recensioni e segnalazioni 2/2016
William Dalrymple
Il ritorno di un re
Adelphi, 2015
pp. 663 - euro 34,00
di Fucida
di Fucida
Il volume esamina l’avventura politico-militare della Corona inglese in Afghanistan, nella prima metà dell’Ottocento, in competizione con l’espansionismo russo dello Zar Nicola I.
Nel 1839, al termine di intricate quanto traballanti schermaglie spionistiche tra i due contendenti, un’armata britannica invade l’Emirato dell’Afghanistan, sorto dalle macerie dell’Impero Durrani. Oltre ventimila inglesi entrano in quella terra per imporre un sovrano fantoccio che avrebbe dovuto garantire i loro interessi coloniali contrastando quelli zaristi. Ne nasce un sanguinoso gioco a scacchi per il controllo della regione; un gioco che per gli invasori si dimostrerà un fallimento umiliante, causato non solo dalla sommaria preparazione dello strumento militare ma, soprattutto, dall’incapacità di prevedere la durezza e la determinazione del Jihad attivato dalle tribù fedeli al re spodestato. Fu una campagna di resistenza micidiale e logorante che costrinse gli occupanti a una ritirata caotica attraverso i gelidi e impraticabili valichi dell’Hindu Kush, già terreno di patimento di Dario I e di Alessandro Magno.
L’autore consegna un testo di storia puntuale e affascinante, grazie a una poderosa ricerca svolta su fonti inesplorate, in lingua persiana, russa e urdu nonché attingendo a documentazione d’archivio contenente lettere, dispacci e memoriali dei protagonisti belligeranti. Un affresco ricco di particolari inediti che tratteggiano personaggi crudeli e incompetenti, eroici e boriosi a cui è affidata una vicenda drammatica. I protagonisti principali del racconto sono raffigurati nel breve capitolo iniziale Dramatis personae, una sorta di utilissima prefazione che funge da inquadramento delle successive dinamiche. La storia scorre come un romanzo che sa offrire colpi di scena senza interrompere il tragitto rigoroso degli eventi narrati e offuscare lo sfondo storico su cui s’incardinano. La descrizione dei luoghi e delle circostanze in cui i fatti si svolgono ci regala i profumi e i caratteri delle cicliche conflittualità accese in quella terra di mezzo, dove ogni invasione si è dissolta in rivoli insignificanti, lasciando strappi imbarazzanti sulle uniformi di molti eserciti occidentali, compresi quelli moderni.
Dalrymple distribuisce con garbo e lucidità gli abbagli strategici che portarono allo spietato annientamento delle truppe britanniche, offrendo riflessioni di attualissima rilevanza sulle avventure neocolonialistiche dei giorni nostri, in cui gli echi del passato non dovrebbero essere trascurati nemmeno se rimbalzano su geometrie geopolitiche di diversa angolazione e dimensione. Queste considerazioni, sicuramente degne della migliore saggistica contemporanea, sono contenute nel capitolo finale, unitamente ad altre note dell’autore, utili a sostenere e impreziosire l’architettura dell’insieme. Se nel 1839 e nei tre anni successivi si è consumata una sconfitta, figlia di iniziative improvvide e arroganti, basate su informazioni distorte, se non false, circa l’imminenza di operazioni zariste sullo scacchiere afghano, le odierne aspirazioni di dominio e ingerenza sulle stesse aree devono fare i conti con i medesimi fattori logoranti: rivalità tribali, territori inospitali, fondamentalismi irriducibili, giusti aneliti di libertà e autonomia di tante etnie diverse, fiere della loro identità.
L’autore invita a conoscere e a riflettere sulle lezioni della storia che, spesso, ripropone le stesse colpevoli distrazioni, ingenerando parossismi interventisti di inutile quanto dannosa intensità.
