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Storie di chi si è dato coraggio

Pietro Ferraro Pietro Ferraro

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Tra i primi organizzatori della resistenza armata contro il tedesco invasore, attraversava le linee di combattimento per collegarsi col Comando alleato in Italia. Successivamente, aviolanciato in territorio occupato per una importante missione, si poneva animosamente al lavoro, affrontando continui rischi, trasfondendo nei collaboratori il più elevato spirito di sacrificio e mettendo in funzione una complessa organizzazione che abbracciava l’intera regione veneta. Accanitamente ricercato dal nemico, persisteva fino alla liberazione nella sua opera attiva, decisa e coraggiosa, infliggendo duri colpi al nemico nelle sue retrovie e disorganizzandone a più riprese l’efficienza. Nella fase finale, in collaborazione con formazioni di patrioti, otteneva dal comando tedesco di Venezia che la città e il porto venissero lasciati intatti. Concludeva così attraverso rischi di ogni sorta, l’importante missione affidatagli, portando un grande contributo alla liberazione del Veneto.

Veneto, luglio 1944 - maggio 1945




Pietro Ferraro

Nasce a Venezia nel 1908, figlio di un ufficiale superiore dell’Esercito mutilato e decorato al Valor Militare nella Prima guerra mondiale. Conseguita la laurea in giurisprudenza, nel novembre 1935 viene annesso a un corso accelerato per ufficiali di complemento presso la Scuola di Fano e nell’aprile 1936 ottiene la nomina a Sottotenente di Fanteria. Assegnato inizialmente all’8° Centro Automobilistico di Roma, nel dicembre 1939 è trasferito nel Corpo Automobilistico militare. In congedo provvisorio alla dichiarazione della Seconda guerra mondiale, viene esonerato dal richiamo alle armi perché delegato della Società Italiana per il Magnesio e Leghe di Magnesio, con sede a Bolzano, e amministratore di altre società. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, abbandona gli importanti incarichi e, passate le linee, si pone a disposizione delle autorità militari alleate. Per compiti informativi e di collegamento, è aviolanciato nel Veneto ove organizza la formazione partigiana Hollis Margot che opera in quella regione fino alla resa finale dei tedeschi nella primavera del 1945.
È stato presidente e amministratore di diverse società industriali, tra cui il Cotonificio di S. Giusto, le Cartiere del Timavo, le Cartiere Arbatax in Sardegna e altre.


Margot Hollis: il mistero di un nome di Giampaolo Rugarli
Nella umana vicenda di Pietro Ferraro (avvocato, industriale cartario, promotore dello sviluppo arboreo, poligrafo, sportivo, corridore automobilista ecc.), più di tutto mi ha incuriosito il nome dell’organizzazione che da lui fu diretta nel buio, doloroso periodo seguito all’8 settembre 1943. Pietro Ferraro, alias Antonio, meritò la Medaglia d’Oro perché, dopo aver attraversato le linee di combattimento per sintonizzarsi con il Comando alleato, si fece paracadutare nel territorio occupato e fu tra i principali artefici della Resistenza in terra veneta. Tra i tanti suoi meriti basti rammentare che, quando il conflitto giunse agli sgoccioli, riuscì a evitare che i tedeschi distruggessero Venezia. Tutto questo è nelle cronache del tempo e, oggi, nei libri di storia: perciò è inutile riproporre notizie che possono essere trovate altrove con ricchezza di particolari e di riferimenti.
