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personaggi 3/2016
Storie di chi si è dato coraggio

Guido Rampini Guido Rampini

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Tenente colonnello in servizio di Stato Maggiore, capo del Servizio informazioni d’armata, nell’imminenza dell’arrivo di soverchianti forze corazzate tedesche si offre di organizzare una rete occulta in collegamento con gli Alleati. Autorizzato e fornito di mezzi, si butta febbrilmente al lavoro ideato, organizzandolo fra rischi, sofferenze, pericoli e disagi, sempre con animo lieto, viva intelligenza, indomabile volontà, guidato dall’entusiasmo di offrirsi, dalla fede nel sano patriottismo, sua religione, sino all’offerta di sé; tutto fa del sacrificio un dovere, del pericolo una gioia pur di riuscire, e riesce. Tradito, assume con generosità leggendaria la responsabilità di tutte le imputazioni dei compagni. E li salva, offrendosi solo purissimo martire al piombo nemico che affronta con freddezza che intimidisce i carnefici. Simbolo puro del dovere, fulgido eroe dell’idea, martire generoso delle barbarie. L’anima è in cielo, la memoria nel cuore degli Italiani degni del nome della Patria.

Bergamo, 8 marzo 1945




Guido Rampini

Nato a Pinerolo (Torino) nel maggio 1898, la vicenda di Guido Rampini, militare di carriera, è riassunta nel seguente racconto che si attiene scrupolosamente alla verità storica, e concede molto poco all’immaginazione. Certo, le parole che vennero dette, nel processo intentatogli dalla Repubblica Sociale Italiana, non furono quelle che si leggono qui di seguito: però è un dato acquisito che la Medaglia d’Oro contestò ai suoi giudici il diritto di giudicarlo. Fu processato con altri suoi compagni nella guerriglia partigiana e nel giudizio non fu solo, a differenza di quanto appare dalla ricostruzione proposta. La circostanza ha scarso peso: Rampini prese su di sé ogni responsabilità e scagionò completamente i coimputati. Nel racconto, la breve arringa del pubblico ministero può apparire inverosimile, per la truce violenza delle invettive e per l’inesistenza delle argomentazioni: in larga misura ripete quanto fu detto dall’accusa contro un libraio imputato di tradimento in altre circostanze (cfr. Il Regime Fascista, 17 febbraio 1944). Ripete alla lettera, senza manipolazioni. Del pari la norma citata è nella Gazzetta Ufficiale dell’epoca (e, per eventuali riscontri, ne sono indicati numero e data). Si potrebbe eccepire che si è trasferita, nel processo a carico di Rampini, un’intemerata appartenente ad altro contesto: è vero, ma può cambiare questa o quell’imprecazione, non il clima di odio e di furore.
È autentico il biglietto scritto da Rampini alla mamma, come è autentica la battuta sull’indigestione di piombo. Ed è parimenti certo che Rampini riordinò il plotone che avrebbe dovuto fucilarlo, una squadretta raffazzonata, composta da ragazzi atterriti dalla terribile esperienza alla quale erano stati chiamati. Rampini, da uomo integerrimo e ufficiale sereno e fiero, raddrizzò la situazione. Se doveva essere indigestione di piombo, che a somministrarla fosse non un branco di disperati ma una pattuglia in divisa, ben schierata, impassibile. Come ogni plotone d’esecuzione degno di rispetto.


Indigestione di piombo di Giampaolo Rugarli
L’aula di giustizia era angusta, non più grande di un’aula scolastica. Il pubblico non era ammesso. Vi erano i tre componenti del Tribunale, il presidente e i due giudici a latere, il rappresentante dell’accusa e il difensore. Tutti nelle uniformi adottate dalla Repubblica sociale italiana, il gladio al posto delle stellette e molti gradi lucenti cuciti alle maniche. Sovrastavano la scena, appesi sulla testa del collegio, il fascio littorio e il crocefisso, simboli forse un po’ eterogenei. Naturalmente c’era anche lui, l’imputato, il tenente colonnello Guido Rampini fu Luigi, nato a Pinerolo il 16 maggio 1898.
