GNOSIS 1/2006
STORIE DI CASA NOSTRA La sorgente promessa la Sicilia che cerca il suo tempo |
|
La Rivista propone un bozzetto di fantasia sulla realtà dell’entroterra siciliano alla fine degli anni ‘80. Qui, la mafia è meno visibile ed eclatante, eppure mette in risalto ancor più le dinamiche quotidiane che alimentano il fenomeno criminale. Situazioni in cui, di là dall’apparente banalità del racconto, aleggiano le tensioni successive al ‘maxiprocesso’ e la profonda e disincantata attesa di rinnovamento in Sicilia. Speranze di neofiti dell’antimafia, della gente comune, dei mafiosi che hanno perso tutto. Quando non c’era che il sogno. Quando ancora la Storia doveva fare il suo corso, i suoi morti e le sue nuove tensioni repressive. Un passato che potrebbe essere anche il nostro futuro. da www.sperimentaleleonardo.it/itinerari/lavoromafia1 “Ehi, non puoi immaginare quanto sia difficile trovarti…” “Paolino, sai che ho cambiato…” “Lo so, lo so… Pensi che non si sappia che sei nei Servizi? Chi sparisce dall’annuario degli ufficiali senza essere morto e senza essersi congedato? Uno spione!” “Sono abbastanza intelligente da non pensare di tenere segreta l’appartenenza al Servizio…” “Eppure qualche collega fa il misterioso... Pensa che in certi ambienti.. tuoi… insomma, qualcuno assume un’aria così misteriosa… fa il vago…” “Beh, non è facile cambiare pelle. Una vita a gridare a tutti chi sei, a precedere il nome con il grado. Quando entri in strutture simili puoi avere un momento di imbarazzo…” “Ne parliamo a voce… Devo salire… devo venire a Roma.” “Problemi?” “Devo parlarti…” “Accidenti, è grave?” “No. Hai saputo di Iano?” “Sì... ancora non è chiaro come sia potuto accadere…” “Sì. Ma è un altro problema. Primo: stai attento. Ce l’ha con te… Pare che abbia detto più volte che sei la causa delle sue disgrazie...” “Può darsi. Ma la vera causa è lui stesso…” “Secondo: so che hai buone fonti… vorrei poterle avvicinare… Insomma, voglio parlarti a voce… Per un orientamento...” “Quando?” “Sarò a Roma stasera.. vengo in ufficio?” “No, sai che non è possibile... Al bar di piazza Lontana, dove andavamo da allievi...” “Mmm .. alle dieci... Quanto siete misteriosi!” Paolo e la Sicilia. Una vita spesa a capire la mafia. Tra i primi del suo corso a comandare un nucleo operativo in Sicilia. Poi in molti erano scesi. Quell’anno. Si vociferava da tempo di un ricambio di comandanti in tutt’Italia. Molti avevano chiesto di andare in Sicilia. Non immaginavano quanto presto sarebbero stati accontentati. Era bello pensarsi insieme a molti amici, nell’isola che molti conoscevano da turista o da lettore di Sciascia, di Vittorini, di Tomasi di Lampedusa. Ma quelle pagine si erano sciolte nel plumbeo tramonto del 3 settembre 1982. “Il generale è morto…”. Gli incontri, come i lutti, scavano sentieri imperscrutabili nei destini degli uomini. Il generale aveva “battezzato” il corso a Pastrengo. L’abito stretto di allievi, l’ombra di una leggenda, gli occhi profondi e segreti come ghiacciai del generale, la voglia di cometa come di speranza… tutto fece di quell’incontro un incanto. Molti visi bambini, quel giorno, si promisero allo stretto. Era il tempo dei sogni. Non ancora covava l’urgenza di salire le scale. Eppure per i più fortunati il tempo decanta le magie. L’esperienza e i successivi incontri avrebbero lucidato i grani di uno stesso rosario, avrebbe dato un senso compiuto alla storia professionale. Paolo. Lui, Santo e Donato avevano perso notti e giorni dietro il fangoso passo di Iano. La memoria scende tra i tufi molli delle campagne dell’Etna. Quante volte aveva percorso quelle strade buie, sotto la pioggia d’inverno, sotto la calura d’estate! Strade sole. Percorse come un fremito. Tra