988 dal dirigente dell’Ufficio del Giudice Istruttore, le nuove Direzioni Distrettuali sono state, di fatto, stravolte a seguito delle disposizioni di una nota circolare consiliare. Falcone, le sue idee ed i suoi metodi continuano, pertanto, ad essere ignorati e perfino contrastati come del resto lo erano stati durante la breve “primavera palermitana”.
Feo - Io penso che le “esperienze” siciliane possano essere un bagaglio importante, ma che la lotta alla ‘ndrangheta richieda scelte e strumenti originali, calibrati sulla complessità di questa forma di mafia che spesso è stata sottovalutata - e lo è anche ora - e comunque conta su un vantaggio fatto di decenni di disattenzione. Io credo oggi non si possa dire: “…non commettiamo l’errore di valutare la ‘ndrangheta con gli strumenti usati per Cosa Nostra, come se fosse Cosa Nostra” quasi a voler sottolineare che la ‘ndrangheta è meno articolata, priva di disegni unitari, di strategie, di penetrazione nei gangli della società.
Le indagini coordinate negli anni scorsi dal procuratore Boemi ci dicono che in Calabria il campo è occupato, come in Sicilia e anche in Campania – ma forse in modo più asfissiante, oppressivo - dalle manovre di spregiudicate consorterie politiche che convivono, affiancano o si fondono con organizzazioni mafiose. Consorterie politiche, organizzazioni mafiose che in Calabria come in pochi altri posti del mondo hanno fatto della vita in simbiosi, della capacità di fusione, una tecnica sopraffina.
E le regole, anche quelle che riguardano l’eliminazione fisica o le minacce agli avversari - basta riascoltare, rileggere, le dichiarazioni di un ex assessore regionale a proposito del tentativo di omicidio compiuto ai suoi danni - paiono decise nei palazzi in cui i due poteri si incontrano.
La serie interminabile delle oscure storie di Reggio comincia in realtà già ai tempi di “boia chi molla”, della rivolta, dell'attentato al treno Freccia del sud, delle commistioni con gli interessi della massoneria deviata, quando la ‘ndrangheta ai livelli di vertice assume altre forme... basta pensare che Reggio è una città dove colletti bianchi e perfino mafiosi dichiarati, complici o succubi della ‘ndrangheta, sono stati spesso fatti passare per vittime della mafia.
E’ una storia lunga che nessuno ha mai voluto indagare... o che, per essere precisi, è costata parecchio ai magistrati che hanno voluto ficcarci il naso....Una storia che è diventata “metodo”, e alla quale appartengono episodi per così dire inspiegabili più recenti: da lupare bianche eccellenti fatte passare per allontanamenti volontari, atti di intimidazione dallo strano tempismo, in nome, per così dire, di una sorta di “par condicio” delle vittime tra gli schieramenti politici, l’improvvisa vulnerabilità, nell’ultimo biennio, di decine di latitanti, di una folta pattuglia di capi nomi di prima grandezza, arrestati dopo anni di latitanza, ingressi in carcere che potrebbero far pensare ad una strepitosa vittoria dello Stato sulla ‘ndrangheta… una vittoria che come dimostra, da ultimo, il delitto Fortugno non c’è… mentre c’è forse un cambio di pelle di cui lo stesso delitto, forse, è un passaggio….
Ciconte - Alcuni schemi possono funzionare, altri no. Il punto di difficoltà maggiore consiste nel pieno controllo territoriale di una regione dove i piccoli centri sono davvero una realtà rilevante. In Calabria non c'è una grande città come Napoli o come Palermo. Esiste un reticolo di piccoli e piccolissimi comuni, che hanno poche migliaia di abitanti e un altrettanto vasto numero di comuni attorno ai 10.000 abitanti. In una grande città queste cifre sono irrisorie perché popolazioni di tali dimensioni sono contenute in un caseggiato o al massimo in uno spicchio piccolo di un quartiere.
La differenza sostanziale è che in una città spesse volte gli uni non conoscono gli altri, mentre in un piccolo comune calabrese tutti conoscono tutti e il controllo sociale, anche laddove non ci sia la presenza mafiosa, è forte ed asfissiante. In queste comunità l'intreccio familiare ha contaminato anche famiglie che per tradizione non erano mafiose, ma che a seguito di matrimoni con donne provenienti da famiglie mafiose quanto meno risultano condizionate e prigioniere di una logica parentale che impedisce una libertà di azione e di movimento.
