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personaggi 2/2016
Storie di chi si è dato coraggio

Donato Sanità Donato Sanità

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Sottufficiale animato d’ardentissimo amor di Patria, da elevato spirito di sacrificio e da assoluta dedizione al dovere, aveva già ottenuto una promozione ad Aiutante di Battaglia per merito di guerra, due Medaglie d’Argento e due Croci al valor militare. L’8 settembre 1943 lo trovò nella zona di Viterbo, in cattive condizioni di salute per i gravi disagi sofferti. Chiaritasi la situazione, attraversando la linea di combattimento, raggiunse il territorio liberato per continuare a servire la Patria. Si offriva quindi volontario per una rischiosa missione di guerra in territorio italiano occupato dai tedeschi. Malgrado i disagi e le difficoltà di ogni genere con ammirevole ardimento e somma accortezza, assolse brillantemente il compito assegnatogli. Si accingeva, quindi ad attraversare le linee, ma sorpreso e ferito da una pattuglia tedesca e travolto poi da una mina, rimase alcuni giorni tra vita e morte. Soccorso infine e sottoposto all’amputazione della gamba sinistra e del piede destro sopportò le gravissime sofferenze con sereno stoicismo. Giunte nella zona le truppe liberatrici, agli ufficiali che lo visitavano, immemore del sacrificio della fiorente giovinezza, manifestava una sola speranza, chiedeva un solo premio: servire la Patria, servirla ancora, devotamente. Fulgido esempio di completa dedizione al dovere.

Zona di Ancona – (Chieti), gennaio-giugno 1944




Donato Sanità

Sanità nacque nel 1917 a Tolve, provincia di Potenza, da una famiglia di agricoltori. Dopo aver frequentato l’istituto magistrale, si arruolò nel maggio 1938. Paracadutista della Folgore, combatté in Francia, in Jugoslavia e in Libia. Agente del S.I.M., si comportò sempre da valoroso. Circa la concessione della massima decorazione, conviene rinviare all’articolo apparso su Il Tempo il 12 ottobre 1966. Sanità, dopo aver frequentato un corso per sabotatori ebbe il compito di far saltare sei ponti ed un treno carico di munizioni. Paracadutato nel territorio invaso dai tedeschi, portò a termine l’incarico. Incappato in un campo minato, ‘stremato, un piede congelato, non avvertì lo scempio che lo scoppio di una mina fece dell’arto. Una seconda mina lo abbatté. Continuò a trascinarsi per quattro giorni finché raggiunse una cascina dove, esausto, si addormentò. E qui lo trovò una pattuglia composta da un maresciallo tedesco e da un sergente italiano. Donato Sanità era ormai un moribondo e i sopraggiunti si consultarono per decidere se non fosse opportuno por fine alle sue sofferenze con un colpo di grazia. Ma il maresciallo lo riconobbe: avevano combattuto insieme in Africa Settentrionale. I due soldati si abbracciarono. Il maresciallo si prodigò per lui, lo portò all’ospedale militare tedesco e da qui a quello civile di Chieti i cui medici lo diedero per spacciato. L’eccezionale fibra di Donato Sanità resistette e cominciò la serie di interventi chirurgici che gli salvarono la vita, ma lo resero mutilato di ambo gli arti’. È una storia quasi incredibile, degna di uno sceneggiato televisivo. Donato Sanità fu un coraggioso, fu persino un temerario. Nel suo personaggio affascina la provenienza dalla remota Basilicata, da un mondo che Carlo Levi ha esplorato solo in parte, e che pure oggi conserva intatto il suo mistero, in bilico tra Cielo e terra, luogo di esilio, di silenzio, di immobilità: non deve stupire che Sanità, volesse evaderne. Gli costò caro. Tuttavia, a guerra finita, malgrado la tremenda mutilazione, non si negò una vita normale. Si sposò ed ebbe una figlia. Morì a Cava dei Tirreni (Salerno) nel 1984 e, chi sa, una volta in Cielo, se conobbe il segreto di quella che, anticamente, era una ‘terra di re’.


