personaggi 1/2017
Storie di chi si è dato coraggio
Fabrizio Vassalli MOTIVAZIONE Medaglia d'Oro al Valor Militare Dopo l’armistizio, dalla Dalmazia raggiungeva, con mezzi di fortuna, un porto nazionale, e quivi giunto si offriva immediatamente come volontario per una rischiosa missione in territorio controllato dai tedeschi. Superando difficoltà e pericoli di ogni genere, riusciva ad attraversare le linee avversarie e a raggiungere la Capitale. Con operosa e sagace attività collaborava, per oltre cinque mesi, al servizio informativo e al movimento patriota romano, fornendo preziose informazioni operative al Comando Supremo italiano e alleato. Arrestato dalle autorità tedesche e sottoposto alle più inumane torture, manteneva il più assoluto segreto circa il movimento informativo e patriota della zona, salvando così l’organizzazione e la vita dei propri collaboratori. Dopo circa due mesi di carcere, veniva barbaramente trucidato dalla sbrirraglia tedesca, mentre gli eserciti alleati giungevano alle porte della Città Eterna. Con il suo esempio animatore e il sublime sacrificio della vita, manteneva viva nei patrioti la volontà di resistenza e la fede nella rinascita della Patria. Roma, 24 maggio 1944 |
Fabrizio Vassalli Nasce a Roma il 18 ottobre 1908. Il nonno paterno, Collatino, fu un architetto reputato, e i Vassalli furono iscritti dalla guida Monaci tra i nobili di Roma. Fabrizio si laurea in scienze economiche, è impiegato a Roma e, nel 1936, sposa Amelia Vittucci che gli sarà sempre vicina, nell’azione e nelle sofferenze. Ufficiale di artiglieria, diciotto mesi dopo lo scoppio della guerra (10 giugno 1940) è destinato al comando di una batteria contraerea nell’isola di Saseno (Albania) dove è sorpreso dall’armistizio; raggiunge quindi Brindisi mettendosi a disposizione del Comando Supremo che lo invia a Roma per svolgervi attività informativa. Il seguito della sua vicenda è detto nel racconto. Ovviamente la madrepora appartiene alla mia fantasia, benché, nel suo significato simbolico, aderisca ai fatti. Monsignor Nasalli Rocca è l’eminente prelato al quale si fa riferimento: è personaggio storicamente esistito, che nella Curia vaticana ebbe una posizione di rilievo e che, negli anni calamitosi della guerra, si adoperò per alleviare le tante, le troppe sofferenze. Alla vedova Amelia Vittucci, pervennero messaggi di encomio dal Maresciallo d’Italia Giovanni Messe, Capo di Stato Maggiore generale, e dal generale Harold Rupert Alexander, Comandante in Capo del contingente britannico in Italia. La madrepora di Giampaolo Rugarli Sì, il ricordo più struggente era la madrepora. Sapete di che cosa si tratta? Secondo l’aureo dizionario del Tommaseo, è un nome collettivo che «abbraccia molti generi di polipi» e, questi animali «danno origine coi loro polipai pietrosi a enormi masse che a poco a poco si innalzano dal fondo del mare fino o verso la sua superficie». A dirla alla buona, è qualche cosa di simile a una formazione corallina: a spiccarne un frammento ci si trova tra le mani un oggetto arborescente, dai colori smaglianti. Il poeta Guido Gozzano ricorda che oggetti così venivano usati per ornamento della casa e, non so da quali antenati e attraverso quali canali, una madrepora era giunta sino a me e a Fabrizio, mio marito. La tenevamo in mostra, sopra un mobile dell’anticamera e, poiché l’alberello in miniatura si biforcava e i due rami tendevano uno al verde e l’altro al rosa, scherzavamo immaginando di essere simbolicamente rappresentati dai due bracci. Quando ebbi notizia dell’armistizio, sapendo Fabrizio lontano, a Saseno, un’isola dell’Albania, all’altro lato del canale di Otranto, non so perché guardai la madrepora, come fosse stata un barometro che mi avrebbe informata sull’avvicinarsi della tempesta. Mi sembrò che il tempo indicato fosse bello