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punto di vista 3/2017

punto di vista Il disordine medio-orientale
Sergio Romano biografia

Uno sguardo al passato e qualche riflessione storica non bastano a sciogliere i molti nodi del grande disordine medio-orientale, ma possono servire a capire meglio ciò che sta accadendo nella regione.
Con qualche eccezione (fra cui l’Egitto, il Marocco e l’Iran), gli stati che occupano lo spazio geografico fra le coste meridionali del Mediterraneo, i confini della Turchia e il Golfo Persico sono creazioni relativamente recenti, nate dalla spartizione dell’Impero ottomano e dal declino degli imperi coloniali europei. Non hanno incontestabili confini naturali e non sono abitati da popolazioni omogenee. La Libia si compone di due vilayet turchi, Tripolitania e Cirenaica, che sono stati unificati dalla conquista italiana, ma hanno connotazioni civili e religiose alquanto diverse. La Siria modellata dalla Francia alla fine della Prima guerra mondiale non è la Grande Siria: una regione storica, per molto tempo ottomana, che comprendeva anche terre chiamate oggi Libano, Palestina, Israele e Giordania. Siria e Libano sono abitati da due famiglie islamiche rivali (sunniti e sciiti) con una forte componente cristiana e, in Siria, un’importante presenza curda. L’Iraq è un grande deposito di petrolio, una nazione inventata da Winston Churchill per le esigenze della Marina britannica, composto da sciiti, sunniti, cristiani e curdi. L’Arabia Saudita è un regno medioevale, retto da una tribù sunnita che deve la sua autorità politica e religiosa, dal 1925, alla custodia dei luoghi santi e ha un ruolo internazionale grazie a giganteschi giacimenti petroliferi, di cui molti, tuttavia, sono in una parte del paese dove la maggioranza è sciita. La Giordania è il dono che la Gran Bretagna fece alla tribù hascemita per ringraziarla della rivolta contro l’Impero ottomano durante la Grande Guerra, ma è divisa fra due gruppi etnici: i palestinesi sino al Giordano e i beduini nelle regioni sud-orientali del paese.
Per creare uno stato basta un trattato, ma la formazione di una società nazionale chiede tempi più lunghi, interessi condivisi, esperienze comuni e, possibilmente, vittorie militari. Se i paesi arabi avessero vinto le guerre contro Israele nel 1948, nel 1956, nel 1967 e nel 1973, la vittoria avrebbe rafforzato la loro identità nazionale. Ma quelle guerre sono state perdute e le sconfitte hanno generato un amaro vittimismo che non giova alla buona salute delle singole nazioni. Un’altra guerra perduta è quella della modernizzazione.
I socialismi nazionali del movimento di Nasser in Egitto e del partito Baath, soprattutto in Iraq e in Siria, hanno cercato di creare un nuovo ceto nazionale costituito da impiegati pubblici, militari, liberi professionisti, imprenditori, lavoratori industriali, ma hanno finito per produrre soprattutto oligarchie corrotte e larghe fasce di insoddisfazione sociale. Qualche positivo risultato economico era stato raggiunto nell’Iraq di Saddam Hussein e nella Siria della famiglia Assad. Ma le ambizioni territoriali del leader iracheno, i due interventi militari degli Stati Uniti contro il governo di Baghdad e le rivolte arabe del 2011 hanno scatenato guerre civili che hanno pressoché interamente distrutto il tessuto sociale dei due Paesi.
Il vuoto politico creato dal fallimento della modernizzazione e dalla crisi dei regimi è stato colmato da una rinascita religiosa. Là dove i leader laici si erano dimostrati incapaci di creare una società nazionale, favorire la crescita e garantire una più equa distribuzione della ricchezza, sono arrivati i militanti della Fratellanza musulmana con le loro istituzioni assistenziali e la tenace convinzione che ogni problema possa essere risolto dalla lettura del Corano. Nei paesi in cui vi sono stati interventi militari stranieri (Iraq, Libia e Siria), il revival religioso è diventato società segreta (Al Qaeda) e organizzazione politico-militare con un braccio terroristico (Isis).
