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punto di vista 2/2018

punto di vista L'invasione della Cecoslovacchia. Cause e conseguenze
Sergio Romano biografia

La Cecoslovacchia non fu il primo dei satelliti sovietici da cui giunsero segnali di malumore. Quando la stampa occidentale, agli inizi del 1968, cominciò a trasmettere notizie sorprendenti su ciò che stava accadendo a Praga, vi erano già stati: il caso polacco di Wladyslaw Gomulka, detestato dagli stalinisti e cacciato dalla segreteria del partito nel 1948; le grandi proteste dei settori orientali di Berlino nel 1953; l’insurrezione ungherese del 1956. Ma la Cecoslovacchia, fra gli stati europei che appartenevano all’orbita sovietica, aveva caratteristiche che rendevano le sue vicende cruciali. Era il paese che aveva le più radicate tradizioni democratiche e in cui il partito comunista, nel febbraio 1948, aveva conquistato il potere con un colpo di stato. Aveva la più avanzata economia industriale del blocco sovietico e avrebbe accettato volentieri gli aiuti del piano Marshall se Mosca glielo avesse permesso. Aveva già attraversato una fase traumatica in cui le purghe staliniane dei primi anni Cinquanta erano state clamorose e brutali. E dopo il pensionamento di Antonin Novotný, aveva un nuovo segretario del partito, Alexandr Dubčeck, che sembrava pienamente consapevole della necessità di riformare il sistema senza mettere in discussione i delicati rapporti con l’Unione Sovietica.
L’adozione delle riforme proposte da Dubčeck e dai suoi collaboratori avrebbe permesso di rimuovere alcuni dei vincoli che imbrigliavano l’economia nazionale, di restituire qualche azienda al settore privato, di concedere una maggiore libertà di opinione e parola e di accogliere – almeno in parte – le richieste di autonomia che giungevano dalla Slovacchia. Ma agli occhi di Leonid Brežnev, segretario del partito dal 1964, quelle riforme avrebbero aperto alla Cecoslovacchia le porte dell’Occidente e reso più difficile per Mosca conservare il controllo delle ‘democrazie popolari’.
Quanto più gli osservatori occidentali commentavano entusiasticamente la «primavera di Praga» e festeggiavano la nascita di un «socialismo dal volto umano», tanto più il Cremlino vedeva nel cielo dell’Europa lo spettro di una nuova Budapest.
Nell’agosto 1968 i sovietici decisero che soltanto un intervento militare avrebbe rimesso in riga i compagni cecoslovacchi. Ma non avevano dimenticato l’esperienza ungherese e, in questo caso, decisero che la repressione sarebbe stata più efficace e convincente se fosse stata presentata come una risposta unitaria di tutti i paesi del Patto di Varsavia.
L’operazione riuscì soltanto in parte.
La Romania di Nicolae Ceauşescu, con la sua assenza, confermò che avrebbe adottato, nell’ambito del blocco comunista, una politica non troppo diversa da quella del generale de Gaulle quando aveva deciso di uscire dall’Organizzazione militare del Patto Atlantico.
Da una parte e dall’altra, durante l’invasione, si cercò di evitare che la vicenda prendesse una piega ungherese. I praghesi scesero in piazza e manifestarono la loro opposizione, ma lo fecero quasi sempre con quello spirito ironico e beffardo che è uno degli aspetti più accattivanti della loro cultura. Il suicidio di Ian Palach, il giovane che si dette fuoco nella piazza di San Venceslao il 16 gennaio 1969, e l’omaggio che gli fu reso dai suoi connazionali dimostrarono agli occupanti quali fossero i sentimenti del paese. La protesta continuò nei mesi seguenti.
Nello scontro fra sovietici e cinesi avvenuto in un’isola del fiume Ussuri il 2 marzo 1969 – dove i secondi ebbero la meglio – il nome del fiume apparve in lettere enormi e con grandi punti esclamativi sui muri della capitale. Quando la squadra cecoslovacca di hockey sconfisse quella dell’Urss ai mondiali di Stoccolma, i praghesi inscenarono manifestazioni che avevano un evidente significato nazionale.
Ma la battaglia politica era perduta. La Cecoslovacchia dovette accettare il «ritorno all’ordine», la fine del «socialismo dal volto umano», la defenestrazione di Dubčeck e l’arrivo al potere di un «compagno leale» nella persona di Gustav Husak.
In quei giorni, tuttavia, accadde anche qualcosa che nessuno a Mosca aveva previsto. Con grande sorpresa del Politburo e del Kgb, alcuni cittadini sovietici osarono manifestare, sia pure privatamente, sentimenti di disapprovazione e vergogna.
Le conseguenze sul piano politico furono per certi aspetti paradossali.
I sovietici avevano vinto, ma in modi e circostanze che non giovavano alla loro immagine internazionale.
Gli occidentali potevano iscrivere un altro episodio nelle lista delle malefatte sovietiche, che aveva dimostrato, ancora una volta, che le regole della Guerra fredda non permettevano reazioni più efficaci di una semplice manifestazione di sdegno. In quello stallo l’Urss tirò fuori dal cassetto un vecchio progetto che le democrazie occidentali, sino a quel momento, avevano accolto con diffidenza.
Mosca propose la convocazione di una conferenza che avrebbe fissato le regole della convivenza pacifica tra due opposti schieramenti politici. In una situazione in cui mancava ancora, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, un formale trattato di pace, i sovietici auspicavano almeno un documento che riconoscesse i nuovi equilibri territoriali e, in particolare, l’esistenza di una Germania comunista. La proposta, così frequentemente respinta in passato, piacque in quel momento anche alla Repubblica Federale di Germania dove Willy Brandt, nel 1969, divenne cancelliere con una nuova strategia di politica internazionale, definita Ostpolitik.
Esistevano ormai le condizioni per un negoziato che avrebbe affrontato i problemi della Cooperazione e della Sicurezza in Europa.
I negoziati durarono parecchi mesi e si conclusero con un Atto che fu firmato a Helsinki (per l’Italia da Aldo Moro) il 1° agosto 1975.
Il documento conteneva due clausole fondamentali: l’intangibilità delle frontiere e l’autodeterminazione dei popoli. Esse erano potenzialmente incompatibili, ma i sovietici non avrebbero firmato senza la prima e gli americani non avrebbero firmato senza la seconda.
Con il senno di poi conveniva riconoscere che la «primavera di Praga» aveva indirettamente prodotto – per la convivenza internazionale – risultati non trascurabili. Nonostante l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre 1979, anche la Santa Sede continuò a estendere, nello spirito di Helsinki, la rete dei suoi contatti con i paesi dell’Est.
Vent’anni dopo, tuttavia, il trattato di Helsinki giaceva sotto un cumulo di macerie. La Germania si era unificata, l’Unione Sovietica si era disintegrata e la Jugoslavia si era sbriciolata.
La Cecoslovacchia aveva dato prova, ancora una volta, del suo genio ritornando alla libertà con una «rivoluzione di velluto».
Alexander Dubčeck riemerse dal cono d’ombra in cui era stato relegato e divenne presidente del Parlamento federale cecoslovacco, ma morì in un incidente automobilistico nel novembre 1992, all’età di 70 anni. Poche settimane dopo, il 1° gennaio 1993 i cechi e gli slovacchi celebrarono il loro divorzio. La Guerra fredda li aveva uniti di fronte a un comune avversario. La sua fine li aveva separati.

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