stabile, nonostante i terribili segnali mandati dalla radio e dai giornali. Non sbagliai a non allarmarmi o a non allarmarmi troppo: non molto tempo dopo bussarono alla porta di casa e mio marito riapparve. Indossava abiti borghesi, alquanto strapazzati, aveva la barba incolta e il suo aspetto lasciava parecchio a desiderare: però era sano e salvo e riabbracciandolo compresi che la felicità comincia dove finisce la solitudine. Senza di lui mi ero sentita svuotata, incapace di lasciarmi vivere ma costretta a programmarmi minuto per minuto: per non pensare. Il racconto di Fabrizio mi colmò di postuma angoscia. Lui comandava una batteria contraerea, in terra straniera, tra gente forse non proprio amica, ed ecco che, di punto in bianco, giungeva l’ordine della resa. A chi? In che modo? Fabrizio non aveva esitato e, con alcuni compagni, aveva preso il mare a bordo di una grossa barca da pesca: lo dividevano poche miglia dalla costa pugliese. Purtroppo l’Adriatico si era incattivito e, per un bel pezzo, era stato necessario rinunciare alla vela e aspettare, in balìa delle onde, sperando che lo scafo non si capovolgesse. A dispetto del cielo buio, tagliato dalla luce glauca dei lampi, lo scafo aveva retto e al chiarore dell’alba era stato possibile issare la vela. I voli dei gabbiani avevano annunciato la vicinanza della terra. Mio marito non aveva tardato a capire quello che era accaduto: i nemici di ieri erano diventati gli alleati di oggi e viceversa naturalmente. Forse sarebbe stata preferibile una Patria un po’ più stabile nei suoi umori, ma era pur vero che una Patria, madre e non matrigna, non avrebbe buttato i suoi figli nell’avventura cominciata tre anni prima. A ogni modo, per un militare, la lealtà e la legalità stavano dalla parte del re. Così Fabrizio si era presentato al nuovo Comando e si era offerto per una difficile, pericolosa missione: passare la linea del fronte, attestata al di sotto di Cassino, raggiungere Roma e, dalla capitale, informare circa la consistenza, le attività e i piani dell’esercito tedesco. Per brevi attimi pensai che mio marito non era ritornato da me, ma aveva cambiato postazione, in una guerra che per l’Italia non era ancora finita; poi mi vergognai di aver ceduto al mio orgoglio di moglie e di donna e compresi, anzi condivisi lo spirito che animava Fabrizio. Tutti e due avevamo la sventura di vivere in tempi duri, che lasciavano poco posto all’amore, almeno quello dei fidanzati, degli sposi, degli amanti: ammettevano solo l’amore che ogni uomo dovrebbe portare al proprio simile e che una barbarie pervadente, invasiva calpestava con insopportabile crudeltà. «Sono preoccupato per te, Amelia» disse mio marito. «Nonostante tutto, io continuo a essere un militare e il mio dovere è di combattere… Ma tu sei una donna e non hai alcun obbligo, neppure morale. Mi sento un po’ vile, nel coinvolgerti». «Mi sentirei vile io – risposi – se non fossi al tuo fianco. Farò tutto quello che occorre». «La tua decisione è nobile – Fabrizio sorrise scialbamente – tuttavia vorrei che tu valutassi i pericoli: dovremo gestire una radio ricetrasmittente, dovremo comunicare in cifra e tenere nascosto il cifrario, dovremo custodire armi ed esplosivi, dovremo nascondere patrioti braccati... È un terribile gioco. Per chi sbaglia c’è la fucilazione». «Non sbaglieremo» tagliai corto, piena di entusiasmo. Per un poco non sbagliammo, ma un passo falso diventava sempre più probabile: il numero dei congiurati, se posso esprimermi così, aumentava e alle facce amiche si aggiungevano facce mai conosciute, accrescendo il rischio di una delazione. Ci spaventammo quando giunse la notizia che il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo era stato catturato. Montezemolo era il nostro referente e, sebbene l’organizzazione lo avesse sostituito prontamente, era