La ‘recidiva afghana’ degli ultimi anni ne è un esempio incontestabile; gli invasori hanno sempre perso, alimentando instabilità ricorrenti che, a loro volta, costituiscono l’alibi per reiterare errori del passato. Ogni tentativo, comunque giustificato dalle logiche occidentali, di esportare modelli asseritamente migliori pare destinato a infrangersi su capisaldi culturali e religiosi, il cui radicamento viene costantemente sottovalutato.
Se è stato così per le armi inglesi del XIX secolo, lo è tuttora. Gli elementi di debolezza rimangono gli stessi: iniziative senza una chiara exit-strategy, divergenza tra comandi militari e leadership politica, errori nelle alleanze locali, incapacità di considerare correttamente le multiformi sensibilità identitarie della popolazione. In buona sostanza, l’assenza di un’intelligence strategica, di respiro profondo, in grado di guidare le politiche interventiste o di disinnescarle.
Una lettura piacevole, utile ed evocativa, priva di enunciazioni ideologiche ma fortemente intrisa di rispetto per una terra affascinante ed emblematica, su cui ancora s’intrecciano interessi e diatribe delle grandi Potenze mondiali.
Franco Cardini - Marina Montesano
Terrore e idiozia
Tutti i nostri errori nella lotta contro l’islamismo Mondadori, 2015 pp. 132 - euro 17,00
di Myagi
Tutti i nostri errori nella lotta contro l’islamismo Mondadori, 2015 pp. 132 - euro 17,00
di Myagi
Gli autori del volume, ricco di comparazioni e richiami storici, hanno vinto una bella scommessa. Sono riusciti a centrare il cuore dei tanti ‘perché’ che animano il cittadino occidentale davanti alla realtà apparente dell’Isis; questo califfato fluido che ha mutato e potenziato il jihad in molti scacchieri del mondo. La linea maestra delle riflessioni proposte è scolpita nella prima pagina: «Voi dite che la buona causa santifica persino la guerra? E io vi dico: la buona guerra santifica ogni causa» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885). Una proposizione calzante.
I quattro capitoli in cui si declina il testo rimangono coerentemente ancorati al quesito e accompagnano il lettore alla comprensione dello svolgimento delle considerazioni conclusive, ardue e coinvolgenti. Il rumore di fondo che guida il ragionamento è il dubbio che l’asimmetrico sviluppo di violenza in corso possa nascondere il tentativo di Daesh di dimostrare ai musulmani sunniti che il vero nemico siamo noi ‘crociati’ e non che ci si trovi solo davanti a una ripresa della ‘guerra santa’, ad alta intensità. Questa versione implica drammaticamente la responsabilità delle Potenze occidentali e viene presentata attraverso la lucida analisi delle più recenti vicende terroristiche che hanno segnato gli scacchieri caldi del mondo, passando per le risposte muscolari di Stati Uniti, Russia e Francia. Sono risposte che il ragionamento degli autori offre come scelte tatticamente scontate ma, forse, culturalmente e politicamente immature (idiozia?).
Si tratta di una rappresentazione scomoda e allarmante che tira in ballo l’intera consistenza e impotenza del repertorio di contrasto disponibile da parte dell’Occidente: misure d’intelligence, diplomazia ondivaga, configurazioni militari ad hoc, strategie di dialogo, azioni d’influenza e contronarrativa. Un pacchetto di soluzioni in linea con l’ortodossia di maniera che la minaccia in campo rischia di far apparire desueto e inadeguato, non foss’altro per i costi da sostenere e per una miopia prospettica che rende difficile disegnare lo scenario in cui anche le armi dei nuovi martiri torneranno a tacere. Immaginare i quartieri della futura geopolitica risulta, dunque, un esercizio impervio. Ed è nel capitolo delle conclusioni che l’elaborato offre al lettore l’epilogo del ragionamento adottato.