le balze dei pensieri scivolava un fitto silenzio, come canto notturno. Come nenia. La strada a scorrimento veloce era una ferita grumosa. Senza argini. La notte vestiva la strada, l’auto e i pensieri. “Signor tinenti, che fa, s’addormisce?” “Sto pensando. Sto pensando”. Lusso da comandante, il pensare. Intanto io devo sorbirmi ‘sto spettacolo niuro da solo. Con le notti insonni sulla schiena... Pensava l’autista. L’autista che in Sicilia guida la macchina e il comandante. Con cura fedele. Brutto mestiere. Mai una foto sui giornali. Mai il suo nome. Come invece per quelli operativi. Un’ombra. Eppure è l’autista a raccogliere le idee del capo e seminarle di buon senso. A prendersi la rabbia e dare un po’ di dolcezza, magari con una battuta. Con un caffè o una granita al momento giusto, per conciliare il corpo e lo spirito. “Che fa, si fissa? “ “Sto pensando... Giovannone, sto pensando.” “E lei pensa assai. Le idee vengono e vanno. I giardini fioriscono quando è tempo. Se li spreme d’occhiate d’estate, che fa, li fa fiorire prima?” “Magna Grecia, culla della filosofia e del teatro...” “Dimentica gli arabi, i normanni...” “...i siciliani...” “Macari pure a nuatri. Ce la posso cuntari una cosa da patri? .. da frate chiù spertu? (per carità, spertu di vita, non di lavoro, perchè la conoscenza segue la scala gerarchica, guai a sbagliari...). Lei non deve prenderla come un fatto personale. Come un fatto di corna... Lei qui è venuto caruso caruso, pieno di studi e di volontà. Ci porta un vento buono. Noi la seguiamo pure all’Inferno, come ci ha chiesto lei quando è venuto con il sorriso bovino e accattivante. Ma l’Inferno e il Paradiso in Sicilia si confondono. In Sicilia c’è l’Inferno. In Sicilia c’è Paradiso. Che è la porta di servizio dell’Inferno se come cuntano i parrini non ci sunnu fimmini e mancu vino e sigarette.” “Giovannone, ma ci pensi? Ha scritto quei cartelloni elettorali con la promessa di pozzi. Eleggetemi sindaco e vi do l’acqua: Assurdo..” “L’assurdo, signor tenente, è che la Sicilia naviga nel Mediterraneo e non ha acqua da bere, manco salata!” “E’ vero. A Castel di Judica l’acqua arriva con le cisterne. Razionata come nel deserto. Ovunque gli agricoltori cercano di riempire una vasca, per assicurarsi almeno l’acqua piovana. Fanno tredici se trovano un pozzo nel terreno. Si scannano per il controllo di un torrente.” “I principi nel passato sapevano bene la situazione. Appena arrivati sconsolati in queste terre hanno messo su giardini, palazzi, strade... ma prima ancora, ‘u sape? Cercavano l’acqua. L’acqua tra i tufi, ribelle e schietta, la mettevano negli acquedotti. Sui serpenti di pietre facevano scorrere il sangue della terra. Per questo le arance sono così rosse....” “I principi sono passati...” “Ma non la sete di nuatri. Abbiamo sete anche quando ci riempiamo la bocca di sorsate. E’ sete antica. Non è che qui non ci sia acqua. C’è. Ma si vende e si compra. Quest’area, poi, è ancora giusta. Più in là, verso l’Etna, da Palagonia, verso Castel di Judica, lì l’arsura spezza le pietre e il cuore. Lui queste cose le sa. Promette pozzi, come si promette il benessere. Ricordiamoci, come diceva me’ nanna, 'A quattara ca va all'acqua, o si rumpi, o si ciacca. ” “Non ci romperemo. Né ci scorticheremo. Mi fa specie, invece, come faccia a essere tanto pericoloso... intelligente...” “Che l’intelligenza si impara sui libri? Forse s’addestra. No. Qui di libri ce ne sono picca. Ma assai sugno gli intelligenti. Molti. Iddu è uno di loro. E’ nato qui. Scappottau le botte dei catanesi. Ferito da tutte le parti, eppure si sarvau. Brutta vita per gente come nuatri. Ma pure gli sperti come iddu... ‘na minchiata e ti stutano.” “Quando si riunisce il consiglio?” “Domani