Un paese tra inferno e paradiso di Giampaolo Rugarli
... mai capito perché questa regione fu chiamata Basilicata, ossia, come mi spiegò il maestro Carovita, terra di re. Di regale non ci stava niente. Io mi ricordo il freddo, la neve, il gelo, che furono peggio che mai in quel mese di febbraio de11929: c’erano stati grandi festeggiamenti, lo Stato e la Chiesa avevano fatto pace, e la questione romana era finita. Che diavolo fosse la questione romana non lo sapevo, e tutto sommato non me ne importava niente: avevo tredici anni non ancora compiuti, ero ragazzo e mi piaceva giocare. Quando possibile. Perché, nei campi, davo una mano pure io, però, d’inverno, c’era solo da portare le pecore a pascere, e a quello provvedeva mio padre. Quando c’era la farina, mia madre impastava la pasta, sennò arrangiava una cosa da mangiare. Come si poteva.
La povertà era molta, di quei tempi. La gente continuava a fuggire, diceva che il nostro era un paese maledetto, come gli altri della Basilicata. Maledetto non credo. Mancava il lavoro sicuro, che alla fine di ogni mese ti pagano il tuo salario o il tuo stipendio, e te ne vai in pace. C’era mistero in mezzo ai boschi di quercia, e, anche dove non ci stava vegetazione, e il suolo era arso, brullo, franoso, spaccato in calanchi, era uno spettacolo lo stesso. La solitudine la vedevi e la toccavi, eri sperduto tra la terra e il cielo. Sentivi il respiro del vento e più niente, così ti facevi domande, che significato ha nascere e morire, se ha un significato: e volevi pure sapere se quel mondo in esilio è più vicino all’inferno o al paradiso.
Le notti d’inverno eravamo inserrati a casa. Capitava di ascoltare l’ululato dei lupi: erano gli ultimi, i pastori ne avevano fatto una strage per difendere le greggi. Col freddo i lupi non trovavano cibo, e scendevano sino alla estremità dell’abitato. Ululavano più forte con la luna piena, ma io dico che forse era una superstizione, ed era pure una superstizione andare cercando ciò che la luna scaricava nel bosco. Sputi e porcherie peggiori. In realtà, lei si faceva gli affari suoi – bianca, gessosa, spettrale – ed era un corpo celeste, senza anima. Ma, dalle mie parti, c’era l’abitudine di considerare cristiani, bestie, piante e cose tutto una stessa cosa: l’anima, o almeno un pezzetto di anima magari un poco difettosa, non la si negava a niente e a nessuno. Così c’era l’idea che si parlava col mondo e pure colla luna, sebbene non avessi proprio nulla da dirle, forse per causa della mia giovanissima età. Adesso se ci dovessi fare due chiacchiere, dalla mia bocca uscirebbe qualche reclamo. Avrei le mie brave ragioni.
Col freddo mi arrivarono i geloni. Mettevo i guanti di lana, con un dito solo, il pollice. Li aveva sferruzzati mia madre, usando rimasugli di vecchi gomitoli. Il maestro Caroviti, che aveva fatto un corso da infermiere, scuoteva la testa e mi diceva che i guanti non servivano a niente. «È questione di alimentazione» mi spiegava, «se tu vuoi guarire dai geloni, devi mangiare la carne di capretto». Avevo riferito il messaggio a mio padre, che si era imbestialito. «E dove la piglio la carne di capretto?» mi aveva sbraitato sul muso. «Non è stagione e non ho soldi. Ringrazia Iddio che almeno ti passo un piatto di acquasala». L’acquasala era la minestra della povera gente: era acqua bollita con l’aggiunta di un pizzico di sale, di un filo d’olio e di un peperoncino forte. Il peperoncino lo chiamavamo cancariello, e più ce n’era più la broda era saporita. Nell’acquasala si spugnava il pane, a fette, e così si andava a dormire con l’illusione di aver mangiato. Però i miei geloni non guarivano.


Esattamente quindici anni dopo, il mese di febbraio del 1944, pensai ai geloni, appena mi accorsi che il piede destro non lo sentivo, come se lo avessi strofinato con l’ovatta, bagnata nell’etere. C’era stata la guerra, c’era stato l’armistizio, e io mi ero chiesto che cosa doveva fare un bravo giovane. Avevo seguito i consigli di mio padre, che di guerre ne aveva già vista una. «Tu portati bene» mi aveva insegnato, «e fai molta attenzione». Mi ero portato bene, e avevo usato maggiore attenzione, tanto che avevo fatto carriera, e da caporale a sergente, da sergente a sergente maggiore, mi avevano promosso aiutante di battaglia che è il non plus ultra. Mi avevano spedito in Francia, in Jugoslavia, in Libia, e da tutte le parti mi ero distinto: il Comando sapeva che su di me si poteva fare assegnamento.