inquietante che fosse caduto nelle mani dei tedeschi: qualcuno si era infiltrato tra di noi e lavorava per la nostra rovina. Montezemolo fu ammazzato alle Ardeatine ma, almeno, era colpevole di essersi ribellato: gli altri, che furono sterminati con lui, avevano la sola colpa di essere ebrei e di essere vivi. Il massacro ci persuase, se mai un dubbio ci avesse sfiorato, che la causa giusta era la nostra. Raddoppiammo le precauzioni. Non servì e quel maledetto mese di marzo del 1944 Fabrizio e altri furono arrestati non lontano da piazza del Popolo. Poco dopo venni arrestata anch’io. Non c’è dubbio, c’era un traditore più bravo di noi. Sorriderete di me: nel separarmi dalla mia casa, dalla mia roba, dalla mia intimità, mi dispiacque solo di dovermi congedare dalla madrepora. L’alberello pietrificato, in cui immaginavo si conchiudessero la mia vita e quella di Fabrizio, parve rabbrividire, come investito da un’onda del mare cui era stato strappato: fantasie, pensai, fantasie di una povera donna vinta e disperata. Cacciai indietro una lacrima e mi affidai ai miei aguzzini. Cominciava la parte più difficile. Sarei stata interrogata, sarei stata esortata anch’io a tradire e, per meglio convincermi, sarei stata blandita e minacciata: ma non temevo per me stessa (ed è singolare come infonda coraggio sapersi vittime di un sopruso), ero disperata pensando a mio marito. Se mi avessero offerto la sua salvezza in cambio di una spiata, come avrei dovuto comportarmi? Naturalmente sapevo che nessun valore era più grande del mio silenzio, neppure la vita di Fabrizio... ma, per capire, bisogna trovarsi in certe situazioni, nella semioscurità e nella incerta quiete di una cella, dove ogni suono è un enigma da decifrare, una porta che sbatte, un colpo di tosse, un lamento, un grido. Mi consolai riflettendo che non avevo niente da rivelare che già non sapessero. E Fabrizio era nella mia stessa situazione. Tutti e due eravamo non all’inizio ma al termine della retata: avevamo ben poco da confidare, meritavamo solo di essere puniti a monito di chiunque non si fosse piegato all’imperativo nazifascista. Certo, infliggerci una congrua dose di tormenti sarebbe servito a inasprire il castigo: comunque nel nostro futuro non poteva esserci che la morte. Come era stato per Montezemolo e per tanti altri. Fummo processati. Un normale processo è il confronto di due verità, ma la nostra non ebbe modo di esprimersi: io e mio marito fummo sommersi sotto una valanga di insulti, non fummo nemmeno accusati ma fummo soltanto oltraggiati, disprezzati, colpiti da ingiurie che calavano come coltellate. Fummo condannati a morte, tutti e due: mediante fucilazione nella schiena. Non fummo ammessi a domandare un giudizio di appello che, d’altronde, non avremmo chiesto. La nostra condanna fece un certo rumore: la famiglia di Fabrizio e anche la mia a Roma erano piuttosto note e subito personaggi così detti influenti si misero in moto perché la sentenza non fosse eseguita. Gli angloamericani oramai erano alle porte e spedirci dinnanzi al plotone di esecuzione appariva una crudeltà insensata e sterile. Venni liberata. Mi avvertirono che del provvedimento di clemenza ero debitrice al Santo Padre, nella vicenda rappresentato da un eminente prelato della Curia. Andai a visitare il prelato per ringraziarlo e per raccomandargli mio marito che, in carcere, attendeva di essere giustiziato. Fui accolta con parole molto incoraggianti. «Anche il capitano Fabrizio Vassalli sarà presto restituito ai suoi affetti – mi rincuorò il Monsignore – solo si vuole che passi ancora qualche giorno... per non dare l’impressione di un cedimento di fronte alla guerriglia partigiana. Sono tempi terribili quelli in cui viviamo... Non vorrei predicare la viltà, ma forse sarebbe stata opportuna la prudenza». «Mio marito – osservai