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personaggi 2/2017
Storie di chi si è dato coraggio

Giovanni Duca Giovanni Duca

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Comandante dell’Accademia Militare di Fanteria e Cavalleria organizzava con due battaglioni e uno squadrone di allievi le prime resistenze contro l’invasione tedesca nella zona Pavullo-Lama Mocogno e raggruppava intorno alle sue forze i primi partigiani iniziando con essi l’accanita lotta tra le giogaie dell’Appennino Emiliano. Dopo aver messo in salvo la gloriosa bandiera dell’Accademia, si portava, per ordine ricevuto dal Comando Supremo, nell’Italia settentrionale assolvendo con grande capacità e sprezzo del pericolo compiti organizzativi. Catturato dalle SS unitamente al giovane figlio che gli era compagno in una pericolosa missione, manteneva il più fiero silenzio nonostante il bruciante dolore per le torture inflittegli e la disperata angoscia per l’avvenuto arresto della moglie e della figlia. Con il corpo fiaccato per il martirio, ma con l’animo sorretto dal senso dell’onore che fu luce della sua vita, dopo cinque mesi di agonia in una buia e stretta cella che era tomba di vivi, veniva barbaramente soppresso nella stanza delle torture riunendosi, nel cielo degli Eroi, all’amato figlio, contemporaneamente deceduto al campo di Mauthausen ove era stato deportato. Fulgida figura di soldato tutta dedicata al dovere e alla Patria e che ha preferito la morte al disonore.

Verona, 23 agosto 1944




Giovanni Duca

Giovanni Duca nasce a Torino il 5 novembre 1896, consegue il diploma di ragioniere, e diventa ufficiale di carriera, raggiungendo il grado di colonnello. Partecipa alla Prima guerra mondiale ed è decorato, al Valor Militare, con una Croce di guerra, due Medaglie di Bronzo e una d’Argento. Nel 1921 sposa Elisabetta Ascoli. I coniugi si stabiliscono a Roma e dal matrimonio nascono tre figli: Vittorio, Alfredo e Paola. In servizio di SM presso l’Ufficio Informazioni di una Grande Unità dal 1925, tra il 1934 e il 1940 assolve l’incarico di Addetto militare presso le ambasciate italiane in Belgio, Olanda e Portogallo. Transitato nel frattempo al Servizio Informazioni Militare (S.I.M.), comanda il 7° Reggimento di Fanteria ‘Cuneo’ sul fronte greco-albanese e porta a compimento numerosi incarichi speciali. Sorpreso dall’armistizio al vertice dell’Accademia Militare, che guida dall’ottobre del 1942, Duca è costretto a sciogliere il corso e, con il figlio Vittorio, anch’egli sotto le armi, organizza prima le formazioni partigiane nel modenese e poi quelle nel Veneto. Catturati entrambi, il padre è ucciso nel carcere di Verona, dopo cinque mesi di sevizie, mentre il figlio, è deportato a Mauthausen, dove muore.
La vicenda del racconto che segue (tranne la terribile conclusione) è immaginaria: è probabile che la famiglia Duca non abbia mai villeggiato a Rocca di Papa, ed è quasi certo che Vittorio, da bambino, non abbia mai posseduto un orsacchiotto. L’illazione fantastica vuole solo offrire un presagio dell’epilogo che arriverà quindici anni dopo, ed è quindi meno arbitraria di quanto potrebbe pensarsi.
Tu passerai per il camino è il titolo della testimonianza resa da Vincenzo Pappalettera, reduce da Mauthausen (Mursia, Milano 1965), ed è la minaccia rivolta dagli aguzzini ai deportati, sospetti di non essere sufficientemente pronti a obbedire.


Il camino di Giampaolo Rugarli
18 AGOSTO 1928. È ripartito. Chi è militare di carriera ha sempre una missione che lo chiama, e riparte. Il difficile spetta a noi mogli che restiamo ad aspettare. Sono stati giorni bellissimi quelli che abbiamo passato insieme, e Giovanni mi ha parlato di tante cose (a lui piace parlare del mondo e di ciò che succede nel mondo). Lindbergh, Pirandello, Briand e Kellog... Mussolini, naturalmente: con curiosità più che con entusiasmo. Sono stata felice, in questa casetta affittata a Rocca di Papa, per le vacanze dei bambini... Certo, non ci sono le comodità dell’appartamento di Roma e, a volte, la sera fa freddo. C’è il camino. C’era il camino anche a casa mia, da ragazza, e io so come si deve fare per accendere il fuoco, che riscalda e tiene compagnia. I bambini si divertono a scrutare tra le fiamme e a sentire la legna che, bruciando, scoppietta. Di giorno facciamo lunghe passeggiate e di sera andiamo a dormire abbastanza presto. Mi costa fatica prendere sonno. Leggo e penso. Penso, penso.
