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punto di vista 2/2015

punto di vista Internalizzazione finanziaria
e globalizzazione

di Alessandro Pansa biografia

«Non credo di essere in grado di dire esattamente cosa sia la finanza, ma ho l’impressione che, nel sostenere la guerra contro di noi, le banche inglesi e la Borsa di Londra siano tanto temibili quanto la Royal Navy».
Non aveva tutti i torti il Generale Ludendorff, scrivendo al Maresciallo Hindenburg nei primi mesi del 1916. E avrebbe ancora più ragione oggi che la capacità del sistema finanziario di pervadere l’attività economica, la vita degli individui e le scelte di chi li governa è divenuta inarrestabile e, per molti versi, preoccupante.
Obiettivo di questo articolo è compiere una breve analisi delle conseguenze dell’internazionalizzazione della finanza intervenuta dalla metà degli anni 80 del Novecento: fatta di crescita dei mercati e di nuove gerarchie che si sono determinate al loro interno; di trasferimento di potere dai governi agli intermediari; di problemi di gestione delle politiche economiche; di legittimità delle scelte governative. Ci si chiederà in che misura è corretto che le preferenze dei cittadini – e l’esercizio della loro sovranità – siano limitate dal potere acquisito da un soggetto, il mercato dei capitali, che non ha un centro, non è caratterizzato da un processo decisionale controllabile e non gode di una legittimità adeguatamente strutturata. E se le bolle finanziarie, le successive crisi e le recessioni economiche generate dall’espansione dei mercati non abbiano messo in dubbio il processo di convergenza del mondo verso il sistema politico e sociale dell’Occidente, del quale è stata tante volte asserita la superiorità.
Non vi sono risposte definitive: si tratta di fenomeni assai complessi e soggetti a una rapida – e per certi versi non prevedibile – evoluzione. Un’analisi non troppo superficiale potrebbe, però, orientare scelte più strutturate ed efficaci.
L’internazionalizzazione finanziaria costituisce, insieme con quella della tecnologia, la vera discontinuità introdotta dalla globalizzazione. La libertà di movimento di persone e merci e la standardizzazione dei sistemi produttivi, pur avendo avuto di recente grande impulso, rappresentano in realtà processi avviati da tempo. L’espansione della tecnologia e della finanza no. Per decenni lo sviluppo della prima è dipeso da scelte politiche: investimenti pubblici in ricerca, protezione delle conoscenze per ragioni militari e di sicurezza in genere. Quello della seconda dall’attività industriale, nel senso che i mercati dei capitali erano funzionali all’investimento delle imprese e il loro compito era trasferire ai settori produttivi il risparmio generato in altri comparti della società.
L’economia finanziaria, in altre parole, era subordinata a quella reale, mentre i governi se ne servivano per sostenere i disavanzi pubblici e condurre politiche di welfare.
A partire dalla fine del secolo scorso le relazioni si sono invertite: si è trattato di un fenomeno al tempo stesso storico, nel senso di strutturale, irreversibile e fulmineo. La tecnologia – complice anche l’illusorio avvio di una stagione di pace e sicurezza seguita al disfacimento del blocco sovietico – si è trasformata da fattore endogeno a esogeno, assumendo caratteri di maggiore autonomia e minore controllabilità. Ma non è stato un processo determinato da scelte politiche consapevoli. La globalizzazione finanziaria, viceversa, è stata attentamente pianificata.
Storicamente, spiega Paul Kennedy, i principali interlocutori dei governi occidentali sono state le industrie dell’energia e della difesa (1). Da una trentina d’anni, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, il loro posto è stato, per molti versi, occupato dall’industria finanziaria. La quale ha spinto, per prime, le amministrazioni Thatcher e Reagan – e poi i loro successori che si sono di buon grado adeguati – a compiere due scelte fondamentali: la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la deregolamentazione dei sistemi finanziari. Simboli di queste decisioni sono stati il ‘Big Bang’, cioè la grande riforma della piazza finanziaria di Londra, e l’abolizione del Glass-Steagall Act, la legge bancaria americana introdotta da Roosevelt nel 1933. Scelte consapevoli e apparentemente di successo, che hanno assicurato alla capitale inglese il ruolo di centro finanziario più importante del mondo e consolidato il potere del sistema bancario statunitense.
