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GNOSIS 1/2006
Dai 'bombers' di Londra alla corrente 'Deobandi'

articolo redazionale

In questo articolo, abbiamo voluto tentare un’indagine a ritroso sulla strada del radicalismo: dalla storia di Shehzad Tanweer, uno dei quattro “uomini-bomba” del 7 luglio londinese - che abbiamo utilizzato come campione - alla storia della scuola fondamentalista indopakistana dei “Deobandi” e dei suoi vettori in Occidente. Lungo un percorso di quasi un secolo e mezzo, dalla prima scuola coranica di Deoband all’islamismo militante di Mawdudi, dal jihad afghano all’internazionale di Bin Laden, mettiamo a fuoco le tappe di una “deriva del sacro” che cammina in mezzo a noi, sulle gambe di giovani musulmani “cresciuti in casa”, per i quali la distanza tra passato e presente si fa corta e lunga la memoria dell’odio contro l’Occidente.


da www.kbr30.dial.pipex.com

Il sogno da ragazzo di Shehzad Tanweer, uno dei quattro uomini-bomba di Londra, era tipicamente inglese: diventare un giocatore professionista di cricket. Figlio di quell’ondata di immigranti che, da India, Pakistan e Bangladesh, hanno popolato il cuore industriale dell’Inghilterra centro-settentrionale, era cresciuto accanto ai giovani hooligans di Leeds, dove studiava scienze dello sport alla Metropolitan University e si vedeva alla guida di una Mercedes rossa. Dicono che, fino ai diciotto anni, non si fosse mai interessato di politica, estera o interna, e che avesse studiato il Corano come i ragazzini fanno i compiti a casa, sentendosi più inglese che musulmano. Poi, nei quattro anni che separano l’11 settembre dal 7 luglio, era cambiato dentro, segretamente, frequentando posti come l’Iqra Learning Center, una libreria islamica di quartiere, dove circolava materiale propagandistico anti-occidentale. Nella sua testa era entrata una visione ultra rigorista dell’Islam - conosciuta come dottrina Deobandi – che, dalle “madrasse” pakistane, rimbalza sul territorio europeo, in circuiti sempre più alternativi alle moschee, dove “cattivi maestri” (dal nostro punto di vista) propugnano l’isolamento delle comunità immigrate dalle contaminazioni del “non islam” e la “re-islamizzazione dell’individuo”. Questa “rinascita” come autentico musulmano lo avrebbe riportato in un percorso a ritroso, per tappe successive di radicalizzazione, in quel Punjab, dove i suoi antenati erano insorti contro il colonialismo britannico e dove migliaia di “convitti coranici” continuano ad aprire le loro porte ai giovani islamici o nuovi convertiti per chiuderle in faccia al mondo occidentale.
Vi era stato una prima volta nel 2002 e pare fosse già entrato nella rete missionaria del Tabligh Eddawa, che, del pensiero deodandita, rappresenta il principale veicolo di espansione in occidente. Era poi tornato l’anno successivo ed avrebbe incontrato un emissario dell’ “Esercito di Maometto” (Jaish-e Mohammed) - un gruppo di ispirazione Deobandi, attivo nel Kashmir in funzione anti-indiana, ma legato al jihad internazionale - sulle cui tracce aveva perso… la testa il giornalista americano Daniel Pearl, il primo occidentale decapitato in video.
L’ultimo viaggio di Shehzad Tanweer a Lahore è recente, va dal dicembre 2004 al febbraio 2005 e chi lo accompagna è un altro anglo-pakistano, Mohammed Sidique Khan, il più vecchio dei quattro bombers di Londra ed il loro pigmalione sulla strada “senza ritorno” del jihad. A casa, dicono che “Baby” (questo era, alla maniera occidentale, il vezzeggiativo di Shehzad) fosse andato ad imparare a recitare correttamente le letture del Corano, ma, in realtà, sarebbe entrato in contatto con l’“Esercito del Puro” (Lashkar-e Tayyabe), un altro gruppo Deobandi, considerato il braccio armato di Bin Laden nella regione, con la predilezione verso gli attentati suicidi. Quando rientra a Leeds, non manca ormai molto all’“appuntamento” con la stazione metropolitana di Aldgate.
A questo punto, pensiamo che il ripetuto accostamento al circuito Deobandi possa aver influito sul percorso di radicalizzazione di Shehzad Tanweer, fino a farlo diventare un “born again” (nato un’altra volta). Tentiamo, allora, un flash back nel passato, sulle tracce e sui vettori in Occidente di una scuola di pensiero che, da tempo, Bin Laden cerca di utilizzare come serbatoio di reclutamento. Non a caso, cinque mesi prima dell’11 settembre 2001, in occasione della “International Deoband Conference” a Peshawar, lo sceicco saudita avrebbe indirizzato un messaggio (smentito dagli organizzatori della manifestazione), nel quale richiamava tutti i giovani ad addestrarsi militarmente in Afghanistan, l’unico Paese al mondo conforme alla shari’a.
Tutto ha origine, nel 1867, in una scuola coranica di Deoband una cittadina indiana a nord di Dehli (tuttora sede di un importante centro di studi islamici), dove si sviluppa un movimento di rinascita religiosa che, nell’India britannica della seconda metà dell’Ottocento, predicava ai musulmani “il ritorno all’islam delle origini”, epurandolo dalle contaminazioni del dominio coloniale inglese e della maggioranza hindù. Dieci anni prima, era stato deposto l’ultimo sovrano della longeva dinastia Moghul, basata sull’applicazione della shari’a, ed i Musulmani d’India mal si adattavano alla Common Law anglosassone. Lasciamo raccontare ad Emilio Salgari, nelle pagine della saga di Sandokan, come i “Sepoys”, soldati mercenari indiani (sia musulmani, che hindù) al servizio della Compagnia delle Indie Orientali britanniche, si ammutinarono, rifiutando l’ordine di caricare i nuovi fucili “Enfield” con cartucce unte di “grasso di porco” (i musulmani) o “grasso di vacca” (gli hindu’), per non profanare la propria religione. Avrebbero, infatti, dovuto spuntarle tra i denti prima di inserirle nel caricatore.