Quello che a me non è riuscito di trovare è il perché del nome dell’organizzazione che fu comandata da Ferraro e che, alle azioni di guerriglia, sommò l’opera di collegamento, tra l’esercito alleato e le brigate partigiane, e di informazione circa la consistenza, i movimenti, i piani delle forze germaniche. Margot Hollis è il nome sul quale si addensa il mistero – anche se si tratta di un mistero che uno storico di mestiere non tarderebbe a svelare e che a me, uomo di lettere, non dispiace, perché avvolge d’ombra tante cose. E le parole, come si sa, alludono, senza mai riuscire a dire compiutamente. Anche Ferraro – scomparso nel 1974 – oggi appartiene all’ombra. Lui stesso ricorda, nel suo scritto più noto, una testimonianza pubblicata appena finita la guerra (1), che le formazioni partigiane si chiamavano Osoppo, Pisacane, Garibaldi-Friuli, Garibaldi-Natisone, Matteotti e così via – denominazioni tutte d’ispirazione patriottica o risorgimentale – ma non menziona neppure fugacemente l’organizzazione Margot Hollis e forse non offre una traccia neppure altrove (però io non ho potuto consultare altre memorie della Medaglia d’Oro). Dunque Margot Hollis, perché? Ne parla l’ottuagenaria Rina Nono, sorella del celebre musicista, in un’intervista raccolta da Maria Teresa Sega e recentemente pubblicata in un volume collettaneo (2). Ma i ricordi di Rina Nono si arrestano a una catenina alla quale è appesa una medaglietta su una cui faccia è disegnato un cane e sull’altra c’è la scritta MARGOT HOLLIS. Ad avviso dell’intervistatrice, che a mia volta ho intervistato, si tratta di un souvenir coniato a guerra finita, probabilmente in più esemplari. Si può congetturare (suggerisce Maria Teresa Sega) che la genesi del nome sia americana e, infatti, spettava all’organizzazione di tenere i collegamenti con il comando angloamericano. Al di là dell’enigma di un nome, sul quale la fantasia si può sbizzarrire, scrive Ferraro: «Nel settembre 1943, dal Monte Pasubio sino alla frontiera jugoslava, le Alpi e le Prealpi erano popolate di uomini armati che volevano organizzarsi e combattere i tedeschi. Soldati, ufficiali, popolani, montanari... ». Con i tedeschi erano schierati i fascisti e all’incirca ventimila cosacchi che, in odio a Stalin e al regime comunista, si erano uniti all’esercito di Hitler. I cosacchi erano presenti soprattutto nella Carnia, spesso seguiti dalle mogli, dalle fidanzate, dai bimbi, dai parenti; un piccolo contingente si stabilì a Conegliano, dove Villa Gera fu trasformata in un convalescenziario. Alla fine della guerra, l’armata dei dissidenti si ritirò in Austria e si arrese agli inglesi dopo aver ottenuto la promessa che non sarebbe stata consegnata ai russi. Gli inglesi non tennero fede all’impegno e fu strage, perché i cosacchi erano considerati dai sovietici niente più che traditori. Molti, per sottrarsi alla cattura, si gettarono nelle acque del fiume Drava, attuando un vero e proprio suicidio collettivo. Il loro capo, il generale Piotr Krassnoff, fu processato e impiccato dai russi (3). Pietro Ferraro fu del tutto estraneo a questi ultimi, tragici avvenimenti, però della presenza cosacca conobbe l’aspetto più odioso, ossia la collaborazione prestata ai nazifascisti nel reprimere la guerriglia partigiana. Come spesso succede, frugando tra vecchie carte, per caso mi è capitata tra le mani la singolare, opinabile testimonianza di uno di Conegliano che era stato partigiano con Ferraro e che, di quei tempi terribili, supponeva di sapere molte cose...

* * *


Aveva ventidue anni e si chiamava Margherita Schiavon. Sulle montagne, superato il valico di San Boldo, erano asserragliati i nostri, e a valle imperversavano i nazifascisti. I peggiori di tutti erano i cosacchi che davano manforte ai tedeschi nella vana speranza di riconquistare una patria. Gli usurpatori – tedeschi, brigate nere e cosacchi – sapevano di aver perduto la partita e la certezza della loro imminente rovina li induceva a portare rovina nelle vite altrui. Si può pensare che facessero vendetta a futura memoria? O, più banalmente, che godessero nel far soffrire? Ai pali della luce della strada tra Conegliano e il lago di Santa Maria toccava anche di sostituire le forche: e, a quando a quando, pendevano da quei pali i corpi straziati di patrioti. Impiccati, dopo le torture.