un po’ risentita – è un militare e, nella sua posizione, la prudenza è un lusso non consentito. Sorvolando sulle parentele illustri che impongono un comportamento quanto meno dignitoso: alludo al conte Sebregondi, ricordato da Domenico Tumiati nel dramma Il tessitore e, più ancora, allo scultore Ettore Ferrari». «Delle parentele illustri so tutto – sorrise il Monsignore – e può anche darsi che abbiano avuto qualche peso nell’ottenere clemenza, benché io mi auguri che non sia andata così. Figli di re e figli di servi, dovremmo essere tutti eguali su questa terra: o pretendo l’impossibile, signora Amelia?». «In linea di principio sono d’accordo – risposi – nondimeno è comprensibile che, per me, mio marito sia più importante di ogni altro». «È l’umanamente comprensibile che ci rovina – sospirò il religioso – mentre avremmo un disperato bisogno di elevarci al di sopra della nostra miseria... Comunque, signora, per quanto posso immaginare e pur con le riserve imposte dalle contingenze calamitose, la rassicuro sulla sorte di suo marito... Vada in pace. Se crede, se può, aiuti con la preghiera il capitano Vassalli e, magari, aggiunga una intenzione per tutti coloro che sono in pericolo». Pregai, si, moltissimo, a casa, in chiesa, per la strada, ma supplicai solo per mio marito, degli altri che erano in pericolo non mi ricordai. Bisogna capirmi. Nelle mie pratiche di fede non ero esemplare: stentavo a credere in Dio, tutt’al più riuscivo a sperare in Qualche Cosa che m’appariva tanto misteriosa, enorme e lontana da mozzarmi il fiato. Adesso – in quello che era il momento più difficile della mia vita – Dio mi sembrò vicinissimo, il Padre al quale si poteva confidare e chiedere tutto. La preghiera mi restituiva un po’ di tranquillità e mi aiutava a riempire l’attesa. Forse non c’era ragione di temere, non troppo: se io ero stata liberata, anche mio marito sarebbe stato trattato nello stesso modo. E poi il Monsignore mi aveva detto parole incoraggianti. Pensai che il miglior modo d’aspettare mio marito fosse quello di ripulire e di riordinare il nostro appartamento: gli avrei fatto trovar tutto più lucido di uno specchio e quando, finalmente, fosse riapparso gli avrei cucinato un pranzetto squisito, per quanto permesso dalla penuria di guerra. Il mio proposito m’impegnò non poco. La nostra povera casa era stata rovistata e soqquadrata da cima a fondo: sparito l’apparecchio ricetrasmittente, sparita la rivoltella di mio marito, spariti molti libri, sventrati il divano e le poltrone, svuotati i materassi, sfondati alcuni cassetti... Sì, sembrava che fossero passati i Vandali. Per non so quale miracolo, i saccheggiatori non avevano scoperto il cifrario che era rimasto nel suo nascondiglio segreto... O lo avevano scoperto e, dopo averlo copiato, lo avevano lasciato dov’era per sorprendere i nostri messaggi? Mi rimboccai le maniche e feci quello che potevo per rimettere ordine. Riempii con la lana le fodere dei materassi, medicai alla meglio il salotto squarciato, tentai di ridare all’arredamento domestico un’apparenza di normalità. Fui contenta di me stessa. Al termine della mia fatica alcuni segni della devastazione erano ancora visibili, ma l’appartamento aveva riacquistato il suo aspetto perbene, protettivo, rassicurante. Forse non del tutto, ma a me piaceva pensare così, anche perché la madrepora era scampata al massacro e, con i suoi due rami elegantemente contorti sanciva la continuità della vicenda mia e di Fabrizio. Cominciavo a esserne quasi sicura: si, mio marito l’avrei stretto ancora tra le mie braccia. Non so che cosa mi prese, caddi quasi in uno stato di esaltazione e telefonai a mezzo mondo partecipando la mia certezza che Fabrizio sarebbe tornato a casa prestissimo. Fui accolta con freddezza, a volte con fastidio. I telefoni potevano essere ascoltati