De Sena - L’esperienza siciliana, per i motivi prima indicati, è solo parzialmente applicabile alla ‘ndrangheta. Di fatti, è pressoché assente il fenomeno del pentitismo che, in Sicilia, ha invece consentito di raggiungere risultati importanti.
Quali, allora, gli strumenti da utilizzare?
Nel Programma Calabria, varato nel luglio 2004 e via via implementato dal Ministero dell’Interno, sono indicate le linee strategiche d’intervento che conciliano attività di prevenzione e di repressione in un circolo virtuoso che comprende anche misure a forte impatto socio-culturale, tese a catalizzare l’attenzione e le energie delle componenti sociali più innovative.
Occorre, tenendo conto della volontà di riscossa che proviene - in primo luogo - dai giovani, avviare un processo reale che esalti la solidarietà tra società ed istituzioni, estirpando le organizzazioni criminali ed il malcostume delle aree di collusione, fiancheggiamento e indifferenza che le alimentano.
Primario strumento di questa attività è il ricorso massiccio alle misure di prevenzione personali ma, soprattutto, patrimoniali, poiché la lotta alle cosche passa innanzi tutto, attraverso la disarticolazione della immensa disponibilità economico-patrimoniale dalle stesse accumulate.
Ma occorre anche rivitalizzare la Pubblica Amministrazione, attraverso un riesame puntuale ed autocritico delle proprie attività per individuare soluzioni idonee ad assicurare massima legalità, efficienza ed efficacia alle attività burocratiche.
Particolare attenzione deve essere data agli Enti locali che costituiscono il front office delle istituzioni rispetto alla società civile, attraverso appositi protocolli che coinvolgeranno anche le organizzazioni sociali, economiche e di volontariato.
Con lo strumento del PON Sicurezza, è poi in via di realizzazione una serie di iniziative rivolte per un verso a potenziare le capacità operative delle forze di polizia e per altro verso a favorire percorsi di recupero della legalità rivolti, soprattutto, ai giovani.
Infine, occorre capillarmente apporre l’attenzione sugli appalti pubblici, con particolare riguardo a quelli delle opere considerate strategiche per lo sviluppo del territorio, attraverso un costante monitoraggio dell’attività cantieristica per impedire infiltrazioni mafiose ma anche dello stato di realizzazione delle opere.
D. L’aggressività intimidatoria delle cosche si rivolge anche ad amministratori e impiegati pubblici. E’ un segno di forza o di debolezza della ’ndrangheta?
Valensise - E’ un segno di forza, perché nasce dalla convinzione di assoluta impunità e cresce nella certezza dell’adesione incondizionata da parte di pubblici amministratori e impiegati al sistema criminale delle cosche.
Boemi - Ciò che traspare in modo evidente da tali “segnali ambientali” è, a mio avviso, l’esigenza imprescindibile del crimine organizzato di evidenziare la propria presenza nel contesto in cui è chiamato ad operare. La malavita calabrese è, ormai, da tempo votata al controllo di ogni forma di attività economica, ricerca l’accertamento, la partecipazione, la distribuzione dei ricavi del comparto pubblico come del privato.
L’avvertimento al pubblico amministratore è, quindi, funzionale e quasi necessario per ricordare che senza “l’entità mafiosa” presente sul territorio non è possibile programmare, produrre e, quindi, anche amministrare. L’agire intimidatorio patito da tanti uomini pubblici in Calabria non deve essere visto come una manifestazione di forza o di debolezza ma piuttosto quale espressione logica ed inevitabile del “presenzialismo criminale” col quale bisogna, anche da parte dei pubblici amministratori, di continuo confrontarsi e soprattutto contrapporsi.
Feo - Un dato non va dimenticato: il delitto Fortugno arriva dopo tre anni di incessante assalto - della 'ndrangheta, della criminalità comune, di interessi particolari comunque “disponibili” all'uso della violenza - agli enti locali calabresi, a molti degli amministratori che tentano di garantirne il funzionamento secondo legalità come ad altri, tanti purtroppo, che pur avendo scelto di stare dalla parte delle cosche o di muoversi in una pericolosa terra di nessuno fatta di inaccettabili compromessi, non riescono a rispettare patti scellerati.
Dunque l'esecuzione in un seggio delle primarie del vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria può presentarsi ad una analisi dell’insieme dello scenario come una escalation attesa. Quanto meno ricorda in modo crudo che non si deve perdere di vista la gravità dell’insieme della situazione calabrese.
