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punto di vista 4/2016

punto di vista La Russia e la fede
di Sergio Romano biografia

Boris El’cin morì dopo uno dei suoi numerosi infarti, il 23 aprile 2007. Gorbačëv rese visita alla salma, Putin presenziò alle esequie, la bara fu accompagnata da un drappello militare in alta uniforme al cimitero di Novodevičij dov’era, da molti anni, la tomba di Nikita Chruščëv. El’cin era stato il primo Presidente della II Repubblica russa e i nuovi dirigenti del Paese capirono che valeva la pena, nell’interesse comune, di dimenticare le molte pecche del defunto e di rendergli onori solenni.
Quando si parlava di religione in sua presenza, El’cin amava definirsi un «ateo ortodosso». La Chiesa moscovita dimenticò la prima metà della sua autodefinizione e non esitò a impadronirsi della seconda. La salma fu esposta nella Chiesa di Cristo Salvatore, costruita con i kopeki donati dal popolo russo per commemorare la vittoria contro Napoleone nel 1812, consacrata nel 1883, distrutta da Stalin con enormi cariche di dinamite nel 1931 e ricostruita dal sindaco di Mosca sulle rive della Moscova nel 2000. I visitatori furono non meno di 20.000 e Juvenalij, metropolita di Kruticy e Kolomna, nella sua orazione funebre riconobbe a El’cin il merito di avere ridato la libertà ai russi e ai credenti.
In realtà molti progressi per la libertà di culto erano già stati fatti negli anni della perestrojka. Nel settembre 1987 era stata annunciata la liberazione, entro la fine dell’anno, di tutti i detenuti per motivi religiosi. Nel 1988 il Patriarcato di Mosca era stato autorizzato a celebrare il millesimo anniversario della cristianizzazione della Rus’ di Kiev nella Lavra della Trinità di San Sergio, uno dei più antichi e venerati monasteri russi, a 70 km da Mosca. Più tardi, nel dicembre 1989, la Chiesa Romana aveva ottenuto, insieme all’apertura di quattro amministrazioni apostoliche, la restituzione agli uniati dei beni assegnati da Stalin agli ortodossi ucraini dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1990, dopo la morte del Patriarca Pimen, il Concilio dei vescovi elesse Aleksii II, vescovo di Leningrado. Fu il primo Patriarca, dopo la rivoluzione, eletto senza alcuna interferenza del partito e delle autorità di governo.
Una delle ultime leggi dell’Unione Sovietica, promulgata il 1° ottobre 1990, recita: «La presente legge garantisce i diritti dei cittadini a decidere ed esprimere il loro atteggiamento verso la religione, il diritto ad avere le convinzioni relative, alla libera professione della religione e alla partecipazione ai riti religiosi». In altre parole, come è detto più chiaramente in un’altra parte della legge, i cittadini hanno «il diritto di professare qualsiasi religione o di non professarne alcuna». Da filosofia del regime l’ateismo era diventato una facoltà tutelata dalla legge.
Ma fu El’cin, nel periodo in cui era Presidente della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, prima della disgregazione dell’Urss, che adottò criteri ancora più liberali offrendo a tutte le confessioni la stessa libertà di culto e di proselitismo. La Chiesa ortodossa riconquistava così la sua libertà ma non quel monopolio della fede che aveva esercitato nel periodo imperiale, e non mancò di esprimere il suo disappunto sino a quando nel 1997, dopo molte pressioni e nonostante le riserve di El’cin, ottenne un’altra legge. La nuova norma riconosceva all’Ortodossia un evidente primato e si limitava a esprimere deferenza verso il Cristianesimo, l’Islam, il Giudaismo, il Buddismo e «le altre religioni che costituiscono parte integrante dell’eredità storica dei popoli della Russia».
La formulazione era piuttosto confusa. Che cosa significava, in quel contesto, «cristianesimo»? Forse che l’Ortodossia, a cui era dedicato l’intero Preambolo, non apparteneva alla famiglia delle confessioni cristiane? Perché non vi era nel testo una precisa menzione del cattolicesimo? È probabile che con quella suddivisione si volesse creare una categoria in cui avrebbero convissuto alla rinfusa tutti i culti cristiani diversi dall’Ortodossia. Incidentalmente, come ricorda Giovanni Codevilla in una opera su Chiesa e Stato nella storia russa, la legge del 1997 fu presentata in Parlamento da Gennadij Zjuganov, leader del partito comunista post-sovietico, una forza politica che è diventata contemporaneamente nazionalista e xenofoba.