e la gente, parlando con me, temeva di compromettersi. Mia madre mi donò comprensione e affetto, di compromettersi se ne infischiava: mi suggerì di non aprirmi troppo alla speranza, di attendere gli eventi senza farmi illusioni, poi scoppiò in pianto e toccò a me di confortarla. Erano già passati alcuni giorni e di mio marito non mi erano giunte altre notizie. La primavera incalzava, la primavera non si preoccupava della guerra, faceva il suo lavoro e spargeva colori, profumi, trasalimenti... ma sì, il più bel mese dell’anno era maggio. Di mio marito non mi erano giunte altre notizie. Telefonai al Monsignore che aveva patrocinato la mia causa. Per tre volte si fece negare, poi ebbe pietà di me e rispose: «Pronto. Certo che la riconosco, signora Amelia, e vorrei darle una buona notizia... Purtroppo un meccanismo si è inceppato e l’esito delle mie premure è malsicuro. L’arrivo degli angloamericani sembrerebbe imminente e questa circostanza dovrebbe consigliare di non infierire. Invece il cattivo andamento delle operazioni belliche fa salire la rabbia, così devo ritrattare le previsioni ottimistiche del nostro incontro. É tutto tremendamente precario e io temo che suo marito sia in pericolo». «Questo non è possibile – obiettai – Perché non sarebbe possibile?» chiese stupito il Monsignore. «Perché noi due ci vogliamo bene – spiegai – anzi, sebbene il verbo ‘amare’ spesso sia usato a sproposito, noi due ci amiamo. Capisce quello che intendo?». «Lo capisco – disse il Monsignore con un vago imbarazzo – il guaio è che non lo capiscono i tedeschi». «Che cosa devo fare?» lo incalzai convulsa. «Quando lei ha avuto la bontà di ricevermi, mi ha raccomandato di pregare e io l’ho fatto. Sapesse quanto ho pregato! Devo pensare che è stato inutile? Devo pensare che il Signore non ha voluto ascoltarmi?». «Il Signore non dovrebbe essere coinvolto nelle miserie umane – obiettò il prelato – e la preghiera non è un tributo che paghiamo a Dio. Semmai è un tributo che paghiamo a noi stessi: alla nostra pochezza, alla nostra fragilità». «Che cosa devo fare?» ripetei. «Si faccia coraggio» consigliò il Monsignore e chiuse la conversazione. La rassegnazione non appartiene al mio carattere. Per un poco andai su e giù per l’appartamento, chiedendomi se dovevo prestare fede al messaggio che avevo appena finito di sentire. Sì, purtroppo era sciocco che mi illudessi, gli avvenimenti stavano precipitando verso il peggio e io non avevo alcuna possibilità di arrestarli o di cambiarli. Cioè... Pensai di recarmi al Comando tedesco, di rifiutare la clemenza che era stata accordata soltanto a me: se avevano deciso di fucilare mio marito, volevo essere fucilata insieme a lui. Mentre mi agitavano questi pensieri, macchinalmente, senza badare, sfioravo, accarezzavo, toccavo la madrepora, cercando, nel contatto con l’oggetto, un ancoraggio a una realtà incomprensibile, una realtà che mi divorava e mi toglieva persino la speranza. Un breve, secco rumore mi avvertì che un ramo dell’arborescenza si era spezzato e mi trovai tra le mani la branca virente che, per un poco, rimasi a contemplare costernata. Dubitai di essere stata io stessa, con un movimento maldestro, a provocare la frattura, ma così non era, le mie dita erano scivolate sulla madrepora con levità e la repentina mutilazione sembrava il risultato di un comando segreto e arcano, di un maleficio ordito da potenze demoniache per meglio suggellare la mia desolazione. Sono o almeno mi sforzo di essere una donna razionale. Non credevo e non credo a presenze occulte o a incantamenti, buoni o cattivi che siano: nondimeno quell’improvviso cedimento, come se un oggetto di casa avesse voluto mandarmi un segnale, mi turbò, e telefonai a mia madre per raccontarle la strana evenienza. E anche per ricevere conforto ma, con lei, finiva sempre per toccare