Di tutto quello che fu detto, il cancelliere − un umile tenente in una divisa stropicciata − stilò processo verbale, senza nulla omettere e senza nulla aggiungere: si fece uno scrupolo di registrare parola per parola le accuse e le discolpe, allegando, al termine del giudizio, la sentenza, firmata dai giudici che l’avevano emessa, una lettera di Rampini e l’attestato di esecuzione della sentenza stessa. Era il mese di marzo dell’anno 1945 e tutto accadeva a Bergamo. Era facile presagire la fine imminente della guerra, con le truppe alleate che incalzavano ed erano ormai giunte alle soglie della Val Padana. Tutto quello che seguì è noto e, nello sconvolgimento generale, i documenti d’archivio molte volte furono distrutti, sottratti, manomessi. Per un caso, non so se fortuito o miracoloso, ritrovai su una bancarella di vecchi libri e di vecchie carte il verbale, con gli allegati, del processo che fu celebrato contro il tenente colonnello Rampini, e ora, dopo che sono passati molti anni, mi sembra giusto renderlo noto, almeno nelle parti essenziali. Trascrivo dall’originale.
* * * Presidente: Intendete la gravità dell’imputazione che è stata elevata a vostro carico? Si tratta di alto tradimento.
Rampini: No, proprio non intendo e, comunque, se vogliamo parlare di alto tradimento, il problema non è mio, ma vostro, illustre presidente.
Presidente: Come sarebbe a dire?
Rampini: Sarebbe a dire che io ho tenuto fede al giuramento prestato al Re e alla Patria, mentre voi vi siete posto al servizio dei tedeschi invasori e di uno stato fantoccio.
Accusa: A verbale! A verbale! Mi pare che qui si sommi al crimine di tradimento quello di vilipendio. La Patria sarebbe rappresentata dal Re fuggiasco e dal fellone Badoglio?
Rampini: Non spetta a me giudicare il Re e il maresciallo Badoglio: però sono sicuro che la legalità è dalla loro parte.
Presidente: La legalità non è pura forma, non è mai la fuga o la resa. Naturalmente capisco il vostro punto di vista, colonnello Rampini. Dagli atti in mio possesso, risulta che la resa per voi è antica abitudine, tant’è che, nell’ottobre del 1917, a Caporetto, voi, non ancora ventenne a quel tempo, alzaste le mani e vi consegnaste prigioniero agli austriaci. La prigionia durò sino alla fine della guerra e voi ritornaste al principio del 1919. Foste inquisito per il vostro comportamento da pusillanime, non è così?
Rampini: Non è affatto così. Fui catturato insieme ai mille e mille travolti da un disastro militare del quale non portavano colpa. Si dissero tante cose, allora: qualcuno disertò, purtroppo; qualcun altro buttò il fucile e se la diede a gambe. Ma la responsabilità del crollo fu degli alti comandi. Tant’è che, al posto di Cadorna, fu nominato Diaz. Al mio ritorno non fui inquisito: fui interrogato, com’è prassi con i prigionieri di guerra liberati.
Presidente: E del vostro stato di servizio che mi dite?
Rampini: Torno a dire che a voi non devo alcuna spiegazione e alcun chiarimento. Voi state usurpando una funzione che non vi spetta, egregio presidente. Tuttavia, poiché sono una persona cortese e non ho nulla da nascondere, mi onoro di avere uno stato di servizio irreprensibile, tant’è che sotto le armi ho fatto carriera. Accusa: A verbale! A verbale! L’imputato ammette francamente di essere stato un carrierista. Uno sporco carrierista badogliano.
Rampini (all’Accusa): Guardate che sporco carrierista sarete voi... Magari con Graziani, poiché Badoglio non vi piace. Ho solo avvertito di aver sempre fatto il mio dovere e di aver ottenuto il riconoscimento del mio spirito di servizio, della mia dedizione. Tutto qui.
Presidente: Gli atti in mio possesso vi indicano in Somalia, in Albania, in Spagna e, finalmente, durante questa guerra, in Russia... Che ci facevate in giro per il mondo?
Rampini: Non facevo il turista. Andavo dove mi comandavano di andare. Quando, nell’estate del 1942, mi spedirono in Russia, sì, lo ammetto, ne avrei fatto volentieri a meno, perché era sin troppo chiaro come sarebbe andata a finire. Il generale Messe aveva previsto tutto. Mandarmi contro i cosacchi mi parve uno scherzo di cattivo gusto e io non ho mai apprezzato gli scherzi di cattivo gusto.
Nondimeno non ricusai mai di obbedire agli ordini e, nell’inverno del 1943, l’ordine di ritirarci fu doloroso. Seguì una catastrofe e qualcuno dovrebbe assumerne la responsabilità.