L’armistizio mi metteva un problema di coscienza, e non potevo chiedere consiglio né a mio padre né al maestro Caroviti. Però mi ricordavo che il maestro aveva sempre insistito che la parola data è sacra per ogni galantuomo, così avevo giurato fedeltà al re e non potevo rompere il giuramento. Stavo a Viterbo, come dire a casa del diavolo, e io solo so in mezzo a quali disgrazie avevo attraversato la linea di combattimento, e avevo raggiunto Brindisi, dove era stato fissato il Quartier Generale del re. Subito mi avevano domandato che cosa volevo fare, e se ero disposto a tornare indietro, per riferire che cosa tramava la tedescheria. Avevo detto di sì, con entusiasmo: tutta la storia dell’8 settembre non mi era piaciuta, e quello che si poteva fare per la Patria squassata era dovere. Ero brevettato paracadutista, e il viaggio di ritorno era stato molto più veloce di quello d’andata.
Avevo obbedito alla consegna, sabotato, osservato, spiato e informato i superiori, poi tra i monti di Abruzzo, che somigliavano a quelli di casa mia, avevo cercato una strada per tornare nell’Italia liberata e presentarmi al Quartier Generale, dove avrei ricevuto i nuovi ordini. I fatti stavano a questo punto, e mi chiedevo se, dopo aver fatto saltare in aria tre ponti e un treno carico di munizioni, dovevo essere orgoglioso di me. Non lo sapevo, ero solo molto stanco, e avevo un terribile freddo: stavo attraversando un bosco, il piede destro era addormentato e lo trascinavo invece di muoverlo. Pazienza. Non sono devoto di San Rocco, però pensai che San Rocco mi avrebbe aiutato, se era buono di guarire gli ammalati di peste, i geloni gli sarebbero sembrata una sciocchezza. A quel punto apparve la pattuglia tedesca.
Erano in tre, non mi avevano visto. Io stavo ancora rannicchiato dentro il bosco, e loro erano usciti allo scoperto, in una breve radura dove erano stati tagliati gli alberi. Il maestro Caroviti ripeteva sempre che la miglior difesa è l’attacco, così aggiustai la mira, e falciai due soldati. Il terzo faticò a localizzare la minaccia, perciò sparò come un pazzo, dove andava andava. Mi colpì di striscio. Io lo tenevo nel mirino, e feci fuoco anch’io. Cadde a terra al primo colpo. Mi avvicinai con molta cautela, nel silenzio del bosco avevamo fatto un baccano dell’altro mondo, e, se nei dintorni c’erano altri tedeschi, sarebbero comparsi immantinente. Non ci stavano. I tre della pattuglia erano morti, e io ero vivo. Un miracolo. Forse ci aveva messo mano San Rocco? Poco probabile. I santi erano contrari alla violenza e alla guerra. Mi feci il segno della Croce e provai a recitare un Requiem: non ricordavo le parole, che il Signore vi prenda in Paradiso, pensai. Mi toccai il piede addormentato: sempre peggio, il torpore saliva verso la caviglia. Mi rimisi in cammino.


Se credessi in Dio non so, però avevo fiducia in San Rocco benedetto. Il 16 agosto, che è la ricorrenza del Santo, al mio paese si faceva una grande festa: si accendevano luminarie, si sparavano botti, si montavano giostre e circo delle bestie feroci. Forse nel 1929 la corrente elettrica non c’era ancora, forse. Arrivò più o meno a quel tempo, eravamo in montagna, separati da Dio e dagli uomini, non c’era nessuna fretta. Cristo si era davvero fermato a Eboli. Del resto ho un bel ricordo delle candele e delle lampade a petrolio. Erano per le grandi occasioni, costavano. D’estate se ne aveva meno bisogno, le giornate erano lunghissime e il sole pareva che non volesse tramontare mai. D’inverno era invece un guaio. Si andava a dormire con le galline, però il lume a petrolio si doveva accenderlo almeno per un’ora o due, e mia madre litigava con la calzetta, che poi è lo stoppino che brucia e manda la luce.
