GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI



» INDICE AUTORI


Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
punto di vista 1/2015

punto di vista di Stefano Dambruoso biografia

LO STATO ISLAMICO, UNA MINACCIA CONCRETA

Fino a qualche tempo fa – trascorso poco più di un decennio dai tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001 e a circa un lustro dai terribili attentati che insanguinarono le capitali spagnola e britannica, tuttora cristallini nella memoria di noi tutti – in molti ritenevano che il terrorismo internazionale di matrice fondamentalista islamica, almeno nelle sue espressioni più cruente assunte da Al Qaeda, fosse una questione passata o, quantomeno, non più meritevole dei primissimi posti nelle agende politiche e di sicurezza di Stati e organizzazioni sovranazionali. Così purtroppo non è. I recenti fatti parigini ne rappresentano l’ennesima, triste conferma. L’eccidio alla redazione della rivista satirica «Charlie Hebdo» compiuto dai fratelli Kouachi e gli omicidi commessi a Montrouge e a Port de Vincennes a opera del franco-maliano Coulibaly contribuiscono a dimostrare la concreta e attuale pericolosità rappresentata dal terrorismo islamico e la sua capacità di colpire al cuore dell’Occidente. Sebbene l’azione dei due fratelli sembri essere stata rivendicata dalla branca yemenita di Al Qaeda (c.d. Al Qaeda nella Penisola Arabica – Aqap), è soprattutto lo Stato islamico a destare particolare preoccupazione tra le Forze di polizia e l’intelligence di mezzo mondo. Le cronache degli ultimi mesi, infatti, hanno (ri)portato all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale la minaccia rappresentata dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Isil (altrimenti noto come Stato islamico in Iraq e Siria – Isis, poi autoproclamatosi Stato islamico – Is), organizzazione terroristica da tempo attiva nel quadrante siro-iracheno, il cui modus operandi brutale e spietato, soprattutto nei confronti delle minoranze religiose non-sunnite, le ha permesso di acquisire un ruolo da leader all’interno del composito panorama jihadista.
Ma non solo. A destare ulteriore apprensione all’interno della variegata comunità dedita al contrasto del terrorismo internazionale sono i sempre più frequenti appelli anti-Occidente targati Stato islamico.
Il ‘califfo’ Abu Bakr al Baghdadi, a capo dello Stato islamico, e numerosi esponenti della formazione irachena hanno più volte ribadito l’intenzione di colpire l’Occidente, alla luce di una mai sopita ostilità nei confronti del ‘Grande Satana’, aumentata esponenzialmente in seguito all’intervento militare a guida statunitense in Siria e Iraq.
Il termine Stato islamico, dunque, è entrato a far parte del vocabolario comune di organizzazioni, cancellerie, mass media e think tank di tutto il mondo. Ma quali sono i motivi alla base di un’attenzione così elevata nei confronti di un fenomeno che, fino a poco tempo fa, destava ben minore interesse? La prima ragione è prettamente operativa. Lo Stato islamico, diversamente dalla maggior parte delle organizzazioni terroristiche che l’hanno preceduto o tuttora esistenti, dispone di una struttura organizzativa e di una concreta capacità operativa – in termini di mezzi, armamenti e personale – tali da rendere particolarmente arduo il contrasto sul teatro di battaglia. L’attuale intervento militare guidato dagli Stati Uniti e composto da una coalizione di paesi che include anche Stati arabi dimostra che, per sconfiggere l’Is, il solo utilizzo di bombardamenti aerei potrebbe essere insufficiente. Infatti, nonostante le numerose missioni attuate dai caccia occidentali a partire dallo scorso settembre abbiano causato significative perdite tra le file dei terroristi, lo Stato islamico continua a disporre di un notevole potenziale bellico.
Le amministrazioni occidentali sono state chiare nel non volere inviare, almeno allo stato attuale, boots on the ground. Sebbene si registri già la presenza di numerosi ‘consiglieri’ militari statunitensi, inviati sul fronte iracheno a coadiuvare le milizie filo-governative impegnate nel conflitto, l’eventuale impiego ufficiale di truppe occidentali in Siria e in Iraq potrebbe provocare una serie di reazioni a catena – su tutte, una possibile escalation di attività ostili contro l’Occidente, alla luce di quella che potrebbe essere percepita come l’ennesima invasione straniera del dar al Islam – tale da far preferire altre soluzioni a quella dell’impiego di truppe di terra che, tra l’altro, verrebbe difficilmente digerita dall’opinione pubblica occidentale.
A ciò si aggiunga che la struttura suddivisa in dipartimenti, ognuno dei quali con compiti ben specifici, la presenza al proprio interno di gerarchi dell’epoca di Saddam e il costante riferimento all’unità territoriale dell’Islam sotto la bandiera del Califfato contribuiscono a fornire a quella che è una mera organizzazione terroristica una connotazione statuale, che ne accresce indubbiamente il suo potenziale di minaccia e il suo appeal nei confronti di aspiranti jihadisti.
Non va dimenticato che lo Stato islamico può contare su importanti risorse economico-finanziarie derivanti da plurime attività illecite – prima fra tutte il contrabbando di greggio – unite a finanziamenti la cui natura non è sempre chiara, che hanno consentito all’organizzazione non solo di acquisire notevoli capacità logistico-operative ma anche di polarizzare numerosi giovani would-be jihadist attirati, più che da reali convinzioni di natura ideologica, dalla possibilità di facili guadagni, dalla narrativa qaedista e dalla notorietà derivante da una simile esperienza (da condividere con amici e simpatizzanti dell’Is sui social media, come sempre più spesso accade).
Come anticipato, una ragione altrettanto importante sottesa a cotanta attenzione massmediatica e politica nei confronti dello Stato islamico è rappresentata dall’interesse da esso manifestato verso l’Occidente.