Accusa: Qualcuno?
Rampini: Ma sì... Alludo a Mussolini, al duce di tutte le nostre sventure.
Accusa: Signor presidente, vorrei che voi formalizzaste, insieme agli altri capi di imputazione, l’accusa di disfattismo.
Presidente: Mi pare che qui si dia un classico caso di assorbimento giuridico... Il reato maggiore contiene il reato minore e, contenendolo, lo annulla. Un traditore è necessariamente un disfattista e, francamente, signor Rampini (perché non me la sento di riconoscervi un qualsiasi grado nell’ordinamento militare), trovo disgustoso questo vostro evocare difficoltà chiamandole ‘sciagure’... Non vi è alcun dubbio che la vittoria finale arriderà alle forze dell’Asse. Vi sono meravigliose armi segrete che, da un giorno all’altro, capovolgeranno le sorti del conflitto.
Rampini: Io so che per adesso avete modestissime armi convenzionali con le quali, da un giorno all’altro, al massimo potrete capovolgere la mia sorte. Più lontano di così non andrete.
Accusa: Quest’uomo è un provocatore.
Rampini: Voi credete, signor pubblico ministero? Delle armi segrete non so nulla, però so che i miei soldati, in Russia, erano equipaggiati come per una gita al mare d’estate. Non avevano indumenti di lana, non avevano scarpe da neve, non avevano armi adeguate. Il gelo ne uccise più del piombo nemico. Presidente: Mancava la fede, questo è il punto, la fede incrollabile nella vittoria...
La fede riscalda i cuori e sa fare a meno di lana, di scarpe e di armi. Abbandoniamo questo capitolo doloroso e veniamo ai fatti che vi riguardano più da vicino, signor Rampini. L’8 settembre, infausto giorno del tradimento, dove eravate?
Rampini: A Padova, dov’ero stato destinato.
Presidente: E, alla notizia del vile voltafaccia, quale fu il vostro comportamento?
Rampini: Non ebbi esitazioni. Cercai una bicicletta...
Accusa: Una bicicletta?
Rampini: Una bicicletta. E pigiando sui pedali mi diressi verso casa mia, a Pinerolo. Ma non andai a casa, e nemmeno a Pinerolo.
Accusa: Con o senza divisa?
Rampini: Naturalmente senza. I tedeschi mi avrebbero catturato immediatamente.
Presidente: Possibile? Strada facendo, non vi giunse notizia dello stato fascista risorto? Di Mussolini liberato? Della Patria che, dopo lo sbandamento determinato dai rinnegati, continuava la guerra?
Rampini: Ma sì, la radio e i giornali comunicarono queste e altre notizie...
Presidente: E allora? Signor Rampini, non desumeste che eravate un disertore e che avreste dovuto tornare a impugnare le armi?
Rampini: Tutto il contrario. Dedussi che erano traditori quelli che continuavano la guerra al fianco dei tedeschi e che, sì, tornare a impugnare le armi era necessario, non al fianco ma contro l’antico alleato che aveva invaso il mio Paese, la mia terra. Sebbene avessi un gran desiderio di riabbracciare mia madre, puntai su Torino dove c’erano amici fidati.
Accusa: Sempre in bicicletta?
Rampini: Sempre in bicicletta.
Presidente: A parte vostra madre, non avete una vostra famiglia? Intendo: non avete una moglie e dei figli?
Rampini: Non mi sono sposato. Non è stata una scelta. È capitato così e, tuttavia, la mia promozione a maggiore fu sospesa perché ero celibe. Poi, con la guerra, gli scapoli furono equiparati agli ammogliati e arrivò la promozione.
Accusa: Dunque, il vostro apporto alla campagna demografica è stato nullo. È una circostanza aggravante, mi sembra. Com’è possibile vincere le guerre se manca la potenza del numero?
Rampini: Meglio di tutto sarebbe non farle le guerre. Così, ciascuno a proprio giudizio potrebbe decidere se mettere su famiglia o rimanere solo. Forse ho preferito rimanere solo perché un conto è fare figli, altro conto è fare orfani. Il mio è un mestiere pericoloso.
Accusa: Potete giurarlo, signor Rampini. Chi ha paura di offrire il petto al nemico finisce per offrire la schiena al plotone di esecuzione.
Rampini: Non ho mai temuto il nemico. Purtroppo ci troviamo in una situazione abbastanza singolare. Dobbiamo decidere chi è il nemico e mi pare che, al riguardo, le nostre idee non coincidano.