20 AGOSTO 1928. Non mi riesce di staccare Vittorio dal suo orsacchiotto. Ha sei anni, è grandetto. Tra meno di due mesi andrà a scuola e forse dovrebbe passare ad altri giochi. Meno infantili. Prima che Giovanni ripartisse gli ho parlato dell’orsacchiotto e gli ho chiesto consiglio. «Quasi quasi lo nascondo – ho azzardato – o addirittura lo butto via, nella spazzatura. Vittorio piangerà per un poco, poi si rassegnerà e penserà ad altro». «Che fastidio ti dà un orsacchiotto?» ha domandato mio marito. Ho esitato prima di rispondere. «Non è virile» ho sentenziato, ma sapevo di avere usato una parola troppo grossa. «Capisco che viviamo in un’epoca virile – ha sorriso Giovanni – e che presto i bambini giocheranno con le bombe... Tuttavia nostro figlio è così piccolo! Perché gli vuoi sottrarre un affetto?». Era questo il punto: era l’orsacchiotto che sottraeva a me l’affetto di mio figlio. «Sei forse gelosa?» ha insinuato Giovanni con una puntina di ironia. «Non credo proprio... gelosa di un brutto animaletto di pezza!». No, non sono affatto gelosa: però con mio marito ho preferito tacere. Non si replica a una domanda assurda.
21 AGOSTO 1928. Sto rileggendo i Sei personaggi di Pirandello. Il problema non è solo la frattura tra vita e teatro: è in gioco anche la frattura tra la vita che vorremmo e quella che siamo costretti a interpretare. Cerebralismi. Questa mattina mi sono spinta sino ai Campi di Annibale. Con i bambini. È stata una lunga passeggiata (ho convinto Vittorio a lasciare l’orsacchiotto a casa). C’è un chiosco dove Bartolomeo, un vecchio sciancato, vende i panini con la porchetta. Ne abbiamo mangiato uno e bevuto limonata. Nell’aria vi era un presagio dell’autunno e anche il cielo non era più denso, lattiginoso, come nei giorni della canicola; era spazzato, terso, altissimo, e ho pensato a Lindbergh che lo scorso anno, pilotando un piccolo aeroplano, ha attraversato l’Atlantico. Quali idee passano per la testa di un uomo smarrito tra cielo e mare, smarrito nell’infinito?
2 SETTEMBRE 1928. È ritornato mio marito. Vi sono state grosse novità di politica estera: quattordici nazioni hanno sottoscritto un patto di rinuncia perpetua alla guerra. Presto aderiranno altri Paesi, anche l’Italia. L’accordo è stato promosso da due statisti, un francese, Aristide Briand, e un americano, Frank Billings Kellog. «È meraviglioso» ho commentato con impercettibile ironia. «Dunque, mai più conflitti sulla faccia della terra?». «Speriamo» ha sospirato Giovanni, e ha soggiunto: «Purtroppo i trattati internazionali si affidano alla buona volontà di chi li firma... D’altronde, non c’è che la forza per ricondurre alla ragione i trasgressori e si arriverebbe al paradosso di una guerra combattuta per castigare chi ha fatto la guerra». «Non sembri entusiasta» ho osservato. «Ma no – ha protestato Giovanni – sarà una magnifica cosa, se il patto verrà rispettato. Purtroppo ero al fronte alcuni anni fa e conosco da vicino certi orrori. E gli orrori, quando sono troppo grandi, non chiedono perdono ma vendetta». Ha cambiato espressione, mi ha abbracciata, ha riso. «Non mi piacciono le malinconie della politica – mi ha detto – domani io e Vittorio ce ne andremo da qualche parte. Voglio che mio figlio impari a stare con il suo papà, ad aver fiducia in lui».
