I cento anni della Rivoluzione d'ottobre
Sergio Romano
Lenin giunse alla stazione di Finlandia nell’aprile del 1917, due mesi dopo l’inizio della rivoluzione di febbraio. Lo zar Nicola II aveva abdicato il 16 marzo e Pietrogrado era ormai capitale di uno Stato che sarebbe divenuto, di lì a poco, repubblicano. Il governo era presieduto da un socialista rivoluzionario, Aleksandr Kerenskij, e nei chioschi si vendevano giornali in cui si potevano leggere ogni giorno i commenti e le analisi di numerosi gruppi politici: i costituzionalisti democratici, i bolscevichi, i socialisti rivoluzionari, gli anarchici. Esisteva anche un organismo popolare, il Soviet di Pietrogrado, che si era già distinto durante la rivo-luzione del 1905 e poteva contare sullo straordinario talento oratorio di Lev Bronstein, già noto al grande pubblico con il nome di battaglia (Trockij) che aveva assunto negli anni della clandestinità.
La Russia era ancora in guerra e di lì a pochi mesi, fra giugno e luglio, avrebbe cercato di tornare in campo contro gli Imperi centrali sul suo fronte occidentale. Il grande tema all’ordine del giorno, insieme a quello della guerra, era la convocazione di un’Assemblea costituente che avrebbe scritto le regole del nuovo Stato. Così avevano fatto i rivoluzionari francesi dopo il giuramento della Pallacorda; così intendevano fare i rivoluzionari russi dopo la fine dello Stato imperiale.
Lenin aveva altri programmi. Era contrario alla prosecuzione della guer-ra e adottò uno slogan («tutto il potere ai Soviet»), che era in realtà una dichiarazione di guerra al governo Kerenskij. Non poté evitare che i russi venissero chiamati alle urne per eleggere l’Assemblea costituen-te, ma impedì con la forza che tenesse le sue riunioni e all’alba del 25 ottobre ordinò a un drappello di operai bolscevichi delle industrie di Pietrogrado l’occupazione militare del palazzo d’Inverno, dove era in corso una riunione del governo provvisorio. Kerenskij, nel frattempo, sfuggiva all’arresto grazie all’aiuto dell’ambasciata americana.
Poche ore dopo Lenin raggiungeva allo Smolnyj (un palazzo costruito da Quarenghi per il collegio delle fanciulle nobili) i delegati del primo Congresso panrusso dei Soviet e annunciava al mondo la «prima rivoluzione socialista». Fra coloro che lo ascoltavano vi era un giornalista americano, John Reed, che avrebbe scritto due anni dopo un libro intitolato Ten Days That Shook the World (I dieci giorni che sconvolsero il mondo).
Anche Lenin, come gli altri rivoluzionari russi dell’epoca, cono-sceva la storia di Francia e considerava la rivoluzione francese una sorta di manuale per la costruzione dello Stato rivoluzio-nario. Ma le pagine che maggiormente lo attiravano non erano quelle sull’Assemblea costituente. Erano le pagine dedicate al Terrore, quando un avvocato di Arras, l’«incorruttibile» Maxi-milien de Robespierre, aveva occupato la Comune di Parigi e affidato alla ghigliottina il compito di purificare quella società. Non è tutto. Un’altra rivoluzione (quella della Comune di Parigi, durante la guerra franco-prussiana del 1870) aveva avuto su Lenin un’influenza decisiva.
La lettura del breve libro di Karl Marx apparso nel 1871 (La guerra civile in Francia) lo aveva convinto che la conquista del potere sarebbe stata insufficiente se non fosse stata accompagnata dall’eliminazione dell’intera classe dirigente della società preri-voluzionaria. La prima istituzione creata da Lenin dopo la conquista del potere fu, quindi, l’organo che avrebbe material-mente realizzato questo obiettivo. Fu chiamato Ceka (acronimo russo di Commissione straordinaria per la lotta alla contro-rivoluzione, al sabotaggio e alla corruzione), venne affidato a un bolscevico polacco, Feliks Dzerzhinskij, ed entrò in funzione agli inizi del 1918 con un organico di 2.000 persone che divennero in pochi mesi 30.000. Non era soltanto un corpo di polizia. Era, contemporaneamente, una forza militare, un ministero della sicurezza, un servizio d’intelligence e un tribunale rivoluzionario.