Presidente: Che cosa faceste una volta arrivato a Torino?
Rampini: La guerra.
Presidente: Che cosa dite? La guerra non era a Torino ma molto più a sud. All’epoca si combatteva tra Salerno e Napoli.
Rampini: Quella era la vostra guerra, che per me era finita l’8 settembre. Con gli angloamericani la partita era chiusa. Invece se n’era aperta un’altra, contro i tedeschi che avevano invaso e occupato l’Italia.
Accusa: Signor presidente, dovreste proibire all’imputato di esprimere certi giudizi. Vi sono cose che non si devono dire.
Rampini: Signor pubblico ministero, voi non capite che non serve a niente vietare di dire una cosa, se quella cosa è vera. Nessuna propaganda è più eloquente delle verità. La mia guerra è giusta, mentre è sbagliata la vostra.
Presidente: Signor Rampini, la vostra guerra è tanto giusta che vi ha condotto di fronte a una corte marziale. E vi ordino di non più divagare e di rispondere alle domande. Ripeto: che cosa faceste una volta arrivato a Torino?
Rampini: Organizzai la resistenza armata contro l’invasore. Stabilii contatti con i Comandi alleati e ottenni i mezzi necessari per la guerriglia: radio ricetrasmittente, esplosivi, armi, munizioni e viveri. Creammo un discreto scompiglio e, anche adesso, nonostante sia vostro prigioniero già da alcuni mesi, credo che i partigiani vi rendano la vita molto dura. Ma oramai siete agli sgoccioli... Quanto potrete durare? Un mese, poco più. Sono nato di maggio e, sono sicuro, per il mio prossimo compleanno sarà tutto finito.
Accusa: Se riuscirete a festeggiarlo, il vostro prossimo compleanno.
Presidente: Signor Rampini, state parlando di azioni di spionaggio? Di azioni di sabotaggio? Faccende come far saltare in aria un ponte, non è così?
Rampini: Proprio così. E, a proposito di ponti, io stesso ne ho distrutto uno: bastò una sola carica di dinamite.
Accusa: Eravate il capo di una banda ribelle?
Rampini: Ero l’ufficiale di grado più alto.
Accusa: E gli altri?
Rampini: Quali altri?
Accusa: I vostri complici. Sarebbe utile conoscerne i nomi. Un atteggiamento di collaborazione da parte vostra sarebbe molto apprezzato, signor Rampini. Potreste salvare la pelle.
Rampini: Mi state chiedendo di fare il delatore?
Accusa: Vi sto offrendo l’opportunità di salvare la vita.
Rampini: Scusate, se il mio destino è già deciso, a che cosa serve questo processo?
Accusa: Serve a decidere del vostro destino, in base a ciò che confiderete o non confiderete.
Rampini: Non confiderò. Non ho niente da confidare e poi penso sia di pubblico dominio che un ufficiale italiano non fa il delatore.
Presidente: Voi non siete più un ufficiale italiano.
Rampini: Ah, sì? E, di grazia, dove sarebbero gli ufficiali italiani? Forse voi, signor presidente? O l’illustre rappresentante del pubblico ministero? La mia prigionia non è cominciata ieri: è già vecchia di qualche mese. E a tenermi in carcere, in Italia e in Germania, ci hanno pensato i tedeschi. Senza offesa, signor presidente... voi siete entrato in scena pochi giorni fa per mettere in piedi questo processo. Questa burla di processo. Ma voi chi siete?
Presidente: Noi rappresentiamo la giurisdizione militare della Repubblica Sociale Italiana, ossia di uno Stato indipendente e sovrano.
Rampini: Come avete detto? Avete detto ‘indipendente e sovrano’?
Presidente: Proprio così, tant’è che di giudicarvi è toccato a noi.
Rampini: Non fatevi illusioni. Non siete un tribunale speciale per la difesa dello Stato, come pretendete di essere. Siete un plotone di esecuzione al servizio dei tedeschi.
Accusa: Non voglio sopportare oltre la loquacità del signor Rampini. L’imputato è subdolo e sta tentando di rovesciare i ruoli. Da accusato vorrebbe mettere sotto accusa chi s’accinge a giudicarlo. È insopportabile.