Margherita, con me e pochi altri, lavorava alla distilleria, ma di grappa ne facevamo poca perché i fascisti facevano piazza pulita di tutto (qualche bottiglia però veniva nascosta e sfuggiva alla razzia). Una volta alla settimana appariva il comandante Antonio: impossibile prevedere a che giorno e a che ora, arrivava sempre di sorpresa, viveva alla macchia e doveva stare attento a non lasciarsi catturare. Viveva nascosto ed era nascosto anche il suo nome. Antonio era un nome d’arte, se così può dirsi. Dimostrava una quarantina d’anni, più o meno, forse non ci arrivava ma, durante l’inverno tra il 1944 e il 1945, sembravano tutti più vecchi, avevano tutti un pizzico di morte nello sguardo. Il comandante dirigeva il traffico della radio, comunicava con il comando angloamericano, mandava e riceveva messaggi, in codice, ben s’intende: chiedeva armi, viveri, medicine. Dove fossero nascoste le sue apparecchiature lo sapeva solo lui.
Margherita era una staffetta. Pedalava sino al lago di Santa Maria, dove incontrava un avamposto dei partigiani: era un avamposto mobile, poteva stare più avanti o più indietro, secondo la sorveglianza più o meno stretta dei brigatisti. Margherita portava le istruzioni di Antonio e, in una gerla, le cibarie: in un paio d’occasioni aveva nascosto sotto i viveri le bombe a mano e un mitra, ma all’insaputa del comandante. Che si era infuriato, appena aveva appreso la cosa.
«Non farlo mai più – disse, con voce che non ammetteva repliche – mai più. Un conto è se ti trovano nella gerla roba da mangiare, altro conto se ti trovano le armi. Ti ammazzerebbero, ma prima ti torturerebbero per sapere chi sono i tuoi complici».
«In montagna c’è il mio ragazzo» protestò Margherita.
«Il tuo moroso?» sorrise Antonio, e la guardò dimenticandosi per un attimo della guerra e delle diavolerie che erano saltate fuori dalla guerra. Era bellina. Forse il naso era troppo pronunciato, ma intonava con la zazzeretta scura. Era magra, snella... di quei tempi erano tutti magri e snelli. Forse, il punto della vita non era proprio sottilissimo... Sto cercando il pelo nell’uovo, si disse Antonio, è una bella figliola, punto e basta. Tornò a incupirsi. Senza aspettare risposta, scandì: «Il tuo fidanzato e anche la Patria non hanno bisogno di eroine romantiche. E poi tu non resisteresti alla tortura... è stupido andare a tirare la coda al diavolo».
«E tu che ne sai che non resisterei alla tortura?» si difese Margherita con orgoglio.
«Se una causa è degna, anch’io sono capace di soffrire».
«Però non soffrire è meglio» tagliò corto Antonio. Sempre più scuro in viso, soggiunse: «Oggi è una giornataccia, Margherita. È una giornata nera. La radio ha trasmesso un proclama del generale Alexander: ci ordina di piantarla e di tornarcene a casa. Come se fosse possibile!»
«E allora?» domandò Margherita.
«E allora continueremo la lotta – brontolò il comandante – anche se sarà più difficile, e anche se ci mancheranno i rifornimenti. Ecco perché non devi esporti a pericoli inutili. Mi hai capito?». Margherita fece cenno di sì, con la testa. Nella gerla che le fu affidata due giorni dopo c’erano alcune pagnotte, alcuni pezzi di formaggio, una trentina di scatolette, due bottiglie di grappa, nient’altro. Se mi beccano, pensò, dirò che volevo fare un po’ di borsa nera, non mi uccideranno per così poco. C’era nebbia, e la campagna, denudata dall’autunno incombente, si nascondeva nella bruma: non vedere a un palmo dal naso era un vantaggio e uno svantaggio, la caligine nascondeva Margherita, ma pure le eventuali pattuglie dei brigatisti in agguato al margine della strada. Per fortuna non passava un cane, sembrava di attraversare un mare lattiginoso di solitudine.