E se le risposte emergenziali non possono svelare i retroscena nell'immediato del delitto Fortugno - a meno di clamorosi colpi di fortuna, o di scorciatoie - tanto meno si può immaginare che abbiano conseguenze positive sull’ insieme della situazione calabrese… una situazione che - lo ricorda spesso il sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia Vincenzo Macrì - nonostante tutto non diventa “questione nazionale”. E come si fa a non considerare “questione nazionale” quella della Calabria, al tempo stesso regione tra le più depresse d'Europa e casa madre di una delle economie criminali più forti del globo? Io non credo che l’aggressività intimidatoria delle cosche nei confronti di pubbliche amministrazioni e pubblici funzionari sia sintomo di forza o, al contrario, di debolezza. Penso semplicemente si tratti, per le dimensioni che il fenomeno ha assunto, di una vera e propria “politica” della mafia calabrese. Anche per questo mi sembra riduttivo che per decifrare l’omicidio Fortugno, il momento più alto dell’aggressione, si usino chiavi interpretative e di indagine ancorate alle dinamiche dei conflitti di cosca locali. Possono dirci magari chi ha premuto il grilletto… ma temo non basti.
Guai ad attribuire ad una pista, importante come altre ed insieme ad altre, il valore di strada unica e maestra per la spiegazione dell'omicidio Fortugno, magari sotto la pressione di qualche calcolo preelettorale. Motivazioni ed entità diverse possono aver pesato insieme nella scelta di uccidere Fortugno. L’omicidio potrebbe essere tante cose insieme: un agguato maturato deciso a Locri e nella Locride , delitto politico mafioso, deciso per dare un messaggio al nuovo governo calabrese, e forse non solo, per far sapere che dire che in Calabria l'ultima parola comunque non spetta alla politica... o piuttosto omicidio voluto per eliminare una figura che poteva diventare ingombrante, scomoda, o che lo era diventata nel momento stesso in cui era stata eletta, un uomo che aveva detto dei no o che poteva dirli…
Qualunque sia la matrice ha comunque una forza devastante, per la politica, per la società civile calabrese ma anche nazionale.
Il primo passo per uscire da questa spirale toccherà ancora una volta alla politica e il banco di prova è vicinissimo: saranno le elezioni per il rinnovo delle Camere. Quando sarà importante - ed interessante - vedere quali saranno stati, ancora una volta, i cambi di casacca non spiegabili con la tensione ideale e scelte genuinamente politiche, quali saranno i nomi inclusi ma anche esclusi e i posti nelle liste. Un problema che riguarda sia la maggioranza che l’opposizione non solo in Calabria. E vedremo pure se chi è stato coerente contro le cosche verrà premiato o punito.
Ciconte - In teoria dovrebbe essere un segno di debolezza perché se un mafioso non riesce ad ottenere con le buone quello che vuole ottenere vuol dire che c'è qualcosa che non funziona ed allora è costretto a ricorrere alle misure forti. Temo, però, che in Calabria negli ultimi anni questo assioma non funzioni e credo che i più di 300 attentati intimidatori sono un punto di forza come ha mostrato peraltro l'assassinio del vice presidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno.
Le vittime sono imprenditori, commercianti, uomini politici, amministratori comunali, provinciali e regionali. L'economia e la politica sono sotto scacco. C'è stata - ed è ancora in atto - una ristrutturazione armata dell'economia e della politica. Ancora, però, manca una riflessione sul significato da dare a questa fase della scelta politica della 'ndrangheta, perché non v'è dubbio che di questo si tratti e non di altro.
Non c'è una sola categoria interpretativa entro la quale far rientrare l'insieme degli attentati. Le spiegazioni sono tante, ma tentando una prima e molto generale sintesi si possono ridurre a tre. La prima: attentati contro dirigenti politici o amministratori onesti che si oppongono agli interessi delle 'ndrine, di qualunque natura essi siano. La seconda: attentati contro amministratori che nel corso delle competizioni elettorali avevano promesso; in questo caso gli atti intimidatori sono una sorta di memorandum, una sollecitazione a mantenere le promesse perché, da che mondo è mondo, pacta sunt servanda, soprattutto quando questi siano sottoscritti con i mafiosi.