È stato detto che alla luce gli uomini preferirono le tenebre, mi pare. Posso capire. Le tenebre calavano come una coperta, e nascondevano il nostro castello diroccato. Nascondevano Campomaggiore vecchio, un intero paese diroccato, non lontano da noi, e tutte le altre rovine che testimoniano sul grande passato e sul piccolo presente della Basilicata. A proposito di Campomaggiore vecchio: andai a fare una passeggiata una volta, con i genitori, con i parenti e con gli amici. Viaggiammo sui ciucci, che allora erano i mezzi di locomozione di uso più frequente. Per mangiare portammo taralli, uova sode e salsiccia. Così feci conoscenza con un abitato morto, perché, poco meno di cinquant’anni prima, c’era stata la frana, da non confondere con il terremoto. La frana ha una sua grazia, una sua gentilezza: la terra scivola piano piano, di sei o sette metri, non di più, un minuetto, però quanto basta perché vadano a gambe all’aria le case, il municipio, la chiesa, la scuola e il resto. Come uno che sta in piedi su un tappeto, e glie lo sfilano di sotto: va a gambe all’aria, matematico. Non tutto era andato gambe all’aria: erano caduti i tetti, alcuni muri si erano inclinati o incrinati e altri avevano perduto qualche pezzo. I ruderi rimasti erano poco adatti per i cristiani, ma erano perfetti per i pipistrelli e per i fantasmi, che si affollavano di notte e parlavano, parlavano. Del nostro mondo in frana. Del nostro mondo abbandonato.
Nell’estate del 1929 stavano costruendo la nuova strada, al mio paese. Potrebbero anche non costruirla, io pensavo, però in cinque o sei avevano trovato lavoro, sebbene travagliare da terrazziere non fosse la meraviglia. Di tempo in tempo, facevano brillare una mina, ed era una operazione delicata su una terra ballerina come la nostra. A sbagliare le misure, c’era il pericolo di scatenare l’effetto valanga. Ma ci stavano attenti. Più che mine esplodevano grossi petardi, e, un poco alla volta, procedeva lo scavo che avrebbe accolto la strada. Non solo per i ciucci ma per le automobili e le corriere. A Vaglio passava il treno, e con l’autobus si poteva arrivare in mezz’ora alla stazione ferroviaria. Così aveva spiegato il maestro Caroviti.
Avvenne una settimana prima della festa di San Rocco. Sbagliarono con una mina, e un operaio restò storpiato. «Morirà?» domandai al maestro. «Non credo» rispose, «ma dovranno amputargli le gambe. È un segnale. Significa che qui, da noi, niente si deve muovere, tutto deve rimanere immobile, pietrificato».


Eravamo rimasti ai tre soldati tedeschi che avevo ammazzati. Non per cattiveria, per non finire ammazzato io al posto loro. Continuai la marcia trascinando il mio povero piede intirizzito. Il bosco stava per finire, e sempre più spesso dovevo attraversare il terreno aperto. Una volta avevo sbirciato sui miei fogli matricolari, e avevo visto che avevo la fronte bassa, che ero corto di statura (metri uno e cinquantotto centimetri), che avevo fatto la quinta elementare, e che i miei parenti erano bravi e onesti agricoltori. Ancora un poco, e avrebbero aggiunto che ero un somaro azzoppato. Sciocchezze. Dovevo stringere i denti. Non sapevo quanto fosse lontano il fronte, per fortuna i tedeschi si erano un po’ sbandati, ed era difficile che incontrassi un’altra pattuglia. Soffrivo la fame e il freddo: il freddo era peggio della fame. Guardai in alto: il sole si nascondeva e avanzavano soffici nuvole color cenere. Volterà a neve, pensai, e camminare nella neve sarebbe stato anche più faticoso. Sfarfallò qualche fiocco, poca roba, sembrò ripensarci e tirai un respiro di sollievo. So per esperienza che, dopo la neve, viene il ghiaccio, e allora basta un niente per scivolare e rompersi una gamba. Dovevo stare attento, ben attento...
E a un tratto fui scaraventato per aria nel mezzo di un bagliore arancione. Un boato coperse il mio urlo di sorpresa. Ricaddi a terra, e mi toccai per il corpo cercando possibili danni. Vuoi vedere che non mi sono fatto niente?, sperai. Forse. Ero sano e salvo. Quasi. Il piede addormentato era uno scatafascio: vedevo la pelle lacerata e schegge di osso che si affacciavano attraverso la pelle. Il sangue era poco, per fortuna. Non provavo dolore, mi ero maciullato un piede, e non avevo sentito male. Niente. Proprio niente. I casi della vita sono strani, e a me mi era capitato di calpestare una mina, mentre mi preoccupavo di non scivolare sul ghiaccio.