I fuochi di guerra accesi negli ultimi anni dai combattenti del rinnovato radicalismo non sono il frutto di uno scontro tra civiltà, non rappresentano il riacutizzarsi di una mai sopita antitesi tra religioni ovvero la dimostrazione dell’incessante tendenza al settarismo dell’Islam, dilaniato da oltre 1.200 anni da scismi, eresie e apostasie di matrice teologica. Quello che abbiamo di fronte è il risultato delle azioni di un’organizzazione criminale autoreferenziatasi – forse anche eterodiretta – che opera su basi metareligiose, sorrette da inconfessabili interessi, riconducibili ad altri soggetti della politica mondiale.
Il testo ha il pregio di trarre spunto dalla crudezza della cronaca e, al contempo, di sviluppare un’interessante teoria sui possibili errori nella lotta contro l’oscurantismo islamista. È lettura che stimola, come poche, la capacità di interpretazione del presente, per evitare pericolosi e acritici luoghi comuni che potrebbero falsare l’onestà interpretativa delle nuove generazioni, chiamate a confrontarsi con una sfida epocale.
Gastone Breccia
Guerra all’ISIS
Diario dal fronte curdo Il Mulino, 2016 pp. 216 - euro 16,00
di Pigreco
Diario dal fronte curdo Il Mulino, 2016 pp. 216 - euro 16,00
di Pigreco
Agosto-settembre 2015: da Erbil a Makhmur, Kirkuk, Duhok e alla zona della diga di Mosul, sul confine fortificato tra il Governo Regionale del Kurdistan (Krg) e il territorio iracheno occupato dalle milizie dell’Isis; poi oltre il fiume Tigri fino alla Federazione della Siria settentrionale (Rojava), la parte della Siria sotto controllo dei curdi, ad Al-Qamishli, Amuda, Kobanê, Tel Berek; infine di nuovo in Iraq, attraverso il deserto, fino a Sinjar, dove i guerriglieri dell’Hpg (‘braccio militare’ del Partito dei lavoratori del Kurdistan-Pkk) tenevano le posizioni in uno dei settori più delicati dell’intero fronte. Per quasi un mese l’autore ha vissuto con i combattenti curdi delle diverse fazioni (Hpg, Ypg, Ypj, ‘peshmerga’ del Krg) intervistandoli e cercando di capire in che modo stessero affrontando questa difficile guerra «nell’interesse comune della civiltà», come amano ripetere loro stessi. L’autore, docente di bizantinistica all’Università di Pavia, ha al suo attivo una lunga serie di saggi di argomento storico-militare; obiettivo del volume è analizzare la trasformazione di una milizia di popolo, legata per lunga tradizione alle tattiche della guerriglia, in una sorta di ‘esercito regolare leggero’, addestrato dall’Occidente. Quindi, verificare quali siano le tecniche di combattimento adottate dagli ex-guerriglieri curdi contro un avversario nuovo, a sua volta capace di impiegare tattiche non convenzionali, e infine, osservare le differenze tra le due principali organizzazioni curde (da un lato i ‘peshmerga’ governativi iracheni, dall’altro i guerriglieri legati al Pkk, sia in Iraq che in Siria). La ricerca sul campo ha riservato non poche sorprese, rovesciando in alcuni casi le idee dell’autore sui problemi presi in esame. In sintesi: – i guerriglieri del Pkk si sono dimostrati ben addestrati, professionali, ideologicamente «granitici» e militarmente capaci di operare con efficienza nelle situazioni più diverse e contro un avversario «nuovo» e talvolta imprevedibile come l’Isis. Anche il Fighting in built-up areas (Fibua), che non faceva parte del ‘bagaglio tecnico’ di questi guerriglieri di montagna, viene studiata, analizzata e condotta con abilità; – i ‘peshmerga’ curdo-iracheni sono invece dei coraggiosi dilettanti: combattenti part-time; hanno una fierezza innata e una grande consapevolezza delle proprie tradizioni guerriere, ma scarso addestramento e nessuna (o quasi) conoscenza tattica specifica; – i soldati italiani stanno addestrando solo i ‘peshmerga’ per trasformarli in un vero esercito allo scopo di continuare a combattere l’Isis, nonostante la guerra contro i miliziani dello Stato Islamico, almeno sul fronte curdo-iracheno, sia in una fase di stallo, se non praticamente conclusa. Il libro si conclude con un’analisi della situazione nel gennaio-febbraio del 2016. Nell’insieme, oltre che una riflessione storico-militare su un fenomeno in divenire, il saggio-diario vuole essere una testimonianza utile per comprendere l’evoluzione della situazione in Iraq e in Siria. Non solo storia sul campo, dunque, ma fonte imparziale per chi dovrà scrivere di storia della guerra all’Isis nel prossimo futuro.