Il resto del mondo non ha potuto far altro che adeguarsi. L’Italia – dove l’esportazione di capitali era stata addirittura dichiarata reato nel 1976! – ha, ad esempio, avviato nel 1989 un processo di liberalizzazione concluso in pochi anni. Al tempo stesso, la nascita dell’Euro potrebbe essere letta anche come una risposta alla globalizzazione: i paesi dell’Europa continentale hanno unito le loro strutture monetarie, consapevoli dell’impossibilità di proteggersi da soli dal vento della internazionalizzazione finanziaria. Un’interpretazione, questa ultima, che fornirebbe una spiegazione convincente della scelta del Regno Unito di non aderire alla moneta unica: la Gran Bretagna aveva molto da guadagnare gestendo in autonomia la liberalizzazione della finanza.
Nel giro di un paio di decenni, dunque, il mondo è passato:
dai vincoli ai movimenti di capitale alla loro circolazione;
da regolamentazioni bancarie nazionali e ‘dirette’ (in Italia la legge Bancaria del 1936) a regolamentazioni sovranazionali (oggi è la Banca Centrale Europea a essere incaricata della vigilanza bancaria) e indirette, secondo quanto previsto dagli Accordi di Basilea;
dalla specializzazione per funzione degli istituti di credito alla banca universale (che può concedere crediti tanto a breve che a medio/lungo termine) e mista (che può detenere anche partecipazioni in società industriali);
da una relazione diretta tra investimenti e risparmi nazionali alla dipendenza di aziende e governi dal mercato finanziario globale;
da sistemi bancari nazionali alla concentrazione internazionale delle imprese finanziarie, per sfruttare le economie di scala e di scopo presenti in un mercato con enormi tassi di crescita.
In parallelo, la dimensione del sistema è aumentata a un ritmo impres-sionante. Complessivamente, il valore delle attività finanziarie mondiali negoziate su mercati regolamentati si può stimare, a fine 2014, in circa 980 trilioni di dollari: dieci volte di più rispetto al 1995 e tre volte di più rispetto al 2007, primo anno della recente crisi. A fronte di un Prodotto Interno Lordo mondiale di quasi 80 trilioni. In realtà, mentre poco meno di un terzo circa di questo mercato è costituito da azioni, obbligazioni, prestiti bancari, in generale attività in qualche modo riferibili alla produzione di beni e servizi, circa 700 trilioni sono rappresentati da strumenti derivati: i quali poco hanno a che vedere con il sistema industriale e non potranno essere pagati con il rendimento degli investimenti poiché non sono stati loro a finanziarli e alla scadenza verranno sostituti con prodotti analoghi. La maggior parte del debito oggi in circolazione si rimborserà solamente creando nuovo debito.
Ciò non di meno è questo comparto, per così dire autoreferenziale, del mercato a determinare, in virtù della sua dimensione, i tassi d’interesse. Che sono, pertanto, del tutto sganciati dalla domanda di investimenti produttivi e dal rendimento di questi ultimi: gli sviluppi dell’economia reale sono determinati da strutture finanziarie poco o punto connesse all’attività industriale. E non più controllabili. Per certi versi, esse assomigliano a Internet, non hanno un centro sul quale agire e si compongono di così tanti attori che tentare di vincolarne il comportamento è inutile.
L’internazionalizzazione dei sistemi finanziari ha trovato sostegno culturale dalla ringiovanita teoria del mercato dei capitali come miglior sistema di allocazione delle risorse (2). Qualsiasi vincolo esterno ne avrebbe ridotto l’efficienza e meglio sarebbe stato consentire agli operatori di fare da soli. Così è stato: si sono moltiplicati i codici di autoregolamentazione e le norme di legge hanno subito l’effetto della ‘cattura’ dei legislatori da parte dell’industria finanziaria.
Si è pertanto creata, sui mercati, una gerarchia di soggetti:
gli intermediari (banche commerciali, banche d’affari);
i portatori di capitale ‘intermedi’ (investitori istrituzionali);
i portatori di capitale ‘puri’ (risparmiatori, istituzioni con saldi finanziari attivi: ad esempio, i paesi emergenti);
i prenditori di capitali (imprese non finanziarie e governi di paesi in deficit).
