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personaggi 3/2015
Storie di chi si è dato coraggio

Peltechian Giovan Battista Peltechian

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Di origine armena, cittadino italiano di elezione, sottufficiale animato da profondo amore per l’Italia, già distintosi in precedenti azioni, si offriva con vero entusiasmo per essere aviolanciato in territorio nemico a capo di una rischiosa missione informativa. Dopo un periodo di proficua attività, tradito e catturato, veniva sottoposto a inumane torture e a estenuanti interrogatori, mantenendo virilmente inalterata la sua fede per l’Italia, rendendo vano ogni tentativo di carpirgli notizie e respingendo sdegnosamente ogni offerta di passare al nemico per aver salva la vita. Condannato a morte unitamente ai suoi compagni di missione, dinanzi al plotone di esecuzione il suo pensiero rimaneva fermamente rivolto all’Italia, alla famiglia e ai propri dipendenti. Al cappellano che lo assisté negli ultimi momenti e in nobili lettere dirette alla madre e ai superiori, confermava le sue magnifiche doti di soldato, dichiarando che egli e i suoi compagni morivano contenti per il dovere compiuto e raccomandando alla madre di non rimpiangerlo. Fulgido esempio di virtù militari e di completa dedizione alla Patria.

Medio Oriente, luglio-settembre 1942


Eghinlian Clemente Eghinlian

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Di origine armena, cittadino italiano di elezione, profondamente devoto all’Italia, si offriva con vero entusiasmo per essere aviolanciato in territorio nemico per rischiosa missione informativa. Dopo un periodo di proficua attività, tradito e catturato, veniva sottoposto a inumane torture e a estenuanti interrogatori, confermando virilmente inalterata la sua fede per l’Italia, rendendo vano ogni tentativo di carpirgli notizie e respingendo ogni offerta di passare al nemico per aver salva la vita. Condannato a morte, dinanzi al plotone di esecuzione il suo pensiero rimaneva rivolto all’Italia, alla famiglia e ai suoi superiori. In una nobile lettera indirizzata al fratello alla vigilia della morte, confermava le sue magnifiche doti di soldato, dichiarando che egli e i suoi compagni avevano la coscienza tranquilla davanti a Dio e che morivano contenti di aver compiuto interamente il loro dovere. Fulgido esempio di virtù militari.

Medio Oriente, luglio-settembre 1942


Peltechian Riccardo Guruzian

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Di origine armena, cittadino italiano di elezione, profondamente devoto all’Italia, si offriva, con vero entusiasmo, per essere aviolanciato in territorio nemico per rischiosa missione informativa. Dopo un periodo di proficua attività, tradito e catturato, veniva sottoposto a inumane torture e a estenuanti interrogatori che sopportava virilmente, confermando inalterata la sua fede per l’Italia, rendendo vano ogni tentativo di carpirgli notizie e respingendo sdegnosamente ogni offerta di passare al nemico per aver salva la vita. Condannato a morte, dinanzi al plotone d’esecuzione, il suo pensiero rimaneva rivolto all’Italia, alla famiglia e ai suoi superiori, dichiarando di morire contento di aver compiuto interamente il proprio dovere. Fulgido esempio di virtù militari.