Che fare? Ero finito su un campo minato, perciò delle due l’una: o stavo immobile dove mi trovavo, e magari ci restavo sino al giorno del giudizio universale, oppure mi muovevo, e magari saltavo in aria per la seconda volta. Mi mossi. E saltai in aria per la seconda volta. L’esplosione massacrò l’unico piede che mi era rimasto sano, e anche la gamba: vidi parecchio sangue, questa volta, e i lembi di pelle appesi come cenci, i frammenti di osso, le chiazze del midollo. Palpitava sotto i miei occhi la mia povera materia umana che si squagliava in cancrena. In frana. Sono morto, pensai, e persi i sentimenti.
Rinvenni che era notte. Non era passato nessuno, che so?, un orso, una volpe, un lupo o, se era passato, mi aveva scambiato per un cadavere, e le bestie, si sa, non toccano i morti. Me ne devo andare, mi dissi, a tutti i costi, se rimango qui creperò prima per il freddo e dopo per le ferite. Nello sfacelo delle gambe, mi ero salvato un ginocchio, e, stando carponi, mi appoggiai su quello: sì, mi reggeva, l’importante che non facessi troppa forza, che procedessi piano piano, e ogni dieci o venti metri tirassi il fiato. Ecco: mi ero proprio ridotto come un animale, pure io a quattro zampe, pure io che guardavo solo a terra o di lato, come i ciucci. Il cielo era proibito. Nella mia disgrazia ebbi una fortuna. Non nevicava più, di neve aveva fatto solo uno spruzzo, c’era luna piena, così almeno vedevo dove mettevo le mani e il ginocchio sano.... Ebbi la tentazione di ululare: per dare uno sfogo al dolore del corpo ma più dell’anima, ero ridotto come un ecce homo, ed ero disperato. Con il capo penzoloni e la mente piena di malefantasie, avanzavo. Sapevo solo che dovevo muovermi, e gli altri miei pensieri erano un mischia mischia da manicomio. Credevo di essere impazzito o di essere vicino a impazzire: ed era sorprendente che, nella follia, tutto mi apparisse chiaro, tutto trovasse una spiegazione. Quando straluccicava l’immagine di San Rocco, ringraziavo per l’attenzione, avevo salvato la pelle.
Ci vollero due anni per finire la strada nuova che portava al mio paese: di automobili ne passava sì e no una alla settimana, in compenso tutti i giorni la corriera scendeva alla stazione ferroviaria di Vaglio la mattina, e risaliva la sera. Ma nessuno partiva e nessuno arrivava. Chi partiva non era per ritornare, ma era per sempre. Gli emigrati si stabilivano in Belgio, in Germania, in America. Stava per trasferirsi in Belgio anche lo sfortunato che si era storpiato nella costruzione della strada nuova; il maestro Caroviti non si era sbagliato, e gli avevano amputato le gambe. Pover’uomo, era ridotto sulla sedia a rotelle, e si era scordato tutti i suoi progetti. Anche la fidanzata, una bella ragazza di Trivigno, lo aveva mollato. «Non lo so sino a dove è arrivata l’esplosione, e chi non è buono per il re, non è buono per la regina» gli aveva detto con amarezza, e si era promessa a un muratore di Accettura.
L’invalido passava il tempo sulla piazza, a osservare e ad ascoltare. Lo campavano i genitori, la pratica per un indennizzo o per una pensione non era andata a buon fine, a provocare l’incidente era stato lui stesso, con la sua negligenza. «Cornuto e mazziato» lui concludeva, quanto raccontava la sua storia. Altri, al posto suo, si sarebbero incattiviti, invece lui accettava con una santa pazienza la mala sorte. «Questo paese mi dovrebbe fare un monumento» disse una volta, «io sono il simbolo della immobilità e della impossibilità, la mia mutilazione appartiene a tutta la gente di qua: possono avere braccia e gambe, andare sopra e sotto, pregare e bestemmiare San Rocco, è come se fossero dei carcerati, se non vogliamo nascondere la verità. Io sono diroccato come il castello, ma qua sono tutti diroccati o, se tu preferisci, sono tutti esiliati, senza futuro e senza speranza ... Non se ne accorgono: sono morti prima di morire».