Adonis
Violenza e Islam
Conversazioni con Houria Abdelouahed Guanda, 2015
pp. 187 - euro 14,00
di Shirai
Conversazioni con Houria Abdelouahed Guanda, 2015
pp. 187 - euro 14,00
di Shirai
«In primo luogo, la violenza è un fenomeno comune ai tre monoteismi. Tuttavia, nella Bibbia la violenza è legata alla storia di un popolo che conobbe la schiavitù e l’esilio. Nel Cristianesimo la violenza va di pari passo con la fondazione della Chiesa. Invece, nell’Islam c’è soprattutto la violenza del conquistatore». Con queste parole Adonis – Ali Ahmad Sai id Esber – rispondendo a una riflessione della sua intervistatrice e coautrice Houria Abdelouahed, scolpisce la cifra del libro e sintetizza la linea di pensiero che guida le sue considerazioni. Il testo, costruito dialogicamente per temi di discussione, si occupa dell’Islam politico, dalla fondazione del primo Califfato all’epoca attuale, periodo in cui la religione è stata usata per costruire un potere terreno, derivando progressivamente in divisioni, conflitti e fratture. Una sorta di decostruzione del Corano che ha manipolato la ‘primigenea’ rivelazione sino a divenire guerra ideologica combattuta per interessi di parte, che potremmo definire priva di correttezza ermeneutica. Senza addentrarsi in interpretazioni filosofiche o psicoanalitiche della violenza quale fattore collaterale dell’Islam, l’autore declina il suo pensiero sulla follia di alcuni leader arabi, fomentatori di odio e di massacri in nome della sharia, applicata impunemente per commettere crimini, prodotto blasfemo del tentativo di riportare purezza in una contemporaneità ritenuta sporcata da ‘altri’ che fedeli non sono. Su questo si fonda la desolazione e la conseguente rovina del mondo arabo attuale, incapace di recuperare i residui poetici che caratterizzarono la vita di quei popoli prima della parola di Maometto. Un percorso inesorabile di politicizzazione della religione e di sacralizzazione della politica in suo nome, che induce a tradurre anche le esperienze teocratiche in monolatrie velleitarie e devastanti, sotto il profilo culturale e geopolitico. Da poeta qual è, Adonis, incalzato dall’interlocutrice, oscilla lucidamente ma con amarezza sui temi scottanti della Primavera araba, sulla nascita dell’Isis e sul terrorismo fondamentalista, configurando un ethos islamico policentrico che ha finito col tradire i cardini di una grande civiltà meritevole di essere riconsiderata attraverso un umanesimo riparatore. Non senza spunti apocalittici, definisce l’Islam contemporaneo la sede di un ‘caos’ dove credere e propugnare la violenza si fondono, spesso senza distinzione, originando l’annullamento del progresso e la consunzione di quella benefica prospettiva che la tradizione occidentale, da Aristotele a Hegel, ha proposto all’intelligenza e alla coscienza di ogni uomo: un progresso basato sul superamento delle verità rivelate.