sera.” “Allora che cosa hanno detto sull’eleggibilità?” “Il consiglio può dichiarare l’ineleggibilità durante la prima seduta...” “E lo faranno?” “No. Grideranno poi, allo scandalo, quando già la mandria è fuori dal recinto. Allora si avvierà la macchina burocratica. Lentamente... Cui sempri viri a prucissioni e a missi, lignu nunn'è ppi fari crocifissi” “Come si fa a supportarlo? A mettergli una bandiera addosso? A dargli uno scudo politico?” “I voti non hanno ciauro. Come i soldi. Più dei soldi... Perchè i voti e i soldi sono legati assai. Le bocche si fanno grosse...” “Avvisa gli uomini, voglio andarci...” “Dove?” “Al municipio... domani sera.” “A fare cosa?” “Voglio assistere. Non mi hanno convinto gli scrutatori. Suoi parenti e amici. Non mi convince questo teatro.” “Che problema c’è? Voi comandate...” Gli idealisti si attirano guai. L’autista, alzando gli occhi al cielo, pensava che non sarebbe stata una settimana tranquilla. S’indispettì. Aprì il finestrino per fare entrare l’aria calda. Almeno il capo avrebbe iniziato già a sudare. Zu’ Iano. Se lo rivede accanto. “Lei ce l’ha con me” Ne era convinto. Lo ripeteva a tutti. Ci scornava su quel carusazzo di sbirru incaponito. Sbatteva la testa contro il muro incomprensibile della testardaggine con cui u’ tinenti s’accaniva contro di lui. Ripeteva a sè stesso e a tutti, autorità comprese: “Io voglio il bene del mio Paese...” “Che ne sape iddu, che viene dal continente?” “Iu, iu ca dugno pani a cui ni bisogna e fazzu piacirì a cui li dumanna.” “Che minchia voli i’ mia... Tutt’un tratto s’ arrusbighiò u cane e abbaiau” Coro di voci, false e vere. Ossimoro siciliano. Eppure lo sbirro s’era davvero incaponito. Testardaggine di sbirro. Lo sentiva dentro. Guardando il viso del sindaco bastonato per non aver concesso una licenza. Della vedova smarrita davanti al mucchietto d’ossa arse in un bagagliaio irriconoscibile. Del contadino che conosce la maledizione di una tassa, di un balzello, ancora uno... perso nel disincanto. Imparando la paura. Un mostro subdolo che attanaglia le membra. Stritola la mente. Avvelena come una droga, sino a non percepirla più. Quando si tramuta in rabbia cieca, folle, smodata, urlata. Oppure s’acquieta, silenziosa, ferita, acquiescente. da http://sicilia.indettaglio.it/images/trina.
E’ più facile... non sempre... il coraggio nella schiera di uniformi. Diversa è la solitudine di quanti resistono nel silenzio della gente che non ce la fa. O peggio, tra coloro che esorcizzano il timore con l’attesa della punizione del coraggioso. “Iano, la finisca di fare il martire. Lei andrà via. Almeno il soggiorno obbligato la terrà lontano a meditare...” La voce del tenente era carica di stanchezza. Avrebbe voluto vederlo dietro le sbarre. Lo sguardo rabbioso du zu’ Iano aveva brevi fremiti rabbiosi. Scuoteva solo per un istante la maschera d’odio mafioso. In quel ghigno di sfinge tutto diventava irreale. I suoi occhi sospendevano l’universo in un immoto silenzio. Era quel silenzio a incutere timore nella gente. I paesani avevano strumenti per capire quel messaggio. Per trattenere le parole non dette, decifrarle, disegnarne un senso. Ci nascevano in quel grembo avvelenato, placenta robusta di un linguaggio armato di sguardi, di taliate, di gutturale onomatopea. Violento amore come violento odio. Accecanti emozioni che solo un robusto intelletto sapeva imbrigliare. Leggere i silenzi allena la mente al funambolismo. Tra cifre altrimenti non comprensibili. Mafia. Fottutissima mafia. Nelle serate vizzinesi, ai margini della Sicilia insanguinata, quasi a lambire una luna più vicina, si scioglieva il nodo del continente e ci si confondeva con l’abisso delle ombre sicule. Libri, racconti, cunti di