Non è tutto. Insieme alla rivoluzione iraniana, l’impetuoso risveglio religioso, in paesi dove era iniziato un processo di secolarizzazione, ha avuto effetti che gli osservatori occidentali non avevano previsto. Ha riacceso la lunga miccia di un altro conflitto che agita da secoli la società musulmana: quello fra sunniti e sciiti, una sorta di guerra delle due Rose fra i discendenti rivali del Profeta Maometto.
I casi del Libano e dell’Iraq sono esemplari. In Libano la crescita demografica della popolazione sciita (oggi il 27% del totale) ha avuto per effetto una diversa distribuzione del potere fra le maggiori comunità religiose e la partenza di un gran numero di cristiani maroniti. In Iraq, l’invasione americana del 2003 e la sconfitta del regime sunnita di Saddam Hussein hanno dato il potere alla maggioranza sciita e aperto all’influenza iraniana le porte del Paese. Ma hanno anche risvegliato il patriottismo curdo e la speranza di autonomia del Kurdistan, promessa dalla Conferenza di Parigi del 1919, per riunire in un unico stato tutte le popolazioni di etnia curda, ora divise in Turchia, Iraq, Siria e Iran.
Quello iracheno è un conflitto civile in cui il numero delle vittime (morti, feriti, profughi) è incalcolabile, mentre quello siriano è la somma di almeno tre guerre: fra il regime di Bashar Al Assad e i suoi oppositori; fra sunniti e sciiti; fra i curdi e la Turchia di Erdogan, per non parlare dei conflitti combattuti per procura come quello fra la Russia e alcuni paesi occidentali per le due basi russe in Siria.
Le guerre civili non si affrontano soltanto all’interno dei confini nazionali fra membri separati di una stessa famiglia. La crisi di uno stato attira nella mischia altri paesi e crea alleanze di comodo fra soggetti che sperano di conquistare, grazie alla vittoria dell’uno o dell’altro contendente, posizioni vantaggiose. In apparenza tutti i paesi coinvolti nella guerra siriana dovrebbero contrastare il terrorismo e l’organizzazione (Isis) che maggiormente ricorre ad azioni e metodi terroristici per raggiungere i suoi scopi. Ma se l’Isis combatte contro il regime di Bashar Al Assad, i nemici del presidente siriano sono pronti a chiudere un occhio sulle sue orribili strategie. Se l’Isis è sunnita e, quindi, naturale nemico degli sciiti, molti stati sunniti, soprattutto nel Golfo, non hanno esitato a fornirgli il denaro, le armi e il sostegno logistico di cui ha bisogno.
Se i curdi si dimostrano ottimi combattenti e capaci di dare un apporto decisivo alla sconfitta dell’islamismo radicale, la Turchia teme che i successi militari autorizzino questa tenace minoranza a pretendere una patria e non esita a intralciarne le operazioni. Come in molti altri casi la guerra terminerà probabilmente quando i combattenti saranno stanchi di sacrificare la propria vita per obiettivi irraggiungibili e quando i governi avranno bisogno di fare un passo indietro. Ma, ancora più di altre guerre in corso nella regione, avrà il risultato di modificare molti equilibri non soltanto regionali.
Alcuni paesi, come l’Iran e la Russia, potrebbero uscirne rafforzati; altri, come gli Stati Uniti e la Turchia, meno autorevoli di quanto fossero prima del conflitto. Resta da capire quali saranno le reazioni di Israele. Come nelle guerre irachene lo stato ebraico ha evitato di lasciarsi coinvolgere nelle ostilità. Ma sta già lasciando intendere che il rafforzamento del ruolo iraniano nella regione non lo lascerebbe indifferente.
Di tutti i problemi che affliggono la regione, tuttavia, il maggiore, probabilmente, è quello che – per molti aspetti – origina questa vicenda: la crisi dello stato arabo. La sua soluzione, in ultima analisi, dipende soprattutto dai popoli e dalle loro classi dirigenti.

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