Quelle di Adonis non sono mai generiche enunciazioni sistematiche finalizzate alla restaurazione di armonia tra genti diverse, ma richiami all’elaborazione di paradigmi dell’agire politico in cui l’avvenire prossimo, lontano da qualsiasi forzatura teistica, recuperi lo spazio costruttivo delle relazioni, a vantaggio di politiche feconde e rigeneratrici. Un volume che, partendo dai fatti della storia, rilascia l’energia dei sogni, insegnandoci a esplorare e analizzare a fondo la genesi di vicende drammatiche e attuali che incidono sulle dimensioni civiche di ognuno, esorcizzando pericolose rassegnazioni per lasciare spazio alla certezza di un liberatorio riscatto. L’intellettuale siriano ne è fortemente convinto e chiosa con fermezza: «l’Europa deve svegliarsi e fare la guerra a quest’organizzazione di psicopatici [l’Isis] finché non avrà sterminato i selvaggi. Che non vanno confusi con i mussulmani». Un appello implacabile, al termine di una diagnosi lucida e impietosa.
Erik Larson
Scia di morte
L’ultimo viaggio del Lusitania Neri Pozza, 2015 pp. 448 - euro 18,00
di Ugaki
L’ultimo viaggio del Lusitania Neri Pozza, 2015 pp. 448 - euro 18,00
di Ugaki
Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, viene ucciso l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede d’Austria-Ungheria. È il pretesto per liberare le spinte belliche che già da tempo covano negli imperi centrali d’Europa. Infatti, solo un mese dopo la Serbia è invasa dalle truppe austriache e scoppia la Prima guerra mondiale. In breve il continente ridisegna nuove alleanze e nuovi equilibri, sulla scia delle strategie degli Stati Maggiori più che su quelle della diplomazia di contenimento.
Oltre oceano, gli Stati Uniti stanno a guardare, coltivando una neutralità traballante anche a causa della scelta interventista dei cugini inglesi, che erano corsi alle armi contro la Germania, con tutte le energie della loro tradizione coloniale, in particolare dell’Ammiragliato. Questo è lo scenario in cui Erik Larson ricostruisce la storia del transatlantico Lusitania. Una potente ‘signora dei mari’ varata in Scozia nel 1906 e destinata a divenire il fiore all’occhiello della marineria britannica: 27 nodi in mare aperto, 238 metri di lunghezza, 2.200 passeggeri. Un vanto per la Corona inglese che, solo pochi anni dopo, in previsione dell’imminente conflitto, l’ha segretamente adibita al trasporto di materiale bellico proveniente dagli Stati Uniti, mentre nei suoi lussuosi saloni centinaia di danarosi turisti e gente d’affari si godevano la traversata dell’Atlantico. In una splendida giornata di maggio, nel 1915, il Lusitania solca le acque al largo delle coste irlandesi, proveniente da New York e diretta a Liverpool. Quello specchio di mare è già teatro di guerra. Dominato dai temibili U-Boat tedeschi, in agguato per dare la caccia al naviglio nemico e stendere una rete protettiva sul fronte nord del conflitto. Una potente manovra di interdizione destinata a scoraggiare l’afflusso, in quello strategico scacchiere, di flotte ostili pronte a supportare i britannici. Poco tempo prima i giornali newyorkesi avevano annunciato l’avviso con cui l’ambasciata tedesca di Washington siglava la volontà di colpire ogni nave inglese e alleata presente in quel delicato settore. Quell’annuncio non parve preoccupare William Thomas Turner, comandante del Lusitania, confortato dalla straordinaria velocità e manovrabilità del suo ‘gioiello’ e dalla protezione assicurata dalla Royal Navy. La vita sul transatlantico scorreva regolare e dopo sedici ore di traversata l’aria salata augurava il buongiorno a decine di passeggeri accorsi sul ponte per scrutare i primi lembi di terra irlandese. D’improvviso un giovane marinaio scorge a dritta una scia spumeggiante che avanza lenta e inesorabile verso lo scafo. Una scia di morte tracciata da un siluro tedesco che colpisce mortalmente la pancia del Lusitania causandone il lento affondamento. Da quel momento, anche a seguito dei molti dubbi che l’inchiesta ufficiale lascerà insoluti, il neutralismo americano si trasforma in convinto interventismo e la Grande guerra guadagna un altro contendente schierato contro le potenti armate del centro Europa. Un germe di atlantismo che segnerà la storia occidentale nei decenni successivi.