La terza: gli attentati rientrano in una nuova categoria che comprende semplici cittadini i quali, non avendo ottenuto dagli amministratori quanto avevano richiesto, hanno pensato di ricorrere al classico metodo dell'intimidazione mafiosa pur non essendo dei mafiosi, ma ritenendo che ricorrere ai mezzi e alla cultura mafiosa potesse essere uno strumento in grado di far ottenere quanto, per altra via, non erano riusciti ad ottenere. Non c'erano i mafiosi in carne ed ossa, ma il loro modo di risolvere le questioni, il loro modus operandi.
Perché tutto ciò per gli ‘ndranghetisti è una forza e non una debolezza? Perché hanno scommesso sull'incapacità dello Stato e dei partiti coinvolti a reagire, se non addirittura a comprendere quanto stesse accadendo essendo i fatti stessi sminuzzati in tanti episodi apparentemente separati l'uno dall'altro. Nessuno se ne interessava. I fari si sono come per incanto accesi sulla Calabria solo dopo l'omicidio Fortugno. L'omicidio è di quelli che fanno riflettere perché è del tutto anomalo nella storia e nella tradizione della 'ndrangheta che ha sempre teso a non richiamare su di sé l'attenzione della grande stampa e degli inquirenti.
Chi ha armato la mano del killer di Fortugno? Le ipotesi sono due: fattori locali, probabilmente legati all'ospedale dove Fortugno lavorava assieme alla moglie; oppure fatto di valenza più ampia. Naturalmente, a poco tempo dal fatto è difficile dare una risposta esauriente alla domanda. Tra l'altro mancano del tutto i collaboratori di giustizia sicché i segreti della 'ndrangheta sono sicuramente i meglio custoditi. In occasioni del genere tocchiamo con mano quanto la politica del governo, seguita negli ultimi anni in questo specifico settore, sia stata sbagliata ed abbia prodotto effetti devastanti.
L'azione di delegittimazione dei collaboratori ha prodotto tutti i suoi frutti avvelenati ed oggi gli inquirenti sono privi di uno strumento importante. Inoltre, non sappiamo come si siano modificati gli assetti interni a seguito di un numero rilevante di latitanti importanti che sono stati catturati. Quali volti hanno i nuovi capi della 'ndrangheta? E, soprattutto, quegli uomini finiti nelle mani delle forze dell'ordine sono stati catturati o sono stati consegnati agli investigatori?
E' possibile fare solo delle rapide considerazioni su entrambe le ipotesi. Il punto di partenza del ragionamento deve essere la modalità dell'esecuzione - davanti a tutti - e il luogo dove l'agguato si è consumato, il seggio elettorale. Se la motivazione è da ricercare in fatti locali - legati all'ospedale o ad altri affari poco importa - perché dare quell'enorme risonanza ad un omicidio che nella migliore tradizione della 'ndrangheta poteva essere commesso con modalità meno clamorose? C'è ancora un'altra cosa da considerare: a Locri da anni c'è una sanguinosa faida che nessuno, neanche gli emissari della 'ndrina di San Luca, sono riusciti a far concludere. Secondo gli accordi che nel 1991 hanno sancito la pace tra le 'ndrine di Reggio Calabria dopo la guerra iniziata un quinquennio prima, le faide avrebbero dovuto terminare all'istante pena la chiusura del rispettivo locale. A Locri non si è ottemperato a questa regola, e dunque il 'locale' di 'ndrangheta è stato chiuso.
Chi poteva, allora, decidere di uccidere un uomo politico come Fortugno e nel modo in cui è stato ucciso? Se la decisione è stata presa solo a Locri, allora qualcuno che sta più in alto consegnerà gli assassini e i mandanti, incasserà la benemerenza immediata che naturalmente avrà un immenso valore a futura memoria. Finora gli autori dell'omicidio non sono stati scoperti né sono stati consegnati. Non è una circostanza di poco conto perché dal momento che non è accaduto, ciò vorrebbe dire che nella 'ndrangheta ognuno farebbe quello che vuole, cioè ci sarebbe un'anarchia assoluta.
Ciò contrasta con il fatto che a partire dagli accordi di pace prima ricordati tra le 'ndrine più influenti della 'ndrangheta della provincia di Reggio Calabria si è creato una specie di coordinamento federativo che nel mentre continua a lasciare piena autonomia alle singole 'ndrine per gli affari correnti, le vincola a decisioni superiori per i grandi affari economici e gli omicidi di personalità pubbliche che possono richiamare attenzioni e interessamenti non desiderati.