Il percorso sino al lago di Santa Maria non era lunghissimo. Spesso il suo innamorato mollava l’avamposto e correva a incontrarla. Era pericoloso, ma si volevano bene e poi avevano di che parlare. Qualcuno uscì dall’ombra e, con le braccia, fece segnali. Non era lui, ma era della banda, Margherita lo conosceva bene. Gli affidò la gerla, non nascose la sua delusione. «Come mai non è venuto?» domandò. «Impegnato in una missione – fu la risposta – una missione difficile... pericolosa... ». «Non se ne poteva fare a meno?» polemizzò Margherita. «Di tutto si può fare a meno – sorrise il partigiano, e si accarezzò la barba –ma allora converrebbe dar retta ad Alexander. Purtroppo, se me ne tornassi a casa, mi verrebbero a prendere e mi spedirebbero in Germania. Vedi bene che è meno rischioso far saltare in aria le rotaie del treno». «Non dire sciocchezze» disse Margherita un po’ consolata. Soggiunse: «Tu, Danilo, sei sposato? Hai figli?». «Sposatissimo – confermò Danilo – e ho un bambino, un bel bambino che ha appena compiuto tre anni». «Ma un bambino a che serve?» lei chiese, imprevedibilmente. «Un bel quesito!» sbottò Danilo. «Un bambino non serve a niente, però ti fa capire che un filo non si spezza, ma continua sempre... Un bambino è l’eternità».
Margherita non riuscì a rivedere il suo ragazzo per tutto dicembre, e anche dopo. Nemmeno fargli gli auguri di Natale e del nuovo anno, se nella tragedia c’erano auguri da scambiare. Niente. Si preoccupò. Decise di sollecitare una spiegazione e, alla fine di gennaio, quasi aggredì il comandante (non lo si vedeva da un paio di settimane). «Non è accaduto nulla – la rassicurò Antonio – nulla di particolare. Certo, la situazione non è entusiasmante. Abbiamo avuto alcune perdite, forse parecchie perdite, ma, per quanto ne so io, il tuo fidanzato sta benone... sano e vispo come un grillo». Posò lo sguardo su Margherita, indugiò sui fianchi e contemplò assorto tutta la figura un po’ più eretta del consueto. Abbassò la voce: «Piuttosto... tu sei sicura di stare bene?» «Sto benissimo» lei rispose a precipizio. «Mi era sembrato... – continuò Antonio bisbigliando – beh, quello che mi era sembrato non è importante. Ti occupi sempre tu di portare i viveri in montagna?» non aspettò la conferma. Spiegò: «Sarebbe meglio che, per qualche tempo, tu lasciassi perdere... Diventa sempre più pericoloso, e poi dà meno nell’occhio se vi alternate, a portare la gerla». «Non c’è nessuna che mi possa dare il cambio – obiettò Margherita – e io spero di incontrare il mio ragazzo. È una grande gioia vederlo, anche per pochi minuti». «Capisco – sospirò Antonio – ma qui c’è il rischio che non vi vediate più».
Margherita fu premiata. Due giorni dopo andò a incontrarla il fidanzato, e lei avrebbe voluto dargli una notizia, ma preferì tacere, poteva aspettare ancora prima di confidarsi e, del resto, a uno che sta nascosto in montagna, e che molla il rifugio soltanto per azioni di guerriglia, bombe, sparatorie, agguati, non è il caso di dare altri pensieri. Ebbe fortuna, la nebbia era fittissima, e così il colloquio fu più lungo del solito. Si baciarono, molte volte, e forse... ma era inverno, c’era freddo, soprattutto i nazifascisti o i cosacchi potevano presentarsi da un momento all’altro, e bisognava essere pronti a tagliare la corda. «Ci sposeremo?» domandò Margherita. Non aveva dubbio che si siano sposati, però era felice se lui ripeteva la promessa, e s’immaginava la cerimonia, l’abito bianco, la gente, i confetti, la marcia nuziale. Fu costretta a scappare via, prima che lui sussurrasse l’immancabile: «Certo che ci sposeremo». Il rumore ringhiante di un motore in arrampicata sull’erta suonava oramai vicino, stava arrivando un camion ed era meglio nascondersi.
Una settimana dopo riapparve il comandante. Scrutò Margherita con meticolosa attenzione, la indagò, come se avesse voluto carpirle un segreto. «Nella nostra organizzazione chi ordina?» chiese con lieve accento di sfida. «Tu o io?».