epoche antiche mai più attuali. Dottori, baronesse, ciabattini, picciriddi e anziani, tutti su sedie impagliate, tra odori di caponata e succhi di limone, inventavano un giornale, un’opera teatrale, un discorso amico. Rivolta silenziosa contro l’ingiustizia. Contro la mafia... Da quei tratturi si specchiava la Sicilia. Bella. Con le labbra tumide di desiderio e le dita a tratti insanguinate. Nel suo abbraccio lento di sensualità scivolava un senso magico della morte. Carsica, talvolta torrentizia, s’annacava la mafia, sinuosa e lappante. Dagli occhiali di giornalisti e scrittori, esperti di mafia, s’apprezza l’imponente sforzo di dominare il ciclope della mafia. La didascalia ingombrante. Una cosa importante è grande. Il resto è banalità. La mafia è una realtà complessa, avulsa dal quotidiano grigiore. Pretende tomi e trame robuste. Meglio se inanella nomi eccellenti, fragore di scandali. Eppure s’imparava in quelle terre isolate dal clamore antimafia ma pure fertili di sementa malata che la mafia erutta lava dalla quotidiana quiete, dalla banalità di un odio, dall’urgenza tradita di una paura, dal risentimento tutto umano... magari anche dall’antipatia di una resistenza ottusa. In queste “favole”, quasi cunti di nonna per un nipote in fascia, si può apprendere il codice genetico della mafia e la sua invincibilità di cristallo. Si matura quell’antimafia sedimentata che s’appella alla dignità e alla libertà dell’uomo. Per questo minimalista, apparentemente meno virile. Certamente più eversiva, perchè ingrigiva sino a scolorire la stessa vita della gente. Gli atti eroici di magistrati e sbirri non sono forse votati a quella quiete collettiva, sogno da condividere? Alla bellezza del suolo siculo, baluardo di dignità offeso dallo scirocco dello sciame mafioso. Anche u zu’ Iano scorreva le ore davanti al baglio della sua villa, circondato da parenti, amici e soprattutto una famiglia cui dedicava ogni amorevole cura. Tenero marito. Perso nel biondo straniero della compagna di una vita. Tra pargoli ignari, forse, protetti da altrettanto biondo materno. Le telecamere attive intorno al muro di cinta e lo sguardo acuto dei convenuti denunciavano un timore vigile. Più per il nemico... i mafiosi hanno sempre amici ostili... che per gli sbirri. Il tenente guardava. Osservava attentamente. Imparava u zu’ Iano. Ne scrutava i tic, il sorriso senza labbra, il moto dei parenti, che schiarivano la rozzezza davanti a lui e sembrano avere passo di libellula. Era un capo. Abile. Abilissimo. Non solo negli affari criminali. Gli addetti all’intercettazione arrivavano la sera in ufficio stanchi e nervosi. “Minchia, tutto Iddu fa.” Scuotevano la testa. “Si ruppiu u camion? Iddu pensa. Pi conferiri le arance all’Aima? Iddu pensa. Pi parlari ca’ genti? Iddu pensa. Sticchiu i ta’ ...!” Si occupava anche del tenente. Voleva sapere tutto di lui. Del maresciallo che lo aiutava. Riusciva a saperlo. “Si può sempre fare di più...” “Tinenti, a Siracusa è andato?” “Sì. Il giudice istruttore è uno giovane. Di Palermo. Eccezionale. Dinamico. Informale. Conosce bene la situazione, per la prima volta mi è capitato di prendere notizie più che lasciarle. Poi c’è il collega che conosco da tempo, eravamo ragazzini... Bravo.” “L’indagine non è di Caltagirone?” “No. Parte da omicidi commessi a Francofonte. Una lingua siracusana nel corpo catanese. La mafia non segue le ripartizioni amministrative...” “Segue la striscia dei giardini...” Un lago che s’infuoca al sole di mezzogiorno. Si confonde con il sole. Come un grido accecante. Un’eruzione di agrumi che profuma l’orizzonte e perde. Un lago dorato in cui è facile annegare. Invece tra le piante odorose striscia spesso il malanno mafioso che stringe come