La mancata consegna degli assassini - autore materiale e mandanti - fa prendere in considerazione l'ipotesi che la pista non sia locale. Allora dobbiamo immaginare una decisione che è stata assunta fuori di Locri e che ha pianificato esattamente il luogo e la data dell'omicidio che non sono stati scelti a caso, ma per una precisa logica criminale. Le modalità e il luogo indicano che si è trattato di un omicidio di 'ndrangheta e per la precisione di un omicidio politico - 'ndranghetista.
De Sena - L’intimidazione è lo strumento che le cosche utilizzano usualmente per affermare il loro predominio. Più alto è il livello di scontro, più incisiva è l’attività intimidatoria.
Per combattere e vincere questa guerra contro la criminalità organizzata occorre, dunque, fare sistema perché le cosche hanno facile successo laddove si trovano di fronte all’isolamento dei protagonisti positivi del territorio.
Ciò che favorisce la ‘ndrangheta è la capacità di agire in modo sotterraneo attraverso un sistema di diffuse coperture che occorre scardinare, spezzando la rete di collusione e collegamenti ma anche di noncuranza, disattenzione ed approssimazione.
Il no detto da un pubblico amministratore o da un pubblico ufficiale provoca, ovviamente, reazioni intimidatorie e solo attraverso una unità d’intenti tra le Istituzioni, che si trasforma poi in prassi consolidate di difesa costante e generalizzata della legalità, si può spezzare l’omertà o la reticenza.
D. Quali strumenti, al di fuori di quelli investigativi, possono creare le condizioni per una più diffusa e condivisa opposizione sociale alla mafia?
Valensise - L’azione della cultura, la rieducazione civica, la diffusione di modelli alternativi e vincenti. Servirebbe un’opera capillare di pedagogia sulle giovani generazioni, che mostrando gli svantaggi del sistema criminale, la paura, la mancanza di libertà, lo schiavismo dispotico, la perdita di occasioni per intraprendere in modo onesto e produttivo, riuscisse a fare leva sulle stesse “virtù”, e sulle stesse “passioni” del calabrese esaltate dalla ’ndrangheta, per convertirle in positivo, per trasformarle in risorse di un nuovo vivere civile.
La condizione per rendere tutto questo possibile è nell’accettazione di una soglia di tolleranza zero nei confronti dei fenomeni mafiosi e della loro capacità intimidatoria. Bisognerebbe insomma riuscire a destituirli di significato, prima che di forza.
Boemi - E’ innegabile che ancora oggi larghe fasce della società meridionale sconoscano la natura ed i modelli organizzativi della mafia e tale ignoranza finisce col determinare ulteriori penalizzanti negatività. Sarebbe necessario, al contrario, una reale e generalizzata presa di coscienza collettiva del “pericolo mafioso” che di certo non si indebolisce con marce, fiaccolate e manifestazioni del cosiddetto “popolo dell’antimafia”. Sarebbe necessaria una vera e propria rivoluzione culturale basata sulla conoscenza del crimine organizzato da parte di una società civile che, in realtà, da sempre si presenta drammaticamente divisa, quasi spezzata in due, da distinte fazioni. Ed infatti col partito maggioritario degli onesti e delle vittime della violenza mafiosa convive, coesiste e coabita quella parte della società che invece mantiene con i poteri mafiosi costanti relazioni, stringe patti, sottoscrive accordi, costituisce società ed imprese.
Opporsi al crimine organizzato oggi significa, da parte dei calabresi, far chiarezza, prendere coscienza che la ‘ndrangheta non è una entità isolata, distante ovvero esterna e che la fascia grigia della “contiguità” politica, professionale, imprenditoriale ed istituzionale esiste e deve essere oggetto d’indagini, per poi essere condotta in giudizio, punita con rigore e coerenza.
Una opposizione reale ed incisiva alla ‘ndrangheta non può, in definitiva, prescindere dalla individuazione e dalla disarticolazione dei suoi attuali numerosi alleati.
Feo - Innanzitutto si deve affrancare la Calabria dalla disoccupazione diffusa, dalla povertà. So che non è una indicazione originale ma indubbiamente si tratta di un passo decisivo. Sono necessari investimenti, sviluppo, occupazione e poi educazione alla legalità, un intervento massiccio nelle scuole, promozione di ogni iniziativa tesa a coagulare e organizzare la risposta della società civile. E c’è naturalmente bisogno di chiarezza anche nel campo di chi si professa schierato tra le forze antimafia, dove non di rado si annidano opportunismi, protagonismo, interessi da bottega se non addirittura giochi occulti.