Presidente: Concordo pienamente con il pubblico ministero. In realtà, vi è stato permesso di parlare anche troppo, signor Rampini... A comprova della equanimità di questo tribunale. Ma adesso basta. Il punto non è che uno e uno soltanto: voi siete un traditore. Siete un traditore confesso, che si rifiuta di collaborare. Credo che la fase dibattimentale sia ampiamente esaurita e che si debba passare alle arringhe di accusa e di difesa. La parola al rappresentante del pubblico ministero.
Accusa: Vi ringrazio, signor presidente. Ecco qui questo pallido figuro, questo tipico ignobile rappresentante della imbecillità delle masse, succube sciocco e inconsapevole della propaganda ebraico-massonica. La prima condanna per individui di questo genere è il disprezzo del popolo fascista e non fascista: il disprezzo che si deve avere per tutti i traditori. La nostra lotta è soprattutto contro la concentrazione ebraica mondiale, e che l’imputato Guido Rampini si sia lasciato arruolare da tale concentrazione già basta a dare le dimensioni della sua colpa. Ma stiamo ai fatti, squallidi, orribili. Le tavole della legge, come da decreto 18 aprile 1944 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 97 del 25 aprile 1944, prevedono: «I militari di qualsiasi grado, classe o categoria e i non militari che, prima o dopo l’8 settembre 1943, hanno abbandonato il reparto o l’abitazione per unirsi alle bande operanti in danno alle organizzazioni militari o civili dello Stato, sono puniti, per il fatto stesso di tale partecipazione, con la pena di morte mediante fucilazione nella schiena».
Ecco quanto spetta allo spregevole individuo che, in quest’aula di giustizia, ha ammesso il proprio crimine, se ne è gloriato e ha coperto di infami vituperi l’illustrissimo tribunale. Una scarica di fucileria nella schiena del fellone e si chiuda, per sempre, questo tristo capitolo che disonora la Patria. Vi ringrazio.
Presidente: Ineccepibile. La parola alla difesa.
Rampini: Non potrei difendermi io stesso?
Presidente: La procedura non lo ammette e poi avete parlato sin troppo…
Rampini: Allora vorrei rinunciare a essere difeso.
Presidente: La procedura non ammette nemmeno questo. Che diavolo? Temete di non poter essere difeso in modo efficace?
Rampini: Sono sicuro che ogni parola addotta a mia giustificazione non sarà ascoltata.
Presidente: Sì, è vero, ma la procedura prescrive che voi siate difeso.
Difesa: Il mio compito è difficilissimo, perché i fatti in giudizio sono stati oggettivamente accertati e perché l’imputato ne ha reso franca confessione, omettendo solo di comunicare i nomi dei complici. La gravità del delitto commesso è stata denunciata dal pubblico ministero con sobria, scabra oratoria, ed è tale gravità che apre un varco a un dubbio che oso insinuare. La nostra civiltà giuridica esige, per la condanna dell’imputato, che questi sia compos sui, che sia pienamente consapevole del disvalore del fatto commesso, insomma che sia capace di intendere e di volere. Ebbene: un alto ufficiale che diserta, che trattiene intelligenze con il nemico, che compie atti di sabotaggio, che impugna le armi contro i fratelli dell’esercito fascista repubblicano, un soggetto così ha evidentemente smarrito il ben dell’intelletto. È impazzito. Non credo che il plotone di esecuzione sia la cura più adatta per un povero demente, non nella nostra civiltà. E quindi chiedo, sommessamente, che l’eccellentissimo tribunale speciale voglia emettere non un verdetto assolutorio (vi sono nefandezze che nessuno potrà mai assolvere), ma una sentenza di non luogo a procedere per infermità di mente del prevenuto. Che dovrà essere consegnato a un manicomio criminale e ivi assistito e curato sino all’improbabile guarigione. Purché la Patria viva.
Presidente: Che cosa c’entra la Patria con i matti?
Difesa: La Patria deve saper distinguere tra i matti e i traditori.
Rampini: Levatevi dalla testa che io sia matto. Ragiono perfettamente.
Difesa: Ecco un’ulteriore prova della follia del mio assistito. Tutti i pazzi negano di esserlo. Non ammettono il loro offuscamento.
Presidente: Io non credo che il Rampini sia matto. È solo un traditore.
Difesa: Signor presidente, con queste parole voi intendete anticipare il verdetto?
Presidente: Non intendo anticipare un bel niente. Il verdetto sarà assunto in camera di consiglio, nel rispetto della procedura. E anzi dichiarerei chiusa la discussione e...
Difesa: Ancora un momento, vi prego. In caso di sentenza sfavorevole all’imputato, ammetterete la richiesta della grazia?