«Naturalmente tu» disse Margherita, meravigliata della domanda. «Benissimo» dichiarò Antonio compiaciuto. «Allora ti ordino di piantarla con le spedizioni al lago. A portare i viveri ci penserà qualcun altro, una gabola ce la inventeremo, ma tu hai chiuso, e se vuoi che te la dica tutta, sarebbe meglio che tu rimanessi a casa tua. Se proprio ti viene il desiderio di uscire, a Conegliano ce n’è di cose da ammirare... i resti del Castello e delle mura... palazzo Montalban... Villa Gera, dove i cosacchi si ritemprano... Che ci fai, qui, in distilleria? Tanto, non c’è niente da distillare.» Non era vero. D’accordo, non erano tempi di attività frenetica, ma un po’ di lavoro saltava fuori.
Benché avvilita, per un paio di settimane Margherita obbedì. Al suo posto andava Stefania, la figlia del padrone della distilleria. Però Stefania moriva dalla paura e, se i brigatisti l’avessero fermata, ci sarebbe stata una tragedia: non era disinvolta, era un topolino in preda al panico. La beccarono. Bene, nel momento della verità, tirò fuori il carattere, e non le scappò di bocca una parola. La pestarono, la raparono, la tormentarono, ma lei tenne duro, e in conclusione la rispedirono a casa: è incredibile, ma a salvarla furono i cosacchi, sopraggiunti nel mezzo della tortura, s’imbestiarono di brutto, non ammettevano che una donna fosse seviziata.
A quel punto, chi avrebbe portato la gerla sino al lago di Santa Maria? I ragazzi in montagna non si poteva lasciarli morire di fame, e i rifornimenti andavano assicurati: così, in attesa di trovare un’altra staffetta, tornò a farsi avanti Margherita. Era pratica, duo o tre viaggi avrebbe potuto effettuarli, e il comandante si sarebbe reso conto dell’emergenza (d’altronde nessuno aveva capito il perché del suo divieto, la ragazza stava benone, un po’ arrotondata a dispetto delle restrizioni alimentari, non c’era ragione di tenerla sotto una campana di vetro).
Ma quando Antonio riapparve, e seppe che Margherita stava pedalando verso la montagna, bestemmiò. Era stravolto, e a tutti la sua ira sembrò eccessiva. Che avesse un debole per la fanciulla, e volesse tenerla al riparo dai pericoli? Non era il tipo: era un uomo giusto, e per niente al mondo avrebbe fatto parzialità a vantaggio di qualcuno. Nemmeno di sua madre. E non era il tipo che prendeva cotte, anzi, quando per la prima volta aveva riunito il gruppo e aveva impartito istruzioni, aveva molto insistito sul fatto che non c’erano né uomini né donne ma patrioti, e che i sentimenti dovevano restare fuori della porta. Fumò sette sigarette, una dietro l’altra, e, appena le ebbe finite (le sigarette erano merce rarissima), si attaccò ai mozziconi, scottandosi le dita. Era furibondo. Non se ne sarebbe andato, finché Margherita non fosse ritornata.
Ritornò. Tutto normale in apparenza, nessun cattivo incontro. La ragazza tuttavia era pallidissima e, benché da alcune settimane il suo pallore si fosse accentuato, questa volta c’era un di più: forse la traccia, rimasta nei suoi occhi, di un’emozione tremenda, di un orrore inatteso. Erano tempi crudeli quelli che stavamo vivendo, ed era tutto possibile. Il comandante comprese e, brusco come lui sapeva essere, intimò: «Sputa il rospo». «Non c’è nessun rospo» farfugliò Margherita. «Bambina – disse Antonio con insperata dolcezza (era fatto così, toccava sempre le corde giuste) – già ne abbiamo parlato, mi pare. Non c’è bisogno di eroine romantiche. Se tu hai visto o saputo qualche cosa, di qualunque cosa si tratti, hai l’obbligo di riferire». Margherita esitò, cavò fuori di tasca il fazzoletto appallottolato, lo strinse tra le mani. «Ordinaria amministrazione» disse di un fiato. «Mentre andavo, ne ho incontrati tre, impiccati ai pali della luce... Uno dopo l’altro, a breve distanza. Non è un bello spettacolo. Comunque la mia missione l’ho portata a termine».