Questa è la strada. Però non si può percorrerla se manca affidabilità delle pubbliche amministrazioni, se le coscienze non sono libere, sia per paura sia per atavica consuetudine a vivere i rapporti sociali politici ed economici, la vita quotidiana di relazione, sottostando a padronati, magari diversi ma di comune matrice, dentro quel reticolo di regole non scritte che è imposto dalle appartenenze o dalle sudditanze a lobby, logge e consorterie…
A monte - bisogna dirlo senza giri di parole - un secolo e mezzo dopo l’unità politica del Paese, il problema è ancora quello del controllo di un territorio che formalmente riconosce le leggi dello stato italiano ma è costretto, di fatto, a rispettare altre norme, vive in realtà una vita più “separata” ancora da quella che vivono altri pezzi del Sud dove ogni giorno le leggi vengono aggirate…
E questo non credo sia in discussione a meno che qualcuno non voglia negare che vengano compiuti centinaia di attentati ogni anno o l’esistenza dei cunicoli dei latitanti scoperti a Platì dai Carabinieri e dal Genio guastatori…
Ciconte - L'azione repressiva da sola non basta e non arriva al cuore del problema se non diventa parte di una strategia più complessiva. La 'ndrangheta è un prodotto della storia ed è il frutto di come si sono intrecciati i rapporti tra le classi sociali, i rapporti economici, di potere e politici in un lungo periodo storico dall'unità d'Italia ad oggi. Mentre l'attività investigativa, pur con gli alti e bassi, ha avuto una sua continuità, non sempre altri segmenti della società hanno mostrato un'adeguata sensibilità ai problemi o una continuità nel contrasto alla penetrazione mafiosa.
Si pensi, tanto per fare degli esempi, al ruolo avuto dal sistema economico e finanziario - a cominciare dalle banche -, dal sistema imprenditoriale - particolarmente a quello legato al sistema delle imprese edili - o a quello della Chiesa - a cominciare dalle sue gerarchie centrali e periferiche. Non c'è dubbio alcuno che un'azione sinergica sul terreno antimafia di queste tre grandi realtà farebbe fare un salto massiccio nell'azione di contrasto.
Occorrono inoltre altri interventi che si possono sintetizzare in tre punti. Il primo riguarda la politica, nel senso che occorre recidere i legami tra le varie mafie e la politica e le istituzioni. Le mafie si fanno forti di questi rapporti, mentre questi rapporti indeboliscono la politica e le istituzioni. Serve una vera e propria bonifica, molto profonda. Essa va fatta e va fatta dai partiti che non devono accogliere nelle proprie liste uomini delle mafie o legati alle mafie come è largamente accaduto sinora.
Questo è un punto decisivo. I partiti avranno la volontà - o la forza - di non candidare loro esponenti rinviati o condannati, seppure non ancora in via definitiva, per fatti inerenti al rapporto con la mafia?
Se i partiti - tutti - operassero questa svolta allora si potrebbe aprire una stagione nuova, forse storica, perché significherebbe che l'insieme della politica e dunque delle istituzioni locali e nazionali - è intenzionata a debellare il fenomeno della mafia che dal periodo borbonico fino ad oggi ha sempre ricercato - ed ha avuto - rapporti e legami con la politica e con pezzi delle istituzioni.
Chi non opererà in questa direzione si assumerà la responsabilità di dare ossigeno alla criminalità organizzata.
Il secondo riguarda la necessità di continuare nella confisca dei beni in mano ai mafiosi. Solo se s'impoverirà il mafioso, questi non avrà la forza economica di continuare le proprie attività.
Il terzo, la scuola perché è tra i banchi di scuola che cresce la cultura della legalità e la cultura più in generale che è nemica d'ogni forma d'oppressione e di totalitarismo com'è sicuramente quello mafioso.
De Sena - Occorre favorire la creazione di un tessuto culturale condiviso, soprattutto, dalle nuove generazioni, supportandole nella costruzione di percorsi di legalità e di rispetto delle norme che regolano il vivere sociale.
I contatti continui tra istituzioni e mondo della scuola, secondo prassi peraltro già operanti sul territorio calabrese, sono sicuramente utilissimi ma vanno ulteriormente implementati attraverso nuovi, proficui momenti di confronto che coinvolgano tutte le componenti della società civile.
Nell’ambito del Programma Calabria, è stata difatti prevista la realizzazione di un percorso polivalente che avrà proprio i giovani ed in primis quelli della Locride, tra i protagonisti del riscatto della Calabria.
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