da www.war-art.com

In assenza di uno Stato che si impegnasse a far applicare la legge islamica, la scuola Deobandi (molto simile, quanto a rigorismo, a quella Wahhabita, nata un secolo prima in Arabia Saudita) comincia - attraverso l’insegnamento del diritto religioso e la produzione di centinaia di migliaia di fatwa - a codificare i comportamenti leciti ed illeciti dei musulmani, tracciando una “linea maginot” tra la vera religione (“din”) e l’empietà (“kufr”). Ne scaturiva l’incitamento ad una sorta di “apartheid volontario”, frutto di una egira interiore, che era accompagnata da un profondo disprezzo per britannici e hindù, entrambi “kafir” (miscredenti).
Nel 1947, le cose sembrano mettersi a posto con l’indipendenza del subcontinente indiano dagli Inglesi e la formazione di due Stati separati: l’India per gli Hindù ed il Pakistan per i Musulmani, ma per i Deobandi la partita contro l’“empietà” si trasferisce nei confronti di un’élite nazionalista che intende ancorare il Pakistan all’occidente. Non solo aumentano le scuole coraniche, ma il loro taglio diventa più “politico” per l’influenza esercitata da Abu Al Mawdudi, il fondatore del partito religioso della “Jamaat-e Islami”, il quale all’idea di uno “stato per i musulmani” contrapponeva l’idea di uno “stato islamico”. Questo ideologo si rivelerà il massimo assertore del fondamentalismo islamico nel sub continente indiano ed il padre spirituale di movimenti come quello dei “Taliban” che, nel 1994, presero il potere in Afghanistan, instaurando un durissimo regime integralista.
Ma il periodo della svolta è il decennio (79/89) dell’invasione sovietica in Afghanistan, quando le scuole-caserme Deobandi sparse nei campi profughi in Pakistan giocheranno un ruolo essenziale nella formazione ideologica e militare dei moujaheddin chiamati, da ogni parte della “Umma”, ad incrementare la resistenza contro l’URSS e, successivamente defluiti nelle aree di provenienza ed in Occidente. Questi “arabi-afghani” - come verrà chiamata la prima generazione di reduci addestrati e capaci di addestrare - saranno i “vettori” di un ibrido ideologico, nel quale i codici comportamentali Deobandi si saldano al radicalismo militante di Mawdudi ed al salafismo jihadista di predicatori palestinesi, egiziani, sauditi entrati nelle madrasse a teorizzare il jihad come “obbligo religioso” nei confronti di tutti i “nemici della fede”. E’ su questa trasversalità che Bin Laden getterà le fondamenta di al Qaeda.
C’è ancora una questione fondamentale da affrontare, ed è l’influenza cruciale che la scuola Deobandi esercita sul Tabligh Eddawa, il maggiore movimento missionario islamico mondiale nato, come i Fratelli Musulmani egiziani, alla fine degli anni ’20. Questa corrente - che seguendo le molte vie dell’emigrazione è approdata e si è rapidamente diffusa in Occidente - impregna l’Islam codificato e rituale dei Deobandi con lo slancio di una predicazione salvifica “rivolta verso il basso” alle fasce di popolazione immigrate, ai musulmani in crisi di identità, ai nuovi convertiti all’Islam. Ostile a qualunque prospettiva politica di tipo rivoluzionario, il movimento assume piuttosto i caratteri della setta per il continuo lavaggio del cervello dei suoi affiliati sulla necessità di adottare un rigido codice di autodisciplina e di preghiere utili a preservare l’identità islamica dalle tentazioni del non-Islam. Questo estremo rigore rischia però di provocare forme ossessive di alienazione verso ogni “contagio” con l’Occidente ed offrire il fianco a speculazioni da parte di formazioni estremiste islamiche, interessate, tramite i c.d. “connettitori”, a reclutare tra le comunità immigrate “a fresh set of bodies” per i diversi fronti qaedisti.
Individui come Mohammed Sidique Khan, che esercitava sul gruppo di Londra il fascino del leader, possono infatti manipolare le coscienze di giovani, apparentemente integrati, e programmarle al “martirio” in nome del trionfo dell’Islam e nella promessa di un “dopo” fatto di “fiumi di latte e miele”.
Si tratta di una “deriva del sacro” costruita su quelli che abbiamo chiamato i “born again” (i rinati), che porta - per dirla alla maniera di Emile Durkheim - ad una forma di “suicidio altruista”, in cui l’individuo si sacrifica per rinsaldare il gruppo di appartenenza, la “Umma universale dei credenti”, ritenuta, ancora oggi, sotto l’assedio dei “miscredenti” in Iraq, nei Paesi arabo-moderati, in Occidente. In questo senso, l’operazione di martirio è un approdo vissuto dallo shaid come una naturale conseguenza della sua “rinascita” da autentico musulmano, con una “normalità” che cammina in mezzo a noi e che, dopo Londra, ci lascia disorientati, a fare i conti con la frustrante vertigine della precarietà.



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