Presidente: Ammetteremo, anche se...
Rampini: Io non firmerò una domanda di grazia. Si chiede perdono di una colpa commessa, ma io non ho commesso alcuna colpa e perciò non chiederò perdono.
Presidente: Rampini, piantatela di mettere bastoni tra le ruote. Se non firmerete voi, firmerà il vostro avvocato. Anche se...
Rampini: Il mio avvocato non merita una simile umiliazione. Stando così le cose, sarò io stesso a firmare.
Presidente: E finalmente farete una cosa giusta, anche se le domande di grazia non vengono accolte quasi mai. È il duce stesso che le esamina e, di suo pugno, annota un si o un no. Il caso per il quale mi accingo a rendere sentenza è di quelli che fanno infuriare Mussolini; ma non si sa mai nella vita o, per meglio dire, nella morte. Potrebbe darsi una congiunzione delle stelle fortunata, potrebbe...
Rampini: Potrebbe, ma già conosco l’epilogo. Non mi spaventa fare un’indigestione di piombo ma, alla vigilia della liberazione, è cosa dura. Ed è uno scherzo di cattivo gusto che non mi riesce di apprezzare.
Il verbale di udienza si arresta qui. Non c’è il testo della sentenza, che fu di condanna, e non c’è la domanda di grazia che fu respinta. Sono invece allegati un biglietto che Rampini scrisse alla mamma e il verbale di esecuzione della sentenza. Trascrivo.
Bergamo, 8 marzo 1945


Cara Mamma,
colpito dalla giustizia degli uomini, ma in piena grazia di Dio assistito dal Cappellano delle carceri, Don Mario Moranti, Opera Pia Bonomelli, Piazzale Stazione Bergamo, lascio la vita terrena per la mia Patria e per la mia fedeltà all’Esercito che ho servito umilmente e devotamente per 27 anni.
Mio solo profondo dolore lasciare te, sola in questo marasma della guerra e del dopoguerra. Mio solo rimorso i dispiaceri e i dolori che ti ho dato, compreso quello della mia fine.
Sappi solo che io sono morto cristianamente e che ti attendo nel Regno dei Cieli, ove Babbo ci aspetta.
Ti abbraccio con infinita tenerezza e con tutta la passione della mia anima, con devozione filiale prego e pregherò per te.
Ti bacio
Tuo Guido



TRIBUNALE SPECIALE PER LA DIFESA DELLO STATO
SEZIONE DI BERGAMO

VERBALE DI ESECUZIONE
DI
CONDANNA ALLA PENA DI MORTE
L’anno 1945 - XXIII addì 8 del mese di marzo in Bergamo (Caserma ‘Seriate’) viene data esecuzione, mediante fucilazione alla schiena, alla condanna alla pena capitale pronunciata il 7 marzo 1945 - XXIII contro:
RAMPINI Guido fu Luigi e di Maretto Giuseppina, nato il 16 maggio 1898 in Pinerolo, residente in Viareggio, celibe, tenente colonnello degli Alpini - Artiglieria da Montagna.
Il sottoscritto Cancelliere, avuta la presenza del condannato con l’assistenza del Cappellano Padre... e del medico... legge la predetta sentenza in data 7 marzo 1945 - XXIII nonché il provvedimento in pari data di rigetto della domanda di grazia e conseguente ordine dell’esecuzione.
Il condannato fa le seguenti dichiarazioni: Viva l’Italia libera! Dopo di che il capitano... in rappresentanza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato ordina l’esecuzione avvenuta alle ore 7 e minuti 15.
Del che viene redatto il presente verbale che, letto e confermato, viene sottoscritto dagli intervenuti.



In realtà, il verbale di cui sopra non dice tutto ciò che avvenne. Il plotone di esecuzione era composto da soldati giovanissimi, inesperti, spaventati, tanto che qualcuno si sentì male e qualcun altro, pur di essere dispensato dal lugubre servizio, finse di sentirsi male. Fu Guido Rampini che incoraggiò i militi riluttanti, li rincuorò e, addirittura, li mise debitamente in ordine, per tirare. Qualche tempo dopo, quando l’autorità giudiziaria dispose che la salma venisse esumata, nella fodera della giacca furono ritrovati i biglietti scritti dal condannato prima di venir fucilato. In quei biglietti Guido Rampini non parlava di sé, ma della resistenza contro gli usurpatori.
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