Il ‘Terrore’, nel sistema sovietico, divenne quindi lo strumento a cui Lenin ricorse per eliminare chiunque potesse ostacolare, ai suoi occhi, la costruzione del nuovo Stato. Insieme a ciò che ancora restava della classe dirigente zarista finirono nelle fauci della Ceka i partigiani di Kerenskij, gli esponenti dei partiti che avevano avuto un ruolo nella rivoluzione di marzo, gli anarchici, il clero ortodosso e i membri della famiglia imperiale. Ad alcuni intellettuali fu riservato un trattamento di favore. Come ricorda Vittorio Strada in un libro recente (Impero e Rivoluzione), il 29 settembre 1922 una nave tedesca lasciò il porto di Pietrogrado diretta a Stettino, in Prussia, dove il 1° ottobre sbarcò 35 passeggeri, «tutti intellettuali tra i più rinomati con le loro famiglie». Vi erano «persone destinate a conquistare fama in Occidente, come il filosofo Nikolaj Berdjaev, lo scrittore Michail Osorgin, lo storico Aleksandr Kizevetter, il sociologo Pitirin Sorokin, l’economista Boris Brutskus, il filologo Roman Jakobson, il matematico Dmitrij Selivanov e altri docenti universitari». Segui-rono nuove partenze con altre navi per un totale di circa 160 persone. A una giornalista americana che si dichiarava sorpresa per l’espulsione di persone così manifestamente innocue, Trockij, con una buona dose di ipocrisia, rispose che in altre circostanze si sarebbero certamente schierate con i nemici della rivoluzione e sarebbero state passibili di una condanna a morte. Secondo lui, insomma, la loro espulsione era un atto di «lungimirante umani-tà». Paradossalmente il maggior protagonista di questa sanguinosa vicenda non aveva mai creduto che la Russia sarebbe stata il teatro della «prima rivoluzione socialista mondiale».
Lenin conosceva le teorie di Marx sull’evoluzione della società capitalista, sapeva che la forza del proletariato dipendeva dallo sviluppo della grande industria, non poteva ignorare che la Russia era ancora, in questa prospettiva, un Paese arretrato ed era infine profondamente convinto che fra i maggiori paesi europei quello più dotato delle condizioni necessarie alla realizzazione di un grande mutamento rivoluzionario fosse la Germania. Nel Reich tedesco vi erano grandi aziende, forti sindacati, un ambiente in cui le idee socialiste circolavano, suscitavano dibattiti, preparavano l’opinione pubblica all’avvento di una nuova era. La guerra aveva rimescolato le carte della storia e assegnato alla Russia un compito inatteso. L’occasione non poteva essere sprecata, ma la sorte della rivoluzione russa dipendeva, secondo Lenin, dalla sua capacità di contagiare i paesi più sviluppati dell’Europa.
Le sue speranze andarono deluse. La rivolta spartachista di Berlino durò dal 5 al 15 gennaio 1919. La Repubblica sovietica ungherese visse dal 21 marzo 1919 alla prima settimana di agosto. La Repub-blica bavarese dei Consigli fu proclamata il 6 aprile 1919 e morì in un bagno di sangue un mese dopo. L’occupazione delle fabbriche in Italia, nell’agosto del 1920, si concluse con la firma di un’intesa fra i sindacati e i rappresentanti degli industriali. Nel frattempo si erano tenuti a Mosca e a Pietrogrado i primi congressi della Terza internazionale. Il regime di Lenin, da quel momento, poté disporre di uno ‘stato maggiore’ che avrebbe diretto le politiche di tutte quelle fazioni socialiste a cui era stato chiesto di sottoscrivere le 21 direttive della Russia comunista. Il quadro cambiò soltanto quando Stalin, durante il XII congresso del partito, proclamò la costruzione del socialismo in un solo Paese e sembrò rinunciare, almeno per il momento, ad altre rivoluzioni. Accadeva nel 1923, sei anni dopo l’arrivo di Lenin a Pietrogrado. Terminò allora la fase in cui lo Stato di Lenin sperava di contagiare il mondo con il proprio esempio. Le prossime ‘rivoluzioni comuniste’ in Europa avranno luogo alla fine della Seconda guerra mondiale. Ma non saranno vittorie ideologiche. Saranno conquiste militari dell’Armata Rossa.