Medio Oriente, luglio-settembre 1942




Le vite di Giovan Battista Peltechian, di Clemente Eghinlian e di Riccardo Guruzian sono perfettamente parallele, e identica ne è la conclusione. Le rispettive famiglie provengono dall’Armenia e invano cercano di mettere radici in Turchia: fuggono o sono espulse sotto la spinta della guerra 1914-1918 e riparano nei possedimenti italiani dell’Egeo. Battista, Clemente e Riccardo si italianizzano, anche legalmente: nondimeno la matrice medio orientale li rende cogniti di altre civiltà e di altre lingue, specie l’arabo e il turco. La guerra fa di loro candidati ideali per svolgere attività informativa nella Siria, presidiata dalle truppe di De Gaulle. Trasferiti all’Ufficio Informazioni del Comando Superiore delle FF.AA. dell’Egeo, vengono lanciati con il paracadute nei pressi di Aleppo e, per un poco, riescono a trasmettere preziose notizie. Catturati per effetto di una delazione, sono imprigionati e torturati barbaramente, ma rifiutano ogni forma di collaborazione con il nemico. Nel settembre del 1942 sono fucilati alla schiena, come si fa con i traditori.La Medaglia d’Oro – per tutti e tre – arriva soltanto a guerra finita da un pezzo, ed è accordata dopo le sollecitazioni del generale Bandini che, da colonnello all’epoca dei fatti, aveva già inoltrato le proposte di ricompensa poi andate disperse a causa degli eventi bellici. Dei tre eroi si sa pochissimo. Il più noto è Peltechian, il capopattuglia, la cui mamma, aiutata dal Sifar, nel maggio 1961 riesce a far traslare la salma del figlio e quella dei compagni in una cappelletta del cimitero di Velletri. La signora Peltechian, meglio conosciuta come signora Lucia, scompare nel 1974 ma, qualche anno prima, dovendo affrontare un ricovero in ospedale, aveva chiesto che i carabinieri custodissero un prezioso violino Stradivari di sua proprietà. Il singolare episodio è sembrato meritevole di un’interpretazione che, fantasiosa in alcuni dati marginali, cerca di leggere nel cuore di una vecchia, purtroppo consegnata soltanto ai ricordi.


Antigone di Armenia di Giampaolo Rugarli
... che lor signori, Eccellentissimi Carabinieri di Velletri, vogliano verbalizzare le mie dichiarazioni, a me sembra piuttosto strano: io non sono né una denunciata né una denunciante, sono una povera vecchia che sta per essere ricoverata in ospedale, e che chiede tutela per un oggetto che le è caro. Un violino: per me significa molto, forse tutto. Io vivo alla periferia della città, in una casa appartata: sono sola, ho perduto prima mio marito e poi il mio unico figlio. Molti anni fa. Ieri sono stata investita da un’automobile, e sono stata ferita a una gamba: il medico mi ha prescritto un periodo di cura e di osservazione in clinica, ha detto che bisogna accertare l’entità del danno. Non credo di dover spiegare ai Carabinieri che purtroppo esistono i ladri: dove abito io, è normale che si infilino negli appartamenti disabitati e facciano razzia. Potrebbe succedere anche a me e, se dovessero rubare le mie cianfrusaglie, saprò rassegnarmi; non dico di vivere in miseria, vivo con i soldi contati e devo badare a quello che faccio. Ma il violino nessuno dovrà permettersi di toccarlo. Così ho pensato di affidarlo alla custodia di lor signori, che hanno il compito istituzionale di vegliare sulla incolumità delle persone e sulla sicurezza delle cose. Come dice, signor capitano? che sarebbe meglio se cominciassi a raccontare dal principio? Dovrà avere una bella dose di pazienza, perché la mia è una storia lunga.
Mi chiamo Zambul Hagingian, ma qui tutti mi conoscono come Lucia. Provengo da una terra dimenticata. Sono armena, e armeno era mio marito Giovanni Peltechian. Era un commerciante, guadagnava bene. Abitavamo a Burdur, in Turchia, e nel settembre del 1914 nacque Battista, il nostro unico figlio. In quello stesso tempo, scoppiò la prima guerra mondiale, e fummo costretti a fuggire, a precipizio: portammo il poco che si poteva, le cose di maggior pregio, e mi colpì che il mio compianto consorte considerasse il violino più prezioso di tutto il resto. «Che vuoi che sia?» gli dissi. «Non è che un vecchio liuto scassato... non farebbe gola neppure a uno zingaro. Ha un valore affettivo – rispose mio marito esitando – e, sai com’è, quando a un oggetto vuoi bene, non lo cedi a nessun prezzo». «Non sai neppure suonarlo» lo derisi ma con affetto, e lui mi confidò che non lo sapeva suonare materialmente, ma che, nel cuore, ogni notte ne toccava le corde, e ritrovava la musica della nostra gente. Fuggimmo a Rodi, e fu la nostra salvezza. Se fossimo rimasti a Burdur, ci avrebbero ammazzati: devo ancora capire perché ce l’avessero con noi. Forse perché noi siamo cristiani monofisiti e loro sono musulmani, ma non è una buona ragione. Disgraziatamente non accade di rado che un popolo cerchi di sterminare un altro: è un crimine che si chiama genocidio, ho imparato, e gli ebrei ne sanno più di ogni altro, detengono un primato orribile che spero non venga mai superato. Sarei tentata di inveire contro, chi ci perseguitavano, ma dovrei imprecare contro tutti quelli che, di tempo in tempo, si macchiano della vergogna di uccidere i diversi, o i ritenuti diversi, perché in questa valle di lacrime, siamo tutti egualmente smarriti. Gli assassini sono tanti, sono troppi: meglio stendere un velo, signor capitano.