«É difficile dargli torto» commentò il maestro Caroviti, «anche se Mussolini sta preparando un radioso domani, e vorrebbe renderne partecipe ogni regione, ogni paese d’Italia. Lui dice». «Voi credete che ai mutilati ricresceranno le gambe?» domandai per sfottere. «Questo no rispose il maestro, «ma giurerei sull’altare di San Rocco che nel nostro paese non vi saranno più muti lati. Il segnale già c’è stato, già sappiamo che il mondo e la storia del mondo non ci riguardano. A meno che uno sia così pazzo da voler sfidare il destino…». A dispetto delle belle intenzioni del duce, l’invalido si incupì sempre di più: parlava sempre meno e trascurava l’igiene, spandeva cattivo odore, forse perché la sua mamma nel frattempo era morta, e non c’era un’anima che lo accudisse. Si faceva compagnia con un gattone ti grato, lo aveva chiamato Ploscio Mirabile, lo teneva in grembo, sulla coperta che nascondeva la mancanza delle gambe; e gli diceva i complimenti, in una lingua gattesca di sua invenzione. Misc misc, baròl, lupatìn… si capiva solo lui quello che gli usciva di bocca. Purtroppo qualcuno acchiappò la povera bestia, e la impiccò davanti alla casa del mutilato, di notte, quando non si poteva scoprirlo. La mattina dopo l’invalido, come spalancò l’uscio, trovò il misfatto, e, senza vergogna, scoppiò a piangere… «Un gesto crudele» osservò il maestro Caroviti, «però lo avevano avvertito che il Maligno si era insinuato in Ploscio Mirabile. Non che io creda al Diavolo, tuttavia succedono strane cose nel nostro pezzo di mondo. Ci sono le possessioni e c’è il destino».


Procedevo carponi come un gatto, ma non altrettanto silenzioso. C’era pericolo che il Maligno ora si insinuasse dentro di me, che di umano non avevo più niente, e che mi muovevo a quattro zampe, tale e quale a una bestia. Era notte, questo è sicuro forse la terza o la quarta notte che strisciavo. Il freddo oramai non lo sentivo più, e non perdevo più sangue. Al modo dell’invalido del mio paese, anch’io spandevo cattivo odore, non era solo la porcheria che mi insudiciava, erano le ferite che cominciavano a marcire. Colava pus dalla mia gamba e dal mio piede. Ero marcio anche nella testa. A che serviva trascinarmi, sperando in un soccorso, in un aiuto? Nessuno si sarebbe avvisato di me, e nessuno mi avrebbe dato una mano, tanto valeva che mi lasciassi schiattare, risparmiandomi lo strazio di avanzare, poggiando sulle mani e su un solo ginocchio. Le mani erano piagate, e il ginocchio nemmeno osavo guardarlo: e poi, per guardarlo, mi sarei dovuto capovoltare, una terribile fatica che non potevo affrontare... Meglio che continuassi come una serpe, affidandomi alla clemenza di Satana, considerata la scarsa disponibilità di San Rocco. Si vede che la sua specialità era la peste, della guerra si faceva un baffo.
C’era tutto un fruscio intorno a me: di frasche che calpestavo, di uccelli notturni che volavano via, di vento che portava polvere e gelo. Stava zitta solo la luna. Non potevo vederla. A faccia in giù, mi specchiavo nel fracidume dell’erba, delle foglie, del fango. Indugiai accanto a una pozzanghera, speravo di sorprendere il riflesso della zoccola celeste: trovai soltanto una luminosità maggiore, e poi, tac, qualche cosa mi cadde accanto, per un pelo non mi beccò sulla testa, era lei che aveva sputato, ne sono sicuro. Sollevai il capo, lo sollevai per quanto consentito dalle mie ultime, estreme energie, e di guardare sino in cielo a me non mi riuscì, però vidi nel buio di fronte un’ombra ancora più scura. Forse una casa, forse una masseria.
Ero sfinito. Scivolai nella pozzanghera, e (non so come fu) persi i sentimenti un’altra volta, poi per la spossatezza, mi addormentai. Sognai.