Cadde un silenzio angoscioso. Finalmente Antonio trovò il coraggio di parlare: «Li conoscevi quei tre?» «Uno – rispose Margherita – uno molto bene, era un buon amico». «Non è... ?» azzardò il comandante. «No, non è lui. Il mio fidanzato è salvo, benché io mi sia vergognata di me stessa: così ho capito che la ferocia dei brigatisti serve anche a questo, a far arrossire chi, di fronte alla morte, si compiace, persino esulta, perché si accorge che le persone care non sono state colpite. Quello che io conoscevo era Danilo, degli altri due non so. E, di fronte a quell’orribile spettacolo, di primo acchito mi sono sentita assolutamente e perfettamente felice, il mio ragazzo non era stato estratto nella lotteria della morte. E, subito dopo, il disgusto di me stessa, della vita, del mondo». «Sei sicura che abbiano fatto fuori Danilo?» domandò Antonio. Il tono della voce era vitreo, non tradiva emozione. Anche il verbo «far fuori», in luogo di ‘ammazzare’ o di ‘uccidere’, era abbastanza asettico, come quando in una partita di calcio la palla esce dal campo.
«Sicurissima» confermò Margherita. «A volte i fascisti lasciano uno dei loro a far la guardia, invece non c’era nessuno. Ai piedi di ogni forca i soliti cartelli con le solite scritte: cane, traditore, bandito, vigliacco e così via. Mi sono avvicinata. Mi sono data coraggio e mi sono avvicinata. Penso che Danilo lo avessero picchiato, tormentato... aveva un labbro spaccato e una grossa macchia di sangue sotto un occhio. Per appenderlo, avevano usato una corda troppo lunga, così con la punta dei piedi sfiorava il suolo. Era scalzo, e quei poveri piedi nudi, non so perché, richiamavano alla mia fantasia ciò che è essenziale. Il pane, la casa, l’amore. E, a un tratto, un non so che si è lacerato dentro di me, ho creduto che un pezzetto di morte fosse venuto ad abitare nel mio corpo». «Che cosa vuoi dire?» la incalzò il comandante. «Stai male?» Margherita con il capo fece segno di no, però era molto pallida. «No, no, non preoccuparti di me – disse dopo un lungo respiro – è stato un malessere... forse un dolore, quasi una coltellata... neppure io so trovare le parole giuste... Questione di attimi. Poi è passato tutto, e adesso sto benissimo... sto bene. Deve essere stato lo spavento, l’impressione: è mostruoso trovarsi di fronte a qualcuno che ti è stato caro, e vederlo appeso a un cappio... Come un Cristo in croce, anche se il paragone è improprio».
Il comandante volle parlare con Margherita a quattr’occhi ma, nella distilleria, era difficile scovare un angolo appartato. Lo ammetto: spiai, origliai, il comandante se ne sarebbe andato e chi sa quando sarebbe riapparso e, nel mentre, toccava a me di governare la situazione, a Conegliano. «Sei sicura di non star male?» Antonio ripeté a Margherita. Cercava di tenere la voce bassa, ma era di mestiere avvocato e il suo pianissimo era solo un modo di dire. «Nelle tue condizioni... » sospirò, senza aspettare che lei rispondesse. «Che ne sai delle mie condizioni?» s’impermalì Margherita. «Gli occhi io li uso per osservare oltre che per vedere» lui sorrise. «Tempo fa il tuo stato si definiva ‘interessante’, mentre io, che ho una certa abitudine alla concretezza, ho capito che tu sei incinta». «Non è vero» protestò debolmente Margherita. «Andiamo!» Antonio continuò a sorridere. «Guarda che non sarò io a scandalizzarmi. Fare i bambini è un atto di amore, e io so benissimo chi è il papà. Che non siate sposati è una questione secondaria: vi sposerete se vorrete e quando potrete. Di questi tempi, solo un imbecille farebbe il moralista. Il problema è un altro: con una creatura in grembo, tu non puoi andare in montagna a portare i viveri». «Ci vado in bicicletta!» obiettò Margherita. «Perché?» ironizzò Antonio. «Vorresti andarci a piedi? Devi piantarla, Margherita, e speriamo che non ti sia già capitato un brutto incidente. Non mi ha convinto il tuo discorso sul pezzetto di morte venuto ad abitare dentro di te. Dovresti consultare un medico, al più presto». Sorrise: «E poi dovresti vedere se i cosacchi ti prendono a Villa Gera, per stare tranquilla».