Rodi era governata dagli italiani, e gli italiani sanno essere brava gente. Fummo accolti con generosità, e dell’Italia facemmo la nostra seconda patria, anzi la nostra patria, perché l’Armenia non esisteva più se non nei ricordi. Mio marito morì: era ancora abbastanza giovane, lasciò un libretto di risparmio con diecimila lire e un bric-à-brac di vecchie cose, io e il mio ragazzo non avremmo conosciuto la ricchezza. Saltarono fuori libri, quaderni scritti in modo fitto e minuto, documenti (ivi inclusa una fede di battesimo), fotografie, lenti di ingrandimento, svegliarini, penne e matite. E saltò fuori il violino. Guardarlo mi metteva malinconia. Lo riposi in un cassetto, con amore: mi chiesi se, di notte, avrei riscoperto anch’io la musica della nostra gente.
Scoppiò la seconda guerra mondiale. Le risparmio la mia professione di pacifismo: sono o più esattamente ero una mamma, e le mamme sono pacifiste per natura. D’altronde, se vi sono problemi di sovrappopolazione, forse bisognerebbe cercare di risolverli evitando di mandare i poveri diavoli al massacro. Battista, mio figlio, aveva sgobbato per non diventare un povero diavolo. Si era interamente italianizzato, e parlava italiano come se fosse stato la sua lingua: parlava anche il turco, l’arabo, l’armeno occidentale e un tantino di francese. Aveva studiato, era ragioniere. E aveva un discreto posto: era funzionario del Ministero dell’Agricoltura, distaccato nell’Egeo. Ma fu mandato a fare la guerra. Prima di partire, mi fece una curiosa richiesta: volle rivedere il violino che era stato del padre e, quando lo ebbe davanti, lo sfiorò con le dita. In quel gesto mi sembrò di cogliere un presagio.
Furono mandati a fare la guerra anche Clemente Eghinlian e Riccardo Guruzian: avevano la stessa età e la stessa storia di mio figlio (erano armeni, erano stati espulsi dalla Turchia, ed erano diventati cittadini italiani). Non so se i tre fossero amici: certamente si conoscevano, ed ebbero occasione di conoscersi sempre di più, accomunati dallo stesso destino. Quel destino volle che fossero aviolanciati in Siria, dove i francesi di De Gaulle facevano il bello e il cattivo tempo. Come dice, signor capitano? Che la parola ‘aviolanciati’ sulla mia bocca ha un suono inverosimile? Lei ha ragione, e io non mi esprimerei mai così, tutt’al più potrei parlare di lancio con il paracadute, ma quella terribile parola io l’ho imparata dalla burocrazia militare, e di tanto in tanto me ne servo. È un militare lei pure, non dovrebbe stupirsi.
A partire da questo momento, la storia la conosco per sentito dire, e sono sicura che le circostanze più dolorose mi sono state taciute. Conservo una lettera di mio figlio (la sua ultima lettera) e, se lei me lo permetterà, glie la leggerò. Adesso mi preme convincerla che Battista non era né un pazzo né un fanatico: amava la vita, e c’era una ragazza, Anna, alla quale voleva molto bene. Credo che lui e Anna avessero progetti, per il futuro. Non ho ancora capito, e forse non capirò mai, se fu aviolanciato per una sua scelta o per un altrui comando: e lo stesso dilemma mi pongo per Eghinlian e per Guruzian. Nella primavera del 1942 partirono tutti e tre dall’aeroporto di Rodi e furono paracadutati nei dintorni di Aleppo: che cosa dovessero scoprire da quelle parti, per me rimane un mistero.
Lei è mai stato ad Aleppo, signor capitano? Io sette volte, e ne ho un ricordo terribile, sebbene la città sia bella, gloriosa, con la sua cittadella, la sua Grande Moschea e, niente meno!, la sua Madrasa del Paradiso, che sarebbe un luogo di studio e di preghiera. Il fatto è che ad Aleppo non mi recavo da turista, ma per una mia privata missione di pietà e, per pagarmi i viaggi, mi indebitavo ... Sto correndo troppo avanti. Mio figlio e i suoi compagni, giunti in Siria, cominciarono a studiare la situazione, e a trasmettere notizie al Comando Italiano: spiavano, in parole povere. Il mestiere o la missione delle spie mi ha sempre affascinato, perché, tolti i casi in cui si agisce per vile denaro, la medaglia presenta due facce che si contraddicono a vicenda: dal punto di vista del committente, l’agente segreto è un fulgido eroe, mentre, dal punto di vista della vittima, è un traditore meritevole della pena di morte. Tutt’e due le opinioni sono legittime. La miglior cosa sarebbe che non vi fossero segreti, ne guadagnerebbe la pace del mondo.
I tre ragazzi, agirono per poco. Li beccarono già nel mese di luglio. Il peggiore inconveniente dello spionaggio è proprio questo: spiare non basta, bisogna anche stare attenti a non essere spiati. Furono incarcerati e furono interrogati, ripetute volte. Questa è la parte più dolorosa del mio racconto, perché gli inquisitori, pur di ottenere risposta, non si fecero scrupolo di ricorrere alla tortura. Si è avuta pietà di me, e questo capitolo mi è stato riferito solo sommariamente, e io non ho osato approfondire: so che i prigionieri furono lasciati senza acqua, senza cibo, che furono brutalmente percossi, che furono abbandonati sotto un sole canicolare, che furono privati del sonno.
Mi fu rivelato un particolare orribile, a proposito del mio Battista. Mentre lo tormentavano, chiese un sorso d’acqua. Con una baionetta gli squarciarono un braccio, fecero stillare il sangue che, raccolto in una tazza, gli venne offerto come bevanda. Battista non bevve. E nemmeno confidò i segreti che volevano carpirgli, imitato da Eghinlian e da Guruzian: nessuno dei tre parlò, e d’altronde nessuno dei tre conosceva notizie di alto interesse strategico. Poveretti. Non erano che pedine sulla scacchiera e, si sa, al gioco degli scacchi le pedine son fatte per essere immolate. Gli aguzzini ci provarono con le buone: promisero mari e monti, pur di essere edotti dei progetti del Comando italiano. Niente da fare. E poi è difficile che le semplici pedine siano al corrente di ciò che si vuole in ‘alto’.
Furono fucilati, nella schiena. Si fa così con i traditori, pur se il tradimento consiste nel rifiuto di tradire. Le ho già detto, signor capitano, che mio figlio mi scrisse una lettera e la lettera mi giunse per il tramite del Cappellano militare francese officiato di assistere i condannati. Quel pezzo di carta lo porto sempre con me, sebbene le parole oramai le rammenti a memoria. Battista scrisse così: «Carissima Mamma, Ti mando l’ultimo addio; muoio contento perché ho la coscienza tranquilla di non aver fatto alcun male. Non mi rimpiangere perché muoio per fare il mio dovere. Perdonami se qualche volta sono stato cattivo e prega Dio per noi. Con me muoiono pure i miei compagni... Saluta i miei superiori e fa leggere questa lettera pure a loro. Saluta tutte le famiglie Armene e particolarmente Anna. Tuo figlio Battista Peltechian». Feci tutto quanto lui desiderava, però non mi riuscì di non rimpiangerlo.
A guerra finita, l’amministrazione militare decise che Battista, Eghinlian e Guruzian erano stati tre eroi e che avevano meritato la Medaglia d’Oro. E tutti e tre furono insigniti della decorazione o, più esattamente, ne fu insignita la loro memoria. Ebbi qualche soldo e una pensione, riuscii a comprarmi una casetta. Ma, vede signor capitano, le mamme considerano le cose in modo meno aulico, più pedestre: certo, fu una grande gioia e fu un grande conforto sapere che di mio figlio si voleva rendere immortale il ricordo, nondimeno continuava a straziarmi il rovello circa la sorte delle sue spoglie, rimaste in terra ostile (se pure erano rimaste), abbandonate chi sa dove, prive di fiori, di preghiere, di lacrime. Non mi davo pace. E alla fine decisi che quelle povere ossa dovevano ritornare in Patria: la Patria alla quale mio figlio aveva immolato i suoi ventotto anni.
Rodi non era più italiana, e io già da tempo mi ero trasferita a Velletri. Fu una fortuna abitare a due passi dalla capitale: non sarei venuta a capo di niente, se mi fosse mancato l’aiuto della burocrazia che trasforma in carta tutti i fatti della vita, anche i più dolorosi, ma non può fare altrimenti (nei cimiteri si seppelliscono gli uomini, negli archivi le loro storie). Dovetti recarmi ad Aleppo e, come le ho detto, ad Aleppo diventai di casa, o quasi: però l’ultima volta ritornai in Italia accompagnando tre bare. Per pagarmi l’andirivieni, dovetti chiedere un mutuo e ipotecare la casa. Non mi vedranno mai più: sono sicura che non mi rimpiangeranno, come io non rimpiangerò loro.
Mio figlio e i suoi compagni furono sepolti a Velletri, nel 1961: i loro resti riposano in un tempietto e io, appena mi è possibile, porto fiori, preghiere e lacrime. La traslazione delle salme nel cimitero di Velletri avvenne con solennità; e lo Stato sostenne tutte le spese: vi fu un corteo, vi furono discorsi, musiche di circostanza, applausi, benedizioni, preci, labari, stendardi, vessilli... Insomma: furono tributate tutte le onoranze che ai morti non servono a nulla, e che ai vivi attenuano il rimorso di approfittare dei morti. Non voglio giudicare con amarezza: mi aiutarono in molti a riportare mio figlio a casa, e io sono grata a tutti. Sono grata specialmente al colonnello Bandini, che si adoperò per la concessione della Medaglia d’Oro, e al tenente Ruffo, che per due volte venne con me ad Aleppo.
Il tenente Ruffo di tanto in tanto lo rivedo anche adesso, sebbene non sia più nell’esercito. È un pianista apprezzato, e ha voluto seguire la sua vocazione. Ed è anche un uomo di cultura, una eventualità difficile in questi tempi di televisione e di gare canore. Il tenente Ruffo, quand’io facevo la spola tra Roma e Aleppo, ebbe a dirmi che gli ricordavo Antigone, che io ero una Antigone di Armenia. Restai in forse. Non ero mai stata chiamata Antigone, e mi sarebbe dispiaciuto se, sotto quel nome sconosciuto, si fosse nascosto un insulto; ma Ruffo non aveva ragione per ingiuriarmi, era giovane, poteva essere mio figlio, e io guardavo a lui come a un figlio. «Che cosa è questa Antigone?» brontolai. «Io arrivo dalla lontana Armenia, e il vostro Dante mi è noto di seconda mano: tuttavia Dante si occupa di una Taide che è passata in proverbio... Mi dispiacerebbe se Antigone fosse della stessa famiglia di Taide». «Ma che cosa dice?» scoppiò a ridere il tenente Ruffo. In quattro parole mi spiegò che Dante era fuori causa e mi raccontò la tragedia di Sofocle.
Certo, Polinice non aveva avuto sepoltura, in nessun modo, ed era stato abbandonato all’oltraggio dei corvi, però Battista, Eghinlian e Guruzian erano insepolti nella memoria, e giacevano in terra straniera, dimenticati, ignorati, additati come traditori che avevano meritato il piombo del plotone di esecuzione. Gli avevano sparato nella schiena, e chi sa se erano morti fulminati o se proiettili malaccorti, al supplizio capitale, avevano aggiunto altri tormenti. Ruffo mi spiegò (e non sbagliava, ne sono sicura) che la questione non è di dare una qualsiasi dimora a chi ci ha abbandonati: una tomba non basta, e forse non è neppure necessaria. Occorre la pietà dei vivi, com’è scritto da sempre nelle leggi divine e umane. Antigone esige che la regola non venga infranta, e io stessa, senza rendermene conto o rendendomene conto confusamente, volevo misericordia per quei morti lontani, consegnati all’oblio che morde più crudelmente degli avvoltoi.
Non sorrida di me, signor capitano: so benissimo di non essere una eroina di Sofocle, e di essere soltanto una povera vecchia. Tuttavia mi consola che mio figlio sia sepolto non lontano da casa, e alla morte mi riesce di pensare con dolcezza: Battista si è addormentato prima di me, nient’altro. I mobili, gli oggetti di casa, il violino riposto in un cassetto, a volte, nella penombra della sera, mi illudono che gli anni non siano passati, e sento accanto a me le voci di mio marito e del mio bambino. Lei penserà che io farnetichi: eppure, i giorni di pioggia, quando le gocce tintinnano sulle tegole, mi avvolge e mi trascina non so che musica, e io cedo a una dolcezza estenuata, magica. Credo di lambire il mistero del mondo, e mi illudo di essere prossima a una rivelazione che indicherà il vero senso delle cose, persino del piombo che crivellò la schiena di mio figlio. Una breve emozione, anzi una breve allucinazione. Che passa. Resta la pioggia sul tetto: non tintinna più ma crepita. Come una scarica di fucileria. Mi confidai con il tenente Ruffo, e quel bravo ragazzo non fece nessun commento, solo mi accarezzò sui capelli. I miei capelli già grigi e spenti. Non so come e perché, avevo scartabellato tra le cose che erano state di mio marito, avevo aperto alcuni cassetti, ed era riapparso il violino. Ruffo forse non lo aveva mai visto o forse non lo aveva mai guardato con attenzione. Mi chiese il permesso di esaminarlo. «Può esaminarlo quanto vuole» acconsentii. Aggiunsi: «Non è che un vecchio liuto, scassato a scordato, temo che neppure il diavolo riuscirebbe a suonarlo. Glie ne farei volentieri un presente, e sarebbe un presente umilissimo: ma era caro a mio marito, e anche a mio figlio, non posso privarmene».
Ruffo toccò il violino con la punta delle dita, lievemente, rispettosamente, religiosamente: infine osò sollevarlo. I suoi occhi esprimevano una meraviglia crescente. «Io non sono un intenditore – disse al termine del suo esame – ma questo strumento potrebbe essere uno Stradivari... Del tipo toscano, quello più lungo del modello di Amati. L’acero rosso, il colore delle lacche, il nome ‘Chirone’ segnato sulla tavola... sono tutti elementi che fanno pensare alla scuola cremonese. Potrebbe essere opera se non di Antonio Stradivari, quanto meno del figlio Omobono, ma, insomma, bisognerebbe chiedere il parere di un esperto». «Perché?» domandai. «Perché – rispose Ruffo – se la mia ipotesi fosse esatta, questo violino avrebbe un valore inestimabile e lei sarebbe immensamente ricca». «Che cosa vuoi dire ‘immensamente ricca’?» buttai là con scetticismo. «Potrei pagare le due rate di mutuo che ho in arretrato e magari comprare un frigorifero nuovo?». Ruffo scoppiò a ridere. «Potrebbe comprare un castello – spiegò – e altro ancora».
Fu effettuata una perizia, e poi ne fu compiuta un’altra che ebbe la solennità di una sentenza resa da un’alta Corte di Giustizia. Il responso fu unanime: il violino era stato fabbricato da Antonio Stradivari. La voce – che era stato scoperto uno Stradivari – girò tra musicisti, collezionisti, antiquari e, a mia insaputa, iniziò una sorta di asta tra i possibili acquirenti. Ruffo volle mettermi al corrente del chiasso che era sorto: anzi, mi consigliò di vendere. «È uno strumento prezioso – spiegò – quasi unico, e quindi andrebbe assicurato. Succede di tutto, nella vita: furto, incendio, alluvione, i pericoli sono infiniti. Ma una polizza costerebbe un patrimonio, e certo non le permetterebbe di custodire un simile tesoro in un cassetto della credenza. Una compagnia di assicurazioni, come minimo esigerebbe inferriate, porte blindate, antifurto, cassaforte e tutto il resto. Altre spese da capogiro. Invece, se lei vendesse, si affrancherebbe da questi fastidi, e realizzerebbe un capitale. Un enorme capitale. Potrebbe estinguere il mutuo in via anticipata e comprare dieci frigoriferi. Ma che dico? Potrebbe trasferirsi a Monte Carlo, e dividere il suo tempo tra il Caffè e il Casinò». «Non sono mai stata a Monte Carlo – obiettai – e non credo che mi piacerebbe. Mio figlio è sepolto qua, e io non intendo abbandonarlo. Naturalmente mi farebbe piacere di avere qualche soldo in più, ma, prima di decidere, vorrei poter riflettere... Sono consapevole che, nel mondo di oggi, niente è più importante della ricchezza, solo che sfortunatamente appartengo a un’altra generazione. Al tempo della mia gioventù, il mezzo di trasporto abituale era la carrozza tirata dai cavalli, mentre adesso è l’automobile. E io non so guidare l’automobile». «Comprendo il suo pensiero» approvò Ruffo, «e sono d’accordo con lei che la ricchezza va guidata e che bisogna saperla guidare... Tuttavia esistono i consulenti finanziari e i dottori commercialisti: sinceramente, da amico, non sbatterei la porta in faccia alla fortuna». «Sinceramente, da amica» replicai, «vorrei un po’ di tempo per ragionare».
Quella notte venne a piovere, signor capitano. Mi parve un segno del destino, e il crepitio delle gocce sulle tegole suonò più accanito, più rabbioso. Tolsi il violino dal cassetto, lo appoggiai sul tavolo dinnanzi a me e lo guardai con stupore. Non riuscivo a credere che potesse valere tanti soldi. Per me era un oggetto della mia casa, come il macinacaffè o il passaverdura. Apparteneva alla mia famiglia, alla mia vita. E, all’improvviso, rividi mio figlio che, prima di andare in guerra, aveva sfiorato con le dita il vecchio liuto, lo aveva quasi accarezzato. Avevo interpretato quel gesto come un presagio e, purtroppo, non mi ero sbagliata: tuttavia c’era dell’altro, c’era un messaggio, c’era la promessa che qualche cosa resisteva alle missioni aviolanciate, alle fucilazioni, alla guerra.
Signor capitano, il violino non volli venderlo. Ruffo rispettò la mia decisione, però pensò che ero matta. Lo pensarono in molti, e ora, lo crederà anche lei, tanto più che ancora combatto con le rate del mutuo e che il frigorifero non è cambiato. Forse, al termine del racconto, sarà più chiaro perché – alla vigilia del mio ingresso in clinica – voglia affidare il mio tesoro ai carabinieri: sono in molti, in troppi a sapere che, a casa mia, conservo uno Stradivari, così la mia assenza potrebbe indurre in tentazione. Non saprei a chi domandare aiuto, e mi mancano i quattrini per pagare una cassetta di sicurezza o una guardia notturna. I carabinieri sono la mia speranza e la mia salvezza. La prego, signor capitano. C’è un’ultima raccomandazione, che esprimo a voce, ma forse sarà opportuno che io la scriva, trattandosi di una volontà testamentaria: quando scoccherà il mio momento, il violino dovrà seguirmi nella tomba. Sarà un modo per ritrovarci, un’altra volta insieme, io, mio marito, mio figlio, ritornati tutti e tre nella dimenticata Armenia.
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