3 SETTEMBRE 1928. La spedizione di mio marito e di Vittorio ha avuto buon esito: sono partiti di buon mattino e sono tornati che era quasi buio. Trafelati, sporchi come due carbonai, ma felici. In realtà erano in tre: ho scoperto che il bambino si era portato l’orsacchiotto. «Sei troppo indulgente con la nostra creatura», ho rimproverato Giovanni, ma lui ha obiettato: «Ci penserà la vita a essere severa», e non ho insistito. Ho acceso il camino. Quando la fiamma è stata alta, ho detto a Vittorio: «Un giorno o l’altro, quel tuo brutto orsacchiotto lo butterò nel fuoco». Il bambino non mi ha risposto, si è stretto al cuore l’orsacchiotto ed è scappato via. «Perché lo tormenti?» mi ha chiesto Giovanni. «Sono stato con lui ai Campi di Annibale e... ti assicuro, non perché sia nostro figlio, è intelligente, è sensibile, è forte, è coraggioso. Abbiamo giocato insieme: a marciare, a correre, a saltare... Abbiamo anche giocato ai pellirossa. Mi ha commosso... Ha una fiducia cieca, illimitata in me, mi seguirebbe ovunque». «È anche una responsabilità – ho avvertito – una terribile responsabilità». Tra il serio e il faceto, ho soggiunto: «Poiché il bambino ha fatto di te il suo dio, dovresti convincerlo a eliminare l’orsacchiotto». «Ancora con questa storia?» ha brontolato mio marito. «È stupido rendersi assillanti: Vittorio capirà da solo di essere oramai troppo grande per quel giocattolo. E tu non essere gelosa di un animaletto di pezza».
4 SETTEMBRE 1928. Non ho chiuso occhio, questa notte: sembrerà un po’ folle, ma non ho smesso di domandarmi se ero gelosa dell’orsacchiotto. Il fatto è che Vittorio, il primo dei miei bambini, lo sentivo come mio, interamente mio, e non intendevo condividerlo nemmeno con un pupazzo. Mio marito, come se mi avesse letto nel pensiero, mi ha detto: «L’amore, quello vero, si preoccupa di dare prima che di ricevere». Dette da altri, queste parole mi sarebbero sembrate insincere, ipocritamente retoriche, ma lui è proprio così... è un generoso e, quel che è peggio, è persuaso che la generosità sia carattere saliente della natura umana. Afferma che persino Henri Landru, se avessero saputo leggere nel chiuso della sua anima, avrebbe rivelato sprazzi di bontà. Vorrei che non si ingannasse, ma sono sicura che si inganna.
7 SETTEMBRE 1928. Solita passeggiata con i bambini ai Campi di Annibale. C’era anche mio marito che, purtroppo, si è arrabbiato moltissimo. Cinque o sei ragazzacci avevano acchiappato un gatto e lo avevano appeso a un albero, a testa in giù, legato per le zampe posteriori. La povera bestia miagolava da stringere il cuore, ma i mascalzoni, insensibili alla sua sofferenza, la bruciacchiavano con dei legni accesi, accrescendone lo strazio. Giovanni ha subito liberato il gatto, venendo remunerato con un paio di feroci graffi alle mani, e poi ha messo in fuga i teppisti, lanciando urla che sono arrivate sino al cielo. Ho cercato di calmarlo, di collocare l’episodio in una dimensione meno drammatica. «Dopo tutto non era che un gatto – ho detto – e i suoi torturatori non erano che dei balordi da quattro soldi». «Non ammetto la cattiveria – ha replicato cupo Giovanni – neppure a danno di una formica». Inutile discutere. Peccato che un’ombra sia scesa a guastare la nostra serenità.
8 SETTEMBRE 1928. Mio marito è ripartito. È uno strano giorno, oggi. Non so dire perché, in realtà non ha niente di diverso dagli altri giorni del calendario: eppure mi par di cogliere una minaccia, un presentimento di sventure che sconvolgeranno le nostre vite in un futuro, speriamo, non troppo vicino. Sono immalinconita perché Giovanni non è più accanto a me. Comunque, abbiamo l’araba fenice, il patto Kellog, e magari gli impegni saranno rispettati. Non si sa mai. Il fatto è che la nostra generazione è abituata a non scherzare con la Patria, ci insegna così anche il regime fascista; e del resto, per quanto la guerra sia una’eventualità spiacevole, gli uomini hanno sempre combattuto gli uni contro gli altri. È nella loro natura affrontarsi con le armi in pugno, di tempo in tempo. Quanto a mio marito, non è il tipo che va in guerra e buonanotte: mio marito va in guerra e si fa onore. È già stato decorato con due medaglie al valor militare, una d’argento e una di bronzo (fu durante la guerra del 1915-1918, a Bosco Varagna e sul Monte Asolone: la prima volta, benché seriamente ferito, invece di cercare aiuto si prodigò per portare a termine la missione che gli era stata affidata, mentre, la seconda volta, affrontò coraggiosamente un tremendo corpo a corpo con il nemico). Mio marito di sicuro è un gentiluomo. Forse è anche un eroe?