Non consultò un medico e non chiese aiuto ai cosacchi. Sempre più pallida e affranta, con la gerla legata sulle spalle, pigiando sui pedali, non smise di fare la spola tra Conegliano e il lago di Santa Maria. Mi ero provato a dissuaderla, ma senza risultato, così ero imbarazzato due volte: per lei che si strapazzava, e per il comandante che mi avrebbe alzato da terra, se avesse saputo. Finché, una sera, apparve più morta che viva, e io decisi di fermarla perché mi resi conto che si stava suicidando. «Adesso basta, Margherita» dissi con il cipiglio. «Tra noi due è inutile che ce la raccontiamo: lo so che tu sei incinta, ed è inutile fare eroismi. Siamo agli sgoccioli, ed entro pochi giorni vi sarà il crollo del nazifascismo». «Sono persuasa anch’io che la fine sia imminente – lei rispose scialba, un po’ assente – ma, per quanto mi riguarda, sei in errore. Io ero incinta, ma ora non più».
Mi confidò di aver perduto la sua creatura alla vista di Danilo, impiccato a un palo della luce e, dopo il trauma iniziale, di aver sofferto sempre di meno, sino a non accorgersi più dell’impedimento nel suo grembo. Mi assicurò che non correva alcun pericolo, sapeva che, sia pur raramente, un processo di mummificazione sbarrava il posto alla cancrena: era convinta che nel suo caso era andata così e, pur consapevole che sarebbe stato inevitabile affrontare i ferri del chirurgo, cercava di rendersi utile finché poteva. E poi le dispiaceva spossessarsi del frutto del suo amore, sapendo che il suo ragazzo era lontano, affamato, al freddo, nei pericoli. Le feci giurare che il giorno dopo si sarebbe fatta ricoverare in ospedale: giudicavo un miracolo che fosse ancora viva, e non credevo alla storia della mummificazione. Ma non tenne fede al giuramento: si presentò in distilleria all’alba, prima che io arrivassi, si cacciò la gerla sulle spalle e, spingendo sui pedali, scappò via. La sera aspettai con ansia crescente il suo ritorno, ma non ritornò, e io non la rividi mai più.
L’epilogo dell’avventura me lo raccontò il Comandante. Margherita si era sentita male lungo la strada, un’emorragia imponente, inarrestabile, e da chi era stata soccorsa? Si era imbattuta in due cosacchi, di quelli che erano di stanza a Conegliano: facevano una specie di ronda, a cavallo, e, perduta ogni speranza di riconquistare la patria perduta, tentavano almeno di conquistarsi la patria celeste. Avevano caricato sui cavalli Margherita svenuta, la gerla con le cibarie, la bicicletta, e avevano deposto il tutto sulla soglia del più vicino ospedale: appena accertato che sarebbero giunti i soccorsi, se ne erano andati. Senza domandare e senza spiegare nulla.
Margherita – dopo aver riacquistato coscienza e prima di andare sotto i ferri – chiese del Comandante. So pochissimo di quello che i due si dissero, Antonio mi confessò che, con gli occhi velati dalle lacrime, le aveva ripetuto: «Sei un’eroina: ti sei sacrificata per la causa», ma lei lo aveva corretto: «Non sono un’eroina, e quello che ho fatto l’ho fatto per amore». Era morta senza dare al chirurgo il tempo di operare, come se la creatura, custodita gelosamente sino ad allora, avesse voluto portarsela nella tomba.
Una settimana dopo i patrioti occuparono Conegliano e iniziò il dissolvimento dell’esercito invasore. I tedeschi si ritirarono, ordinatamente per quanto possibile; i fascisti scapparono, si nascosero, si finsero partigiani. Vi furono esecuzioni sommarie, purtroppo vi furono vendette. I cosacchi di Villa Gera furono catturati tutti: ma erano rimasti in quattro gatti, gli altri già stavano per raggiungere la valle della Drava. I superstiti venne l’ordine di fucilarli, non so chi lo avesse impartito, era una sciocchezza. Il Comandante ne fu informato e s’imbestiò come soltanto lui era capace. «Porcomondo, lasciateli andare!» tuonò. «Lasciateli andare!». Per avere la certezza di essere obbedito, si mise per la strada e non si mosse finché non ebbe visto sfilare una decina di infelici, a cavallo di cavalli oramai bolsi, avvolti in gualdrappe più lacere che vermiglie, i colbacchi di sghimbescio e tuttavia irrigiditi verso di lui nel saluto militare. Il Comandante salutò anche lui.