a me di metterci una parola di consolazione. Non era più giovane, era infelice, era fragile. Mi disse che esiste una stanchezza dei materiali, che può persino succedere che un pezzo di ferro si rompa, tutt’a un tratto, senza una causa apparente. Al mio soprammobile doveva essere capitata una cosa del genere. Si era stancato. «Si può incollare?» domandò. «Non lo so, non credo» mormorai. «Dipende dalla forma della rottura – mi spiegò mia madre – dovresti guardare se c’è un taglio netto o se i margini della ferita sono sbriciolati». «C’è un taglio netto» precisai. «Allora si può aggiustare – concluse mia madre ottimisticamente – forse puoi riuscirci tu stessa, con un po’ di colla da falegname». Tacque e poi la sentii che tirava su col naso, stava per mettersi a piangere. «Che cosa c’è mamma?» dissi e il tono della mia voce rese evidente l’ansia. «Pensavo – lei mi spiegò – che sarebbe molto bello, se anche le vite umane si potessero riattaccare con la colla da falegname». Già, sarebbe stato molto bello. Mio marito fu fucilato all’alba del 24 maggio, a Forte Bravetta. Gli spararono nella schiena, si fa così con i traditori. Appresi che era morto da coraggioso, da eroe. I conforti della fede gli furono dati dallo stesso Monsignore che era riuscito a ottenere la mia scarcerazione. Il Monsignore, tra le lacrime, tremando, pochi momenti prima della esecuzione, confidò a Fabrizio: «Io, sacerdote, mi auguro che, il giorno in cui Iddio mi chiamerà, possa incontrarmi con Lui con la stessa serenità con cui tu affronti la sorte». Appresi pure che, prima dell’esecuzione, mio marito era stato torturato perché tradisse l’organizzazione e gli altri patrioti. Non una parola era uscita dalla sua bocca. Mi fu recapitata una lettera di suo pugno, il suo congedo da me e dalla vita. Mi scrisse: «Mi dolgo solo di non avere visto i nostri entrare a Roma». I nostri entrarono a Roma il 4 giugno del 1944, pochi giorni dopo la fucilazione. Perdere un marito che si ama è una sciagura, perderlo come era accaduto a me è una tragedia che ti segna per sempre. E poi portavo un rimorso dentro di me, un rimorso che, con il passare del tempo, ingrandiva e che non mi lasciava in pace: tutti e due eravamo responsabili, nella stessa misura, dei fatti che avevano determinato l’epilogo cruento. Ma aveva pagato lui soltanto. A me era stato permesso di fuggire. Perché questa disparità? Non mi sembrava verosimile che, a suggerire misericordia, fosse stato il mio essere una donna: non erano tempi di cavalleria, nemmeno di fronte al plotone di esecuzione. Pensai, rimuginai, mi tormentai. Alla fine chiesi udienza al Monsignore che era intervenuto nella vicenda, riuscendo a salvare me ma non mio marito: l’eminente prelato avrebbe dovuto offrirmi una spiegazione convincente e io non gli avrei permesso di rifugiarsi dietro la imperscrutabile volontà di Dio. Era in discussione la volontà degli uomini, l’Altissimo sarebbe stato meglio non scomodarLo, una volta tanto. Era passato più di un anno e la guerra era finita oramai. A Roma faceva caldo, era estate e l’estate, cessato il fragore delle armi, tornava a essere la stagione delle notti più brevi e dei sogni più lunghi. Tutto ricominciava ad avere una apparenza di normalità. Erano ritornati i coni gelato, le spedizioni a Ostia o fuori porta, le ‘fusaglie’ e i venditori di ‘fusaglie’. Erano ritornate le rondini. Il Monsignore sudava e ogni poco si asciugava con il fazzoletto la fronte. Mi chiese se volevo un po’ di granita alla menta. Ringraziai, ma respinsi l’offerta. «Non so spiegarle la disparità adottata» disse il religioso, parlando lentamente, pesando ciò che usciva dalla sua bocca, timoroso di esasperare una situazione già difficile. «Come lei sa, in un primo momento mi era sembrato che vi sarebbe stata clemenza tanto per lei quanto per suo