9 SETTEMBRE 1928. Sui giornali ho letto che in un cinematografo di Roma si proietta Napoleone di Abel Gance: è uno degli ultimi film muti, anche le ombre dello schermo hanno cominciato a parlare. Napoleone è lungo tre o quattro ore ed è un capolavoro (così dicono quelli che se ne intendono). Mi piacerebbe vederlo. Soprattutto vorrei capire se è una costante, nelle vicende dell’umanità, l’apparizione di un uomo forte che mette tutto sottosopra. Buonaparte ebbe un tramonto malinconico... La storia si ripete?
14 SETTEMBRE 1928. Giovanni è ancora accanto a me. Vorrei ritornare nel nostro appartamento di Roma, comincio a essere stanca di questo esilio campestre, ma mio marito mi ha pregato di pazientare sino alla fine del mese. A lui piace molto Rocca di Papa ed è felice di farsi compagnia con Vittorio, alla scoperta del mondo. Naturalmente gli ho detto di sì, anche se il tempo è cambiato. Decisamente autunnale. Piove spesso e comincia a far freddo. Ho chiesto a Giovanni di accendere il camino: ha pasticciato con la legna e i giornali vecchi, ma il fuoco non attecchiva. Molto fumo, in compenso. È toccato a me di mostrare la mia abilità pirotecnica e una bella fiamma ci ha presto riscaldati e rallegrati. Non m’è riuscito di tenere la lingua a freno e ho scherzato: «So che tu sei ufficiale di fanteria e non di artiglieria, ma almeno riuscire ad accendere il fuoco... Che ne sarebbe di te, se tu naufragassi su un’isola deserta?». «In caso di naufragio, la tua sorte non sarebbe migliore della mia – ha obiettato Giovanni – perché non avresti i fiammiferi. E poi, per carattere, mi sento più vicino ai pompieri che agli incendiari... ».
Abbiamo chiacchierato così, come se esistessimo soltanto noi due e nessun altro (i bambini dormivano già da un pezzo). Ho chiesto a Giovanni le sue impressioni sul Napoleone di Abel Gance e sul cinema sonoro. «Non ho visto il film – mi ha risposto – non ne avrei trovato il tempo... Però mi hanno detto che la parabola di Napoleone viene fermata prima di Sant’Elena, prima di Waterloo... Insomma, il protagonista della storia è il vincitore, mentre sul vinto si sorvola. Credo che sia un errore, perché l’insegnamento desumibile dall’itinerario di Napoleone, l’unico insegnamento che conta, è la facilità con cui si precipita dagli altari nella polvere. Manzoni ha compreso perfettamente questa verità. A ogni modo il film di Gance è muto e, quanto al cinema sonoro, non ne sono entusiasta. Il Novecento ci sta facendo assistere a molti prodigi... penso alla radio o alla chinizzazione, e sono convinto che le maggiori meraviglie devono ancora arrivare. Ma si perde di vista l’essenziale, e l’essenziale è o dovrebbe essere il sempre, a dispetto della precarietà e della transitorietà della nostra condizione».
Discorso difficile. Mio marito ama i discorsi difficili. Non ho più parlato. Sentivo fuori la pioggia che cadeva, insistente, accanita, picchiava sui vetri e sulle tegole. Mi sono chiesta se quel mitragliamento ne ricordava altri a Giovanni, cruenti, micidiali. Lui mi ha sorriso. Noi due non abbiamo bisogno di tanti discorsi, riusciamo a dirci un sacco di cose anche tacendo. Ha stretto una mia mano tra le sue, l’ha accarezzata a lungo. Due mani che si toccano e che si stringono possono essere il sempre?