* * *


Non so se la testimonianza che ho trascritto sia attendibile. Non ho trovato riscontri. A Conegliano nessuno ricorda una Margherita Schiavon, mancata alla vigilia della liberazione per aver affrontato con troppo ritardo un intervento chirurgico, e non vi è notizia di una distilleria, adibita a centro operativo della Resistenza. Invece è sicura la ferocia della repressione nazifascista, e sono dolorosamente autentici gli impiccati ai pali della luce. Non so sino a che punto i cosacchi infierirono contro i partigiani e contro la popolazione civile: forse furono tratti in inganno sulle sorti del conflitto, date ancora per incerte, quando già erano irrimediabilmente compromesse.
È possibile che la vicenda di Margherita Schiavon, se non inventata di sana pianta, sia stata dilatata e abbellita dal cronista, per rendere un giusto omaggio a Pietro Ferraro che fu uomo coraggioso, cavalleresco, leale, e che ebbe la sventura di dover operare quando parve che persino la pietà fosse morta. Il cronista, pur attribuendo al Comandante modi spicci e a tratti bruschi, ne ha sottolineato la bontà e la gentilezza d’animo, purtroppo senza offrire lumi sull’enigma del nome Margot Hollis. Anche Chiara Saonara, studiosa di storia e autrice di un volume dedicato all’organizzazione diretta da Ferraro (4), mi ha rinviato alle fonti americane, precisando che gli americani, di norma, utilizzavano nomi di frutta per le loro nomenclature: Chiara Saonara, tra il serio e il faceto, ha suggerito che forse qualcuno voleva rammentare una sua storia sentimentale. La voce della storica, suadente e melodiosa, ha reso plausibile la congettura.
Dobbiamo supporre che un ufficiale americano, posseduto dalla nostalgia, abbia voluto pagare un tributo alla innamorata lontana? Com’è noto, La regina Margot è un romanzo di Dumas padre: Margot è Margherita di Valois che chiede al boia la testa mozzata dell’amante. È molto dubbio che – nella lontana America – il racconto di Dumas abbia trovato eco (le due riduzioni cinematografiche sono posteriori alla guerra e sono di produzione francese), perciò è totalmente arbitrario cercare nella Margot Hollis, una risonanza dumasiana. È più verosimile che a Dumas si sia ispirato l’anonimo autore della testimonianza su Margherita Schiavon: la ragazza di Conegliano non vuole il capo del fidanzato, per sua fortuna ancora vivo, ma si ostina a conservare la creatura concepita insieme a lui, e paga con la morte la sua caparbietà.
In verità tutte queste sono illazioni. Per svelare l’enigma di un nome, ammesso che sia possibile una conclusione, sarebbe necessaria una lunga indagine: che potrebbe portare molto lontano. Non ne vale la pena. È molto meglio accogliere la supposizione di Chiara Saonara e, senza approfondire, ammettere che la denominazione Margot Hollis, proveniente da un’epoca ferrigna – quando i partigiani venivano impiccati ai pali della luce e i cosacchi s’inabissavano con i loro cavalli nelle acque tumultuose della Drava – porta un profumo dolce e inatteso. Porta profumo di donna, come diceva il titolo di un vecchio film.

(1) P. FERRARO, La disperata lotta nelle Prealpi venete, in «Mercurio (Anche l’Italia ha vinto)», (diretta da Alba de Cespedes), II-16 (1945). (2) G. ALBANESE ET M. BORGHI (a cura di), Nella Resistenza, Edizioni Nuova dimensione, Venezia 2004 (collana dell’Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea). (3) P.A. CAMIER, L’Armata Cosacca in Italia, 1944-1945, Mursia, Milano 1993 (prima ed. 1965); C. MAGRIS, Illazioni su una sciabola, in «Rivista Milanese di Economia», n. 9, Cariplo-Laterza, Bari 1984. (4) C. SAONARA, Le missioni militari alleate. La resistenza nel Veneto. La rete di Pietro Ferraro, Marsilio, Venezia 1990.
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