Non sarà Putin che priverà la Chiesa Ortodossa del suo primato.
Dopo il suo arrivo al potere, Vladimir Putin ha rafforzato il ruolo della Chiesa Ortodossa nel più inatteso dei modi. Mentre El’cin riconosceva l’importanza dell’istituzione nella vita del Paese, Putin ha recitato con apparente convinzione il ruolo del russo devoto. Come scrive Stefano Caprio in un lungo saggio su La Russia del terzo millennio, Putin «non solo fa atto di presenza alle grandi cerimonie, ma si reca regolarmente in chiesa, anche in chiese periferiche e non di vetrina, bacia la croce, mette le candeline davanti ai santi, si confessa e si comunica con lodevole frequenza». Sembra addirittura che, come molti sovrani, abbia un «padre spirituale personale (Tichon Sevkunov) a cui chiede la benedizione per ogni impresa». A un giornalista americano che gli chiedeva se fosse credente e portasse al collo una piccola croce, rispose che quella croce gli era stata data da sua madre, alla vigilia di un viaggio a Gerusalemme con la preghiera di farla benedire al Santo Sepolcro. Ma cominciò a portarla soltanto quando la ritrovò intatta, dopo un incendio, fra le rovine ancora fumanti della sauna nella sua dacia.
Si dice che abbia con il Patriarca Kirill un rapporto pressoché fraterno e qualcuno maliziosamente ricorda che vi fu un momento, negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, in cui erano entrambi affiliati a una stessa istituzione. Quella istituzione era il Kgb, in cui Putin era tenente colonnello e Kirill, secondo le malelingue, sarebbe stato ‘l’agente Michajlov’. Non era sorprendente. Molti alti prelati avevano fatto una brillante carriera ecclesiastica e numerosi viaggi all’estero grazie al rapporto confidenziale che avevano stretto con i Servizi sovietici. Fu opportunismo naturalmente, ma anche patriottismo, lo stesso sentimento di cui avevano dato prova quando Stalin, dopo l’invasione tedesca, li aveva chiamati a iniettare una buona dose di nazionalismo nelle vene della società sovietica. Patria e fede sono in Russia i due volti di una stessa medaglia. Nelle Tre sorelle di Čechov, un personaggio di origine tedesca, il barone Tusenbach, difende così le sue appassionate riflessioni sulla vita e sul lavoro: «Voi penserete probabilmente: ecco un tedesco che fa il sentimentale. Ma io vi giuro che sono russo e che non so nemmeno una parola di tedesco. Mio padre era ortodosso».
I bolscevichi trattarono la Chiesa Ortodossa con straordinaria durezza perché erano internazionalisti, atei o miscredenti. Ma quando l’imperialismo russo divenne, nell’ideologia del regime, non meno importante del comunismo, la Chiesa fu nuovamente indispensabile. E quando lo Stato russo corse il rischio di affondare nel grande naufragio dell’Urss, coloro che volevano salvarlo e restaurare la sua autorità dovettero ricorrere nuovamente all’Ortodossia.
Gorbačëv ed El’cin, anche se il primo fu battezzato alla nascita, erano cresciuti nel sistema sovietico, ne avevano interiorizzato sin dall’infanzia le credenze e le ricorrenze. Capirono subito che occorreva restituire alla Chiesa lo spazio perduto, ma non potevano spingersi sino a recitare con la necessaria compunzione la parte del devoto. Putin, invece, la recita tanto più facilmente, quanto più la devozione diventa il necessario complemento di un disegno ideologico.
Esistono a questo proposito episodi interessanti. Putin approfitta spesso della religione per rinsaldare legami politici. Nel maggio del 2016, durante un viaggio in Grecia, ha visitato il Monte Athos dove tra i venti monasteri ortodossi vi è quello russo di San Panteleimon: un’occasione per celebrare insieme al governo greco il millesimo anniversario della presenza russa nei Balcani. Più recentemente, nel luglio del 2016, ha approfittato di un viaggio molto politico in Slovenia per rendere omaggio alla cappella ortodossa recentemente costruita in memoria di un centinaio di prigionieri russi della Grande Guerra, travolti da una valanga mentre costruivano una strada sul passo del Vršič, noto in Italia come Passo della Mastrocchia.

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