16 SETTEMBRE 1928. Su un giornale ho letto la storia di Isadora Duncan, morta lo scorso anno in un bizzarro incidente: la sua sciarpa si impiglia nelle ruote dell’automobile dove sta viaggiando e lei finisce strozzata. Non era più giovane, era una donna di una cinquantina d’anni, e il tragico infortunio ha forse contribuito a crearne o a convalidarne il mito. Sembra che abbia rivoluzionato la danza classica, però, da profana, so dire soltanto che ballava a piedi nudi. Con o senza scarpe, non vedo molta differenza, sebbene gli intenditori assicurino che bisogna essere scalzi per ritrovare aderenza alla terra e alla vera dimensione dell’umanità.
Mi sono tolta le scarpe e le calze, e ho accennato qualche passo. Non di danza, io non so ballare, semplicemente il normale spostarsi di una donna in faccende. Ho sentito un gran freddo ai piedi e poi, scrutandone le piante, ho visto che erano annerite nonostante i miei pavimenti luccichino come specchi. Vittorio mi ha sorpreso mentre sperimentavo il metodo Duncan. Mi ha chiesto: «Perché sei scalza, mammina?». Difficile rispondere, non potevo parlargli della Duncan. «Un morso delle scarpe − ho detto − volevo vedere se mi ero fatta male». «Che cosa è un morso delle scarpe?» ha insistito. «È quando la parte superiore di una scarpa ti stringe troppo in un punto − ho spiegato − e allora può provocare un arrossamento, persino una piccola piaga». «Mi levo le scarpe anch’io» ha concluso Vittorio, e ho faticato per dissuaderlo, per convincerlo che non era il caso.
Mi ha voltato le spalle e poi è riapparso stringendo al petto l’orsacchiotto. Lo ha baciato, lo ha accarezzato quasi con ostentazione: voleva farmi intendere che si era rifugiato in un pianeta fantastico dal quale ero esclusa. «Un giorno o l’altro, quel tuo maledetto orsacchiotto lo brucerò nella fiamma del camino» l’ho ammonito con voce torva.
20 SETTEMBRE 1928. Qualche tempo fa, il 20 settembre era una grande festa: la breccia di Porta Pia, Roma capitale... Adesso è tutto in sordina, si cerca di non dispiacere alla Chiesa con la quale Mussolini vorrebbe stringere un trattato. Ho chiesto qualche spiegazione a mio marito. Si è stretto nelle spalle. «Sono un soldato − ha dichiarato − preferisco non occuparmi di politica. E poi non ci capisco niente, anche se una cosa è certa: il Papa non farà mai una guerra». Questo è vero, ma vi sono state epoche in cui anche il Papa la faceva. Le ragioni del buon Dio non dovrebbero affermarsi ricorrendo alle armi.
20 SETTEMBRE 1928, NOTTE. Lunga passeggiata di mio marito con Vittorio, quest’oggi. Mi commuove la fede assoluta che il bimbo ha riposto nel suo papà. Se si trattasse di un altro padre, potrei anche essere preoccupata: il mio, per esempio, era un brav’uomo, ma era un personaggio abbastanza grigio e c’era poco in lui che inducesse a considerarlo un modello. Era anonimo ed era contento del suo anonimato. Invece mio figlio ha veramente trasformato il padre in un dio... Io so che Giovanni non lo deluderà, tuttavia sono persuasa che nel mondo dei superuomini tutto diventa più difficile.