So che tutte le donne del paese reclamavano che fossi impiccato. Le giovani e le vecchie, che erano le più toste, sebbene avessero nel ciclamino della bocca un solo dente, un grosso incisivo superiore, ingiallito. Io non volevo essere appeso, e, per scolparmi, ripetevo: «Misc misc, baròl, lupatìn…», però pensavo pure che, se parlavo così streuso, nessuna mi capiva. «Già ne abbiamo uno senza gambe» gridò la più strega, «e la municipalità non si regge se i maschi non tengono gamba». Apparve il maestro Caroviti, vestito da cavaliere antico, però in groppa a un ciuccio. Fece un discorso alle donne: «Voi avete la possessione diabolica, perciò volete impiccare un povero cristiano, come se fosse un gatto…» Le megere, in coro, salmodiavano: «Coda del demonio, coda del demonio…». Caroviti proseguì: «E non facciamo questioni di gambe, perché, lo sapete meglio di me, quando mai il nostro paese ha avuto le gambe? Noi siamo lontani, appartati, maledetti, dove mai ci dovrebbero portare le gambe? Potessimo scendere sino alla stazione di Vaglio (ma la distanza è tanta, e in pochi reggerebbero al cimento), non passerebbe treno per noi, e, se pure passasse, non avremmo biglietto, non ci permetterebbero di salire, ci lascerebbero ad aspettare qualche cosa che non si compirà mai. Ecco perché non abbiamo le gambe…».
Mi svegliai con un rantolo. Era giorno pieno, e io ne vedevo la luce sfarzosa, uno squillo di tromba, e vedevo vicino al mio viso due paia di stivali neri. Erano stivali militari. Mi sforzai di guardare più su, e c’erano due uomini in divisa, uno italiano e un altro tedesco, discutevano di me e del mio destino con insolita pietà. Mi davano per spacciato. «Tirare colpo alla nuca» suggerì il tedesco, «risparmiare inutili sofferenze disgraziato…». «Proprio non c’è speranza di salvarlo?» dubitò l’italiano. «A me pare che respiri ancora, così, se lo accompagnassimo all’ospedale…». «Arrivare già morto all’ospitale» obiettò il tedesco.
Quanto durò quella discussione, non lo so, non me lo ricordo. Vi fu una coincidenza, come succede nei romanzi, e perciò non la racconto, perché non vorrei non essere creduto. Ancora mi addormentai o persi i sentimenti, e lottai non so per quanto con un cinema di colori assordanti e di suoni rossi, infuocati. Misc misc, baròl, lupatìn…, a me mi martellavano le tempie e, quando, come se mi arrampicassi per una scala a chiocciola, quando uscii dall’incubo, e tornai ad afferrarmi alla vita, mi sentii diverso. Leggero, alato, non ero più quello di prima.
Ero in un ospedale, e un infermiere mi informò, senza tanti complimenti. Mi avevano tagliato le gambe.


Il maestro Caroviti morì pochi anni dopo la fine della guerra. Morì di polmonite, ma fu anche il dispiacere di non aver azzeccato la profezia sui mutilatati, che non ce ne sarebbero stati altri al nostro paese. Invece ero arrivato io, ma forse avevo sfidato il destino, e la mia sventura me l’ero fabbricata con le mie mani. Per qualche tempo volli che parcheggiassero la mia carrozzella accanto a quella dell’infortunato. Lui si era procurato un altro gatto, e gli faceva i soliti discorsi gatteschi; io contavo sulla punta delle dita. Contavo: la festa di San Rocco, i paesi in frana come Campomaggiore vecchio, gli sputi della luna nel bosco, il diavolo e gli spiriti maligni, Carlo Levi e il suo libro, l’acquasala e gli strascinati, la corrente elettrica che andava e veniva, l’immobilità, il silenzio, la cappa azzurra del cielo, l’esilio, l’abbandono, la corriera che portava alla stazione di Vaglio… Ma non partiva e non arrivava nessuno.
Fui io che me ne andai, un giorno. In un altro posto (l’importante non era dove, l’importante era che fosse un altro posto). Caroviti era morto ed erano morti i miei genitori, non c’era ragione per rimanere. Studiai, più in là della quinta elementare; ebbi responsabilità pubbliche: protestai contro il terrorismo sudtirolese e contro chi lo esaltava; fui stimato e onorato come uomo di buona volontà. A parte le decorazioni, non fui diverso dagli altri. E dimostrai – alla gente e a me stesso – che è possibile camminare, anche se ti hanno amputato le gambe. Ma quando ricordo il mio paese, non ho ancora capito se ho voltato le spalle all’inferno o al paradiso.
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