l’edera e pretende esazioni... Non solo pizzo... Ti ruba la libertà e la vita. Mezzadria dei propri giorni. “Signor tinenti, un morto ammazzato! Al passaggio a livello per Lentini!” “Da che parte?” “Proprio sui binari... Però ci sono i colleghi...” “E allora?” “Minchia, bastava spostare un piede e la competenza era certamente la loro!” “Sei pazzo?” “Ni ni stannu faciennu assai. Chi li sente a Catania? Loro ne hanno di meno...” “Ma di dov’è il morto...” “Minchia, di qua è, ma la madre è lentinese...” “Arrivo, non toccate niente...” Sulla faglia lentinese le croci servivano da pietre miliari e tracciavano una storia nera dei luoghi. Zu’ Iano aveva deciso di ripulire la zona. Imprenditori che non pagavano. Gruppi lentinesi che volevano estendersi, contro altri locali con cui lui era in buoni rapporti. Si preparava a fare il principe del luogo. “Fa cauru! S’alluma la testa. All’una di notte sembra mezzogiorno.” “Assurdo. E’ buio, eppure ti viene di ... cercare l’ombra” “Signor Tenente, prenda acqua e limone. Ne ho nel portabagaglio” “Lascia perdere... signor Meccano, buona sera... che mi dite?” “Caro tinenti caro. Nulla dico. Nulla si fici. Si decide se la votazione deve essere segreta o no... io penso che segreta macari meglio assai è...” “Perchè mai? Cosa cambia? Tutti sono contrari all’elezione.” “Perchè è la voce che conta. La voce è una firma. Davanti alla gente può essere un segno d’offesa...” “E’ una scusa...” “No, tinenti caru, U lupu di mala cuscienza comu faci accussì pensa” “Non c’è problema... Ah... I miei carabinieri fuori turno, una cinquantina, vorrebbero assistere. Che ne pensa? “ “Magari sono liberi d’acchianare...” “Che fate, una offesa anche a loro?” “Minchia, imparate presto vossia...” Scuoteva irritato e sorridente. “I cornuti rimaniamo sempre noi... Tra quelli che pretendono, dico pretendono di salvarci... magari la medicina è peggio della malattia... e quelli che ci vogliono strozzare, con la lupara dietro le orecchie. Noi in mezzo. E’ una vita, è una storia che siamo in mezzo. A lu viddanu nun ci toccanu nguanti, ma a falci in coddu e 'u sceccu davanti. Io stasera torno a casa. Ci sono le mie radici. C’è mia moglie e mia figlia. C’è mio nipote e mio fratello. C’è un mondo che è il mio, che voglio ma anche si nulissi sarebbe macari u miu. C’è il giardino. Rosso di tarocchi sanguigni. Generazioni di lavoro. Unico pane pi mia e pi tutti di casa. Lei parla bene. Torna in caserma. Poi fa carriera e si dimentica di questi viddani. Loro ci vanno in galera. Ma poi tornano sempre. Iddi tornano.” “E’ per questa libertà che dovete lottare...” “Minchia di libertà... Li ha visti i miei giardini? Pieni, st’anno. Magari l’annu passatu. Pieni per l’Aima. A Roma si mangia il portogallo o la spagna. Me ne futtu dell’Italia e dell’Europa. Io che ci dico alla sera?” “Il futuro...” “U ricissi a’ mia. Noi ci cresciamo con il filo lento lento della vita. C’è sempre la morte nei nostri occhi. Per questo... lei forse non capisce... per questo noi abbiamo il tempo. Il tempo. Un tempo siddiato. Lei si offende. Ma lei è giovane e farà carriera. Tutti, prima di lei, hanno fatto in tempo a capire, poi se ne sono andati. Ma anche iddi... a’ malacarne... iddi s’incontrano a terra, annegati nel loro stesso sangue. Aspettiamo la fine della giostra. Per quanto ancora verranno qui sbirri? Novi rumori? Per quanto ancora cresceranno nuovi boss sulle croci dei precedenti? Tempu e malutempu nundura tuttu u tempu.” Il voto non fu secretato. Il mafioso fu dichiarato ineleggibile. Il tenente aveva un’arsura strana. Pensò al pozzo di zu’ Iano. “Ciao, Paolo” “Ti trovo bene” “... chi l’avrebbe detto... tra le barbe finte..” “Come vanno le cose?” “Bene e male. Bene perché... c’è