L’Autore ci conduce in una tragedia che a lungo è rimasta inesplorata e avvolta dal mistero, alimentato da teorie complottiste emerse nei mesi successivi all’affondamento; teorie che volevano addebitare a certi segmenti della politica britannica il colpevole allentamento delle misure di sicurezza navale e ricercare, quindi, un alibi per indurre gli Stati Uniti a prendere le armi. La penna di Larson descrive i particolari della sua ricerca con puntigliosità e ritmo. Una rappresentazione autorevole come raramente accade, quando ci si propone di fare l’autopsia ad accadimenti che hanno cambiato il corso della storia.
Francesco Benigno
La mala setta
Alle origini di mafia e camorra
1859-1878 Einaudi, 2015 pp. 448 - euro 35,00
di Tumyo
Alle origini di mafia e camorra
1859-1878 Einaudi, 2015 pp. 448 - euro 35,00
di Tumyo
Per comprendere le mafie italiane non è sufficiente fare un passo a ritroso di 150 anni. È necessario partire da prima e riscrivere la storia degli intrecci tra potere statale e criminalità, quando l’Italia si stava formando mentre già esistevano le ‘classi pericolose’, un prodotto d’inesauribile meticciato tra rappresentanti di interessi pubblici e interessi di parte. Un segmento temporale di valenza socio-antropologica che attiene non solo alla genesi di mafia e camorra attestatesi in Sicilia e Campania, ma che ricomprende quello che succedeva nel resto del Paese. Sin dalle prime pagine viene proposto al lettore il mondo delle pratiche poliziesche e giudiziarie ottocentesche attraverso le quali il potere costituito cogestiva l’ordine sociale, utilizzando soggetti devianti per la salvaguardia del regime e della stabilità, in una sorta di simbiosi biunivoca. Una prassi che si è trascinata nei decenni – in epoca liberale, prima e dopo il fascismo – quasi che lo Stato rinunciasse all’esercizio della propria autorità vitale per farsi tollerare da ‘sette’ non disposte a cedere padronanza culturale e territoriale. Lo sviluppo del crimine organizzato, popolare e segreto al tempo stesso, è strettamente correlato alla lotta delle istituzioni contro gli eversori, repubblicani prima e socialisti internazionali in seguito. L’indagine dell’autore si sviluppa anche attraverso un pellegrinaggio virtuale nell’Europa settecentesca, analizzando le varie pratiche di spionaggio sociale, di provocazione e di infiltrazione degli apparati di sicurezza verso oppositori da destabilizzare e disinformare. Un percorso di studio che offre un’affascinante novero di casi, utili a ricostruire il filo sotterraneo tra l’esercizio del potere e l’inconfessabile necessità di scendere a patti con ‘altri’ per sostenerlo e consolidarlo. Una dialettica malcelata che, a tratti, ha finito col legittimare le forme più radicate di criminalità. L’opera affronta il tema in maniera originale e provocatoria, proponendoci l’asserto secondo cui ‘i mafiosi’ non rappresentano un popolo a parte, sempre uguale a se stesso, bensì il controcanto della seconda faccia di una stessa medaglia. Un saggio affascinante, a tratti scomodo e inquietante, arricchito da fonti inedite e sostenuto da riferimenti letterari contestualizzati che alleggeriscono la robustezza dell’esposizione. Questa lettura agevola il recupero radicale della politica nazionale e corregge le interpretazioni dell’immaginario collettivo, spesso adagiato su posizioni manichee, dove bene e male risultano sin troppo facilmente separati.