Capisco che deve essere accaduto un qualche cosa, ma al bambino non riesco a cavare una parola. Racconta mio marito, appena rimaniamo soli. C’è stato quasi un dramma. Vittorio aveva affidato l’orsacchiotto al papà, e il papà lo aveva perduto. Possibile? Ma sì, dimenticato da qualche parte, andando su e giù per fratte, sentierini e scoscesi, c’è stato un momento di disattenzione e, purtroppo, quel momento è bastato perché avvenisse l’irreparabile. Mi sforzo di nascondere la mia esultanza: finalmente l’idolo è stato abbattuto. Giovanni mi legge nel pensiero e: «Sbagli a rallegrarti − mi rimprovera − nostro figlio ha provato un dolore tremendo, anche se ha cercato di nasconderlo. Sapeva che il responsabile del fattaccio ero io e non voleva avvilirmi più di quanto non fossi mortificato per mio conto. Mi ha detto che, dopo tutto, quel giocattolo per lui non era molto importante... e che la mamma sarebbe stata contenta, perché ce l’aveva con il povero orsacchiotto. Mi ha chiesto se avrei potuto comprargli un gatto, un gatto vivo, di carne e ossa, capace di miagolare e di fare le fusa. Gli ho risposto che i gatti non c’è bisogno di comprarli, se ne trovano quanti uno vuole e... in quel momento è scoppiato a piangere, si è stretto a una mia gamba e, tra i singhiozzi, ha continuato a ripetere: «Oh, papà mio! Papà mio!» Non riusciva più a nascondere la sua pena ed era disperato». «Gli passerà» ho concluso filosoficamente, e ho soggiunto: «Spero che non penserai di adottare un gatto... Sporcano, graffiano i divani e le poltrone... Sono la rovina degli appartamenti». «Vedremo − ha detto mio marito − ma non credo che un povero micio abbia questi poteri malefici».
Ci siamo augurati una buonanotte fredda fredda e siamo andati a dormire. Mi sono svegliata poco dopo: il sonno era passato ed ero piena di pensieri spiacevoli. In punta di piedi, scalza, sono scivolata fuori dalla stanza da letto... E ora sto scrivendo sul mio diario.
21 SETTEMBRE 1928. È ritornato l’orsacchiotto. Hanno bussato alla porta e mi sono trovata davanti Bartolomeo, quello che ha il chiosco di porchetta, panini e bibite ai Campi d’Annibale. Il giorno prima, mio marito e il bambino si erano fermati da lui, per fare colazione, e l’orsacchiotto era stato dimenticato su una sedia. Bartolomeo avrebbe voluto inseguire i due sbadati, ma c’erano altri clienti; e poi lui è impicciato con una gamba, non ce la fa a correre, così aveva rimandato la restituzione a un tempo più propizio. Ci conosceva, sapeva benissimo dove andare. «Non è contenta?» mi ha chiesto, forse aveva sorpreso una strana espressione sul mio volto. «Sono felice − ho mugolato − e non ho parole per ringraziare. Posso offrire un caffè?». «Grazie − ha replicato Bartolomeo − ne ho già bevuti troppi e potrebbero nuocere alla mia povera gamba». Per un attimo ho posato lo sguardo sull’arto offeso. «È stato un incidente?» ho domandato pietosa. «No − ha detto sospirando Bartolomeo − paralisi infantile. Sono vivo per un miracolo, e forse sarebbe stato meglio se il miracolo non ci fosse stato». «Non dica così − l’ho rimproverato − la vita... la vita... la vita... ». Volevo decantargli tutte le meraviglie della vita, ma non mi è venuto in mente nulla di notevole. Bartolomeo ha capito e ha sorriso.
Adesso mi domando se dovrò restituire l’orsacchiotto a mio figlio oppure se, approfittando della circostanza, lo farò sparire.
24 SETTEMBRE 1928. Ho sottoposto a mio marito il problema dell’orsacchiotto. «Ma come? − si è stupito − Non lo hai ancora restituito al bambino?». «Lo sai come la penso − ho obiettato − non mi piace che Vittorio giochi con un animaletto di pezza, sembra... sembra una femminuccia con la bambola. Dovrebbe divertirsi con qualcosa per maschietti... ». «E che cosa dovremmo regalargli?» ha domandato con ironia Giovanni. «Dovremmo fargli dono di un fucile?». «Non prendermi in giro − ho protestato − sai benissimo che i ragazzini giocano con i soldatini, con gli elmi da romano antico, con le pistole scacciacani... I veri maschietti». «Che cosa vuoi insinuare?» mio marito ha sorriso sempre più ironico. «II cuore degli uomini e delle donne è lo stesso, e tra uno che fa l’ammazzasette e un altro che è capace di commuoversi, sono persuaso che è molto meglio il secondo. A ogni modo, per quanto riguarda l’orsacchiotto, fa come vuoi: però, ricorda, tu sei gelosa di un giocattolo e questo sì è un atteggiamento inquietante».