La minaccia, in tal senso, è di duplice natura. Da un lato, sono numerosi gli obiettivi occidentali in Siria e Iraq considerati sensibili: oltre alla folta presenza di giornalisti e cooperanti (la categoria che più di tutte ha pagato a caro prezzo l’odio dello Stato islamico nei confronti dell’Occidente), nella regione sono molteplici le attività – istituzionali, private e a vocazione umanitaria – riconducibili all’Occidente che potrebbero essere oggetto di attentati da parte delle milizie islamiste di al Baghdadi.
Tuttavia, ciò che contribuisce maggiormente a rendere attuale e concreta la minaccia jihadista targata Is è la possibilità che le attività ostili vengano ‘esportate’ dal teatro siro-iracheno direttamente sul suolo occidentale, Europa e Stati Uniti in primis. Ciò sembrerebbe essere confermato, tra l’altro, dal proclama datato 21 settembre del portavoce ufficiale dell’Is, Abu Mohammad al Adnani, interpretabile come una chiara direttiva impartita ai membri e/o simpatizzanti dell’organizzazione a compiere attentati terroristici in Occidente (la «cattura di Roma» è menzionata tra gli obiettivi dello Stato islamico). A tal proposito, i recenti attacchi di Ottawa e Bruxelles dimostrano che tale minaccia si dispiega su un duplice piano. Nel primo caso l’attentato è stato posto in essere da un soggetto che, pur non essendo mai stato coinvolto attivamente nel teatro di battaglia siro-iracheno, ha deciso autonomamente di colpire a casa propria il nemico occidentale. L’attentato al Museo ebraico di Bruxelles, invece, è stato condotto da un soggetto reduce dal conflitto in Siria/Iraq che ha potuto avvalersi dell’expertise – in termini di capacità, addestramento, contatti ecc. – acquisita in loco per colpire, autonomamente o a seguito di specifico ordine, una volta fatto rientro nel paese di provenienza o, comunque, in uno stato terzo ugualmente raggiungibile.
Ulteriore elemento meritevole di particolare attenzione è relativo alla notevole capacità mediatico-propagandistica dello Stato islamico che gli ha permesso di raggiungere un’audience e un consenso molto estesi, forse anche superiori a quelli di cui godeva Al Qaeda nel periodo post-9/11.
L’uso strategico e propagandistico dei più recenti strumenti di comunicazione di massa, quali social media e social network, consente all’Is di aumentare esponenzialmente il bacino d’utenza. Lo conferma il fatto che, diversamente da quanto accadeva in passato, tra le file dei militanti dell’Is si registra la presenza di soggetti anche giovanissimi, particolarmente abili nell’uso dei numerosi strumenti offerti da Internet per diffondere le proprie brutalità e attirare l’attenzione degli aspiranti jihadisti.
Sempre sul tema, ciò che sembra riscuotere particolare successo tra i suoi seguaci e simpatizzanti è la proclamazione del Califfato (avvenuta lo scorso 29 giugno) che – cancellando idealmente i confini delineati dall’Accordo Sykes-Pikot del maggio 1916, con il quale Regno Unito e Francia definirono le rispettive sfere di influenza in Medio Oriente – ha fornito un’idea di unità territoriale del mondo islamico molto apprezzata nel contesto estremistico musulmano. Non è un caso che tra le principali ragioni alla base di un così massiccio afflusso di militanti, anche stranieri, vi sia proprio la volontà di contribuire alla formazione e al successivo consolidamento del Califfato.
Occorre inoltre tenere in considerazione l’elevatissimo numero di combattenti stranieri che lo Stato islamico sta richiamando da quasi ogni parte del globo. Secondo le stime fornite dal recente rapporto Onu sul tema dei foreign fighters, circa 15mila militanti provenienti da quasi 80 stati sembrerebbero essere attualmente impegnati in supporto alle organizzazioni estremistiche presenti in Siria e Iraq, Stato islamico in testa.
Fenomeno, quello dei combattenti stranieri, da tempo all’attenzione della Comunità internazionale, come dimostra la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu in materia.
Trattasi di un fronte piuttosto eterogeneo, al cui interno è possibile evidenziare notevoli diversità in termini di origine (si segnala la presenza di molti convertiti all’Islam e di immigrati di seconda-terza generazione), età e condizioni socio-economiche di provenienza.
Sono due i principali motivi per i quali tali combattenti stranieri sono considerati particolarmente pericolosi per la sicurezza dei rispettivi paesi di provenienza: da un lato, si ritiene che l’expertise bellica acquisita sul campo di battaglia estero possa essere reimpiegata con finalità terroristiche una volta fatto rientro a casa (a tal proposito, non può non menzionarsi la facilità di movimento che individui con passaporto europeo hanno all’interno dell’Area Schengen); dall’altro, il carisma derivante dall’esperienza bellica estera che potrebbe ammantare tali individui una volta fatto rientro in patria si presterebbe a essere sfruttato al fine di reclutare, radicalizzare e instradare giovani ‘promesse’ del jihad verso teatri di battaglia esteri, ovvero al fine di individuare soggetti da impiegare in attentati all’interno dei confini nazionali.
Particolare preoccupazione susciterebbe poi la significativa presenza di combattenti di sesso femminile, impegnate con funzioni operative o di mero supporto ai militanti, così come il rischio che combattenti con trascorsi giudiziari in Italia e in Europa possano covare sentimenti di rivalsa nei confronti dei loro precedenti ‘carcerieri’ e sfruttare le competenze di cui sopra per compiere azioni dimostrative. In aggiunta, non può non menzionarsi brevemente il ruolo chiave rappresentato dal quadrante nordafricano nelle vicende connesse allo Stato islamico. Nonostante il principale teatro di battaglia dello Stato islamico si collochi nelle terre bagnate dai fiumi Tigri ed Eufrate, le aree del Maghreb e del Sinai continuano a costituire zone cruciali in materia di contrasto al terrorismo internazionale, soprattutto dalla prospettiva europea. Ciò alla luce di una serie di elementi concomitanti quali:

  • - la posizione geostrategica del Nord Africa, da sempre considerato uno sbocco naturale delle politiche europee sul Mediterraneo e non solo;
  • - la delicata situazione politico-istituzionale e di sicurezza che l’intera regione sta attraversando a seguito dell’implosione delle c.d. Primavere arabe;
  • - le alleanze con l’Is recentemente proclamate dalle branche nordafricane di Al Qaeda (in particolar modo da Al Qaeda nel Maghreb islamico – Aqmi);
  • - la massiccia mobilitazione di cittadini nordafricani, molti dei quali con trascorsi giudiziari in Europa, tra le file dello Stato islamico.

I delicati, e tuttora incerti, processi di transizione che stanno caratterizzando l’evoluzione politica e, in una certa misura, socio-culturale dei paesi che insistono nel Nord Africa, oltre a destabilizzare l’intera area del Mediterraneo e a imporre ai partner nuovi e storici la ridefinizione in itinere delle proprie politiche nei confronti di una parte del continente africano centrale dal punto di vista strategico ed economico, hanno indubbiamente rinvigorito le locali componenti jihadiste. Con riferimento al fronte del jihadismo, il crollo dei regimi autoritari di Gheddafi, Mubarak e Ben Ali – in grado di garantirne comunque un contenimento efficace, apprezzato dagli alleati internazionali – ha permesso l’affermarsi di nuovi santuari del terrorismo jihadista che, approfittando delle turbolenze politiche e della scarsa reattività delle deboli istituzioni statali, hanno potuto radicarsi sulle sponde del Mediterraneo ed estendere la propria influenza anche oltre i confini nazionali, avvicinandosi pericolosamente alle coste dell’Europa.
Un ultimo elemento meritevole di attenzione, soprattutto alla luce degli avvenimenti recenti, è la risposta a livello normativo nei confronti di un fenomeno in continua evoluzione che, pertanto, necessita di costanti aggiornamenti, anche sul piano giuridico.
Il terrorismo è una piaga sociale che va contrastata innanzitutto con le armi del diritto. In tal senso, pare notevolmente apprezzabile il decreto legge n. 7 approvato il 10 febbraio scorso dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento prevede, tra l’altro, per quanto più direttamente rileva per il Comparto di intelligence:

  • - l’estensione della scriminabilità a ulteriori condotte integrative di reati in materia di terrorismo commesse dagli appartenenti ai Servizi di informazione;
  