fermento nuovo. Si parla finalmente di strutture centrali antimafia. Capiscono che non si riesce a combattere la mafia solo con le armi di un territorio. Ci vuole... dal centro... come per il terrorismo..” “Ne abbiamo parlato tanto...” “Noi giovani parliamo tanto. Abbiamo la fortuna dalla nostra. Istituzioni, magistrati e investigatori che contano e che pensano, cercano di creare... insomma, il ‘maxiprocesso’ sta partorendo qualcosa di grande, nella coscienza di tutti..” “Ci vuole..” “C’è l’impressione, però, che sia urgente! Dopo un lungo silenzio, per defilarsi dal ‘maxiprocesso’, la mafia può esplodere con tutta la rabbia per le condanne. E’ innescata una reazione a catena...” “E’ vero. C’è aria tesa...” “Maledizione! Ogni provvedimento importante supera gli ostacoli solo dopo che è versato sangue...” “Speriamo di no, anche se le cose non vanno bene. Un’aria avvelenata. Lo sport nazionale è lasciare gli eroi soli da vivi e soffocarli di compatita solidarietà da morti...” “Già... ma tu? A caccia di russi o a spasso?” “Ci convertiamo. Lentamente. Finirà un’epoca, a breve. Già iniziamo a occuparci più sistematicamente di altre minacce... anche di mafia...” “Pure voi? Che vi mettete a fare? Gli sbirri?” “No, gli sbirri no. Ce ne sono già tanti. Ma serve una conoscenza... come dire... strategica. Che colga il carattere eversivo della mafia. Certo, notizie puntiformi quando ci sono ve le passiamo. Ma l’obiettivo principale è cogliere il disegno eversivo...” “Sai come la penso. C’è posto per tutti. C’è anche bisogno di una dimensione informativa che prescinda dall’urgenza del momento, del processo. Ma ho paura. Sull’onda emotiva il maxiprocesso sembra aver dato una luce diversa al fenomeno. Si può battere la mafia. Eppure... gli strumenti. Sì, se vogliono che si combatta la mafia, sbirri o spioni, devono dare strumenti adeguati. Perchè non si vince la mafia con l’inefficienza o con le forzature. L’alto commissario potrebbe essere utile. Ma senza una legge come in America, che garantisca il pentimento, che tuteli i testimoni, che finanzi le operazioni più sofisticate... sei imbracato, senza paracadute. Serve tecnologia. Serve soprattutto una cultura e una legge diverse. Sai che ho smesso di parlare con i confidenti? Cu mancia fa’ muddichi. E ti ritrovi impelagato senza nemmeno accorgertene. Sembra che oggi l’operazione più brillante sia mettere dentro non i mafiosi ma gli sbirri!” da http://geocities.com/scordiaonline/images
“E u zu’ Iano?...”
“Hanno ucciso tutti i suoi familiari. Una guerra spietata tra gruppi catanesi e lentinesi. Ordalia. Una carneficina. Non hanno voluto nemmeno accettare il consiglio di affidarsi a noi. Di parlare, per orientarci... E’ finito non il suo gruppo ma l’intera sua famiglia. Come si dice, cu fa ligna a mala banna, 'a nnesciri 'ncoddu.” “Allora...?” “E’ disperato. Potrebbe fare qualcosa di eccessivo. Volevo parlartene per sapere cosa ne pensassi. Tu lo conosci bene.” “Distrutti tutti... aveva ragione, quel giorno, un vecchio contadino. Il tempo. Passano tutti...” “Ora però ci sono i lentinesi a comandare, lì.” “Magari hanno cambiato anche il tenente...” “Sì, è arrivato uno giovane, in gamba.. Speriamo che rimetta in ordine..” “Dubito... il tempo... dovranno finire i tenenti e i mafiosi...” “Sei impazzito?” “No, scusa, pensavo a una sera d’estate, in un municipio di pietre infuocate.. A un pozzo che non ha sedato la mia sete...” “Allora?” “Allora non oggi, ma domani forse sì. Cerca nei paesi del Nord Europa, dove vivono la compagna e i figli du zu’ Iano. Forse anche loro aspettano...forse Iano andrà lì, convinto di spezzare l’attesa... forse, chissà, avrà l’urgenza di insegnare al figlio biondo come la madre il senso di un’attesa...” |