25 SETTEMBRE 1928. Ho restituito l’orsacchiotto a Vittorio, però ho voluto dare un tono di ufficialità alla riconsegna, ho utilizzato la circostanza per stabilire una sorta di carta dei diritti e dei doveri tra genitori e figli. E tra orsacchiotti. Ho stabilito che al gioco con gli animali di pezza bisogna dedicare non più di un’ora alla settimana, mentre tutti i giorni un bravo bambino gioca alla guerra. «Chi sono i nemici?» ha chiesto Vittorio. «I nemici sono i cartaginesi» ho spiegato. «Chi sono i cartaginesi?» ha insistito Vittorio. L’ho trattenuto brevemente sulle Guerre puniche, su Annibale e su Scipione. «Annibale è quello dei Campi di Annibale?» si è informato il bambino. «Proprio lui» ho confermato. «Allora io tengo per i cartaginesi» ha dichiarato Vittorio. «Sei uno spirito di contraddizione − ho detto indispettita − sei sempre di parere contrario... ». «Non sono di parere contrario − ha replicato la piccola peste − ma a me la guerra non piace». «Che stupidaggine!», l’ho rimproverato. «Non piace neanche a me, non piace a nessuno... cioè, quasi a nessuno. Ma c’è la difesa dei confini, il sacro suolo della Patria e c’è anche Giuseppe Garibaldi... ci sono tante cose, non è tutto tanto facile come credi. E poi io ti ho suggerito di combattere contro i cartaginesi. Acqua passata». «Io tengo per i cartaginesi» ha ripetuto testardo.
Gli ho consegnato l’orsacchiotto e mi sono fermata a studiare le sue mosse. Ha preso l’animaletto di pezza e, lieve lieve, lo ha baciato sulla testa, lo ha accarezzato. Lo ha fatto sedere su una poltrona, come fosse stato una creatura umana, un bambino come lui. «Ho freddo − mi ha detto − abbiamo freddo». Ho acceso il camino.
25 SETTEMBRE 1928, SERA. Abbiamo cenato in silenzio (mio marito è lontano, una missione di lavoro, al solito). I miei tentativi di chiacchierare con Vittorio, magari di riprendere il discorso sui cartaginesi, sono caduti nel vuoto. Lui è offeso con me o forse solo dispiaciuto. Con il silenzio esprime il suo rammarico. «II fuoco sta morendo − butto là, tanto per dire qualche cosa − c’è da aggiungere un po’ di legna». È un attimo, un baleno, non c’è tempo di intervenire o di interloquire: Vittorio lascia il suo posto, afferra l’orsacchiotto e lo butta tra le fiamme. La pezza, al calore, annerisce, frigge, si incendia, esala verso l’alto una densa colonna di fumo: alla fine non resta che un misero mucchietto di cenere tra i tizzoni ardenti. «Sei impazzito?» domando con volto e con voce burberi, e mi trattengo per non mollare una sberla al bambino. «Che anarchia è questa?». «L’orsacchiotto era mio − lui risponde piano, in tono un po’ tremante − tu non gli volevi bene... Così ho pensato di farlo passare per il camino e di mandarlo in cielo. In cielo non darà fastidio a nessuno». Mentre parla, i suoi occhi si riempiono di lacrime.
25 SETTEMBRE 1948. Dopo vent’anni, ho ritrovato il diario al quale confidavo i piccoli fatti della mia vita quotidiana, le mie emozioni, i miei sogni a occhi aperti. Non so perché smisi di scrivere, o forse lo so, ma preferisco non ricordare. Sono accadute tante cose e il mondo è cambiato molto più di quanto potessi immaginare. C’è stata un’altra guerra e hanno vinto i cartaginesi. Il fascismo è caduto. Mio marito è morto. Al tempo dell’armistizio, comandava l’Accademia militare, e fu tra i primi a organizzare un nucleo di resistenza. Catturato, fu tradotto in carcere a Verona (per breve tempo fummo imprigionate anch’io e mia figlia). Giovanni subì cinque mesi di torture: i carnefici volevano estorcergli i nomi dei partigiani che combattevano con lui. Non parlò. Non era soltanto un gentiluomo, era anche un eroe. Fu ucciso come un cane. Fu decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Mio marito fu preso insieme a nostro figlio Vittorio, anche lui militare e partigiano. Il mio bambino fu deportato a Mauthausen, dove morì insieme ad altri centoventimila: non so se a ucciderlo furono gli stenti, le percosse o le sevizie. È quasi certo che il suo cadavere venne cremato: anche lui passò per il camino e giunse subito in cielo.

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