marito... Invece... Mi sono domandato molte volte il perché della disuguaglianza e oggi sospetto che, risparmiandole la vita, i nazisti non le abbiano fatto un regalo. Le hanno lasciato un dubbio, un rovello che, nonostante sia già passato più di un anno, a quanto vedo non l’abbandona. Potrebbe essere un castigo peggiore della pena capitale, che si esaurisce in pochi attimi e che consegna una certezza, orribile quanto si vuole, ma pur sempre una certezza, mentre lei s’interroga e m’interroga, non si dà pace. Per quanto tempo continuerà così? Lei è una donna ancora giovane e, per carità, non oso affermare che debba consolarsi, tuttavia sarebbe giusto che non vivesse murata nel passato. Il passato è giusto che si sgretoli, che si polverizzi in ricordi, ma si deve far posto al presente, cioè si deve far posto alla vita. E, per quanto riguarda la concrezione corallina della quale lei mi ha raccontato, va da sé che non credo a eventi soprannaturali: a spezzare uno dei due rami sono state cause fisiche, plausibili, sta a vedere quali, ma non c’è stato niente di miracoloso o di magico. Così, se fossi in lei, la madrepora... si chiama così la sua concrezione, mi pare... ebbene la butterei nella spazzatura, senza nessun rimpianto. Eliminerei una testimonianza materiale di avvenimenti dolorosi ma lontani, sempre più lontani, eliminerei una reliquia che serve solo a indurre turbamento e malinconia. E magari, al posto di un ornamento mutilato, metterei un vaso con una pianta fiorita... I pelargoni sono anche bianchi, se il rosso porpora le sembra un colore troppo chiassoso. O pretendo l’impossibile, signora Amelia?». Non dico che mi avesse convinto, questo no, però, sulla via del ritorno a casa, l’aria, non so come dire, mi sembrò più leggera e fermai la mia attenzione su un caffè, che aveva delimitato lo spazio dei tavolini all’aperto con fioriere rosse di pelargoni. Fui tentata di sedermi e di osservare il passaggio lento e svagato della gente, poi decisi per una via di mezzo, secondo la mia indole incapace del poco e del troppo, così comprai un cono gelato e, continuando a camminare, assaporai le delizie del pistacchio, del torroncino e del limone. Non mi concedevo un gelato da alcuni anni, forse da quando Fabrizio era partito per l’isola di Saseno e confesso che s’impossessò del mio corpo una spossatezza sconosciuta o forse dimenticata. Una qualche animalità faceva parte della umana esperienza e, a lungo andare, volerla respingere era impossibile. Appena fui entrata nel mio appartamento, squillò il telefono. Era mia madre, sempre in ansia per me o, meglio, per la mia animalità che pensava fosse mortificata. Ripeté le cose che mi diceva da alcune settimane: «Dopo tutto sei giovane, ed è assurdo che tu non abbia consapevolezza dei tuoi diritti... Tuo marito, se potesse consigliarti, ti direbbe di uscire dal tuo stato di abbandono e di abdicazione... ». Era un discorso irritante. Che cosa avrebbe dovuto suggerirmi Fabrizio? Di fidanzarmi? Di sposarmi un’altra volta? O, più modernamente, di farmi un amante? Alla mia animalità non occorrevano implicazioni così volgari, forse bastavano un gelato al pistacchio e una pianta di pelargoni. Nondimeno... Il mio sguardo cadde sulla madrepora: era una testimonianza crudele, per di più tronca di un braccio, resa grigia e opaca dallo scorrere del tempo. Il Monsignore aveva ragione: meglio far piazza pulita e affidare alla spazzatura ciò che era diventato un simbolo di infelicità, nient’altro. Sollevai la madrepora e, concitata, quasi incollerita, accennai a dirigermi verso la cucina, dov’era il secchio dell’immondizia: ma poi, non so che mi prese, poi mi bloccai, riposi il soprammobile al suo posto, pensai che nel mio passato e nei miei ricordi ero murata, pensai che anche per me tutto era finito in un’alba di maggio, al Forte Bravetta. |