Il capitale, un tempo al centro del sistema (3), perde significativamente di ruolo, in questo contesto. Da un lato, esso diventa una sorta di ‘materia prima’: in quanto tale, vale poco perché la libertà di movimento lo rende praticamente infinito e acquista rilevanza solamente quando è in grado di generare un rendimento adeguato, cioè una volta ‘lavorato’ dalle banche che lo incorporano in attività finanziarie da emettere sui mercati. Dall’altro, il suo ritorno è definito dagli intermediari, i quali valutano il rischio di affidare i prenditori in termini relativi e non per la solidità del soggetto in sé o del suo progetto di investimento.
Sono gli istituti di credito a determinare l’accessibilità delle imprese al mercato, indipendentemente dal loro patrimonio di tecnologia, competenze, prodotti.
Si noti quanto ‘geniale’ – rispetto al principio della distribuzione del potere tra Occidente e resto del mondo – sia un sistema nel quale la rilevanza del processo di accumulazione del capitale – oggi concentrato nei paesi emergenti e in particolare in Asia e nel Medio Oriente – venga subordinata alla tecnologia finanziaria necessaria a rendere il capitale stesso produttivo, tecnologia che è a tutt’oggi una prerogativa delle banche statunitensi ed europee. Non sfugge che questa dominanza potrà un giorno costituire un elemento di conflitto e già oggi viene vissuta con fastidio da paesi come la Cina che stanno infatti tentando di affrancarsene attraverso la creazione di istituti indipendenti: un esempio recente è costituito dall’Asian Infrastructure Investment Bank. La globalizzazione finanziaria ha dunque scardinato la relazione tra risparmio nazionale e debito domestico: e i governi, di gran lunga i debitori prenditori, ricorrono al mercato per sostenere le loro politiche pubbliche. Essi dipendono dai grandi intermediari che valutano il rischio per conto dei portatori di capitale, collocano sul mercato il debito pubblico, ne fissano scadenze e rendimenti. A partire dagli anni 90, dunque, si è avviato un processo di trasferimento dai governi ai mercati del potere di determinare gli ambiti entro i quali i paesi sono finanziabili e fissare i vincoli delle politiche economiche e fiscali.
Si tratta di un’evoluzione da accogliere con favore e soddisfazione?
La valutazione va condotta tanto sul piano economico quanto su quello politico.
La teoria della globalizzazione finanziaria sostiene che i mercati stimolino i governi – e i sistemi che da essi dipendono – ad avviarsi su percorsi di progressiva solidità della finanza pubblica e rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese. La crescita economica, ordinata e duratura, che ne deriva consentirà di riassorbire gli eventuali squilibri sociali generati dalle politiche di stabilizzazione necessarie a intraprendere questo sentiero virtuoso.
La crisi finanziaria iniziata nel 2007 negli Stati Uniti ed esportata poi nel resto del mondo non ha solamente innescato una recessione industriale; ha, altresì, favorito una polarizzazione del mondo tra sistemi rispettosi dell’ortodossia finanziaria e altri considerati incapaci di mantenere gli impegni assunti con i creditori e quindi inaccettabilmente rischiosi per i mercati. Ai primi sono state assicurate, a tassi d’interesse vantaggiosi, risorse superiori ai loro fabbisogni; la scarsità di offerta di capitali e il loro elevato costo relativo hanno invece obbligato i secondi a perseguire politiche di rigore che hanno prodotto contrazione di consumi e investimenti, riduzione della domanda aggregata e conseguente indebolimento dei tessuti produttivo e sociale. Appare legittimo domandarsi se la globalizzazione finanziaria regga in condizioni di recessione.
In mercati dei capitali totalmente liberi, le tecnologie consentono di tradurre in comportamenti immediati le decisioni degli operatori e perciò di generare shock non compatibili con i processi di aggiustamento – necessariamente assai più lenti – dell’economia reale e delle politiche fiscali. L’intervento di istituzioni sovranazionali potrebbe, in questi casi, evitare che un giudizio negativo dei mercati si traduca, senza appello, in una crisi economica e industriale dalle conseguenze imprevedibili per il Paese che la subisce e anche dannosa per gli investitori stessi.
La capacità di autoregolamentazione dei mercati non è dunque scontata.
Da un punto di vista politico, il dilemma è ancora più intricato. I cantori della ‘virtù’ attribuita ai mercati ritengono che, non essendo necessariamente incorporato il principio della stabilità finanziaria nella funzione di preferenza dei governi, è un bene che questi ultimi siano soggetti a un vincolo esterno che condizioni le politiche pubbliche, riducendone la discrezionalità. Si tratta di un’affermazione impegnativa. Quanto e in che misura sono accettabili queste limitazioni per un governo eletto secondo procedure rispettose della sovranità popolare? Quanto incide tutto ciò sul concetto di democrazia liberale come si è affermato in Occidente negli ultimi due secoli? Di quale legittimità godono i mercati (e coloro che li gestiscono, cioè gli intermediari) per imporre i trasferimenti di reddito e ricchezza impliciti nelle politiche di stabilizzazione? E infine, quale dovrebbe essere il ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali – primo tra tutti il Fondo Monetario – nella gestione di questi processi? Watchdog, cani da guardia, dell’ortodossia di mercato o facilitatori di processi di convergenza più morbidi?
Non vi sono conclusioni univoche. Da un lato, l’inserimento di un sistema in un contesto di globalizzazione finanziaria deriva da trattati negoziati dal governo e ratificati dal parlamento, trattati che sembrano attribuire ai mercati un diritto implicito di condizionare le scelte politiche. Dall’altro, la strutturale lentezza di queste ultime – «la democrazia non corre, ci vuole più di un giorno per decidere del benessere dei cittadini», diceva Toqueville – è difficilmente compatibile con l’immediatezza delle sanzioni comminate da banche e investitori ai creditori inaffidabili. E solamente i paesi grandi e dotati di grandi ricchezze sono in grado di confrontarsi con esse. La via, quindi, sembra essere non quella di ridurre gli spazi di sovranità, bensì dare a quest’ultima caratteri maggiormente sovranazionali. Non era forse l’obiettivo finale dei fondatori dell’Euro?
Al tempo stesso, un atteggiamento diverso e meno ortodosso sembra lentamente farsi strada nelle analisi – non ancora nelle dottrine – del Fondo Monetario (4): la sua diffusione renderebbe più compatibili sistemi liberali e mercati dei capitali. Quello della compatibilità costituisce un tema politicamente rilevante nel rapporto tra l’Occidente e il resto del mondo. Per lungo tempo si è sostenuto (5) che quando le società si orientano al mercato tendono anche a dirigersi verso la democrazia. La globalizzazione e la relativa armonizzazione delle regole condurrebbero i paesi emergenti ad avvicinarsi progressivamente al modello occidentale attraverso un percorso di crescita del reddito pro capite, aumento della ricchezza, maggior benessere, articolazione delle strutture sociali, progressivo sviluppo del pluralismo politico, creazione di sistemi di welfare.
La crisi finanziaria del 2007-2014 ha messo in dubbio l’ineluttabilità di questo percorso e la severa recessione economica e industriale che ne è seguita sembra aver reso meno appetibile il nostro modello sociale e politico: al punto che sistemi diversi da quelli occidentali non sono più considerati «deviazioni temporanee da una strada a senso unico verso la convergenza globale, bensì alternative credibili»(6). Anche qui le domande si sprecano: il mondo si è avviato su un percorso di ‘concorrenza al ribasso’ tra sistemi, nel senso che quelli più autoritari ‘costano’ meno, ‘garantiscono’ meno e sono considerati meno complessi e dunque vincenti? D’altra parte, il modello occidentale, che non ha dato recentemente buona prova di sé, va difeso? E se sì, attraverso quali riforme che non ne snaturino l’essenza e i principi fondamentali? Per coloro che, con Hegel e Churchill, ritengono l’Europa «la gran sera dello spirito» e «la democrazia il meno peggiore dei sistemi», il dibattito è aperto.


(1). P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1989.
(2). Per una discussione sull’argomento cfr. M. Onado, I nodi al pettine, Laterza, Roma-Bari 2009; M. Onado, Economia e regolamentazione del sistema finanziario, Il Mulino, Bologna 2014; C. Reinhart – K. Rogoff, Questa volta è diverso, Il Saggiatore, Milano 2009.
(3). Cfr. K. Polany, La Grande Trasformazione, Einaudi, Torino 1985; J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Il Saggiatore, Milano 1983.
(4). Imf, World Economic Outlook, Washington (April 2015).
(5). F. Zakaria, L’era post-americana, Rizzoli, Milano 2008, cap. 4.
(6). G. Berta, Oligarchie, Il Mulino, Bologna 2014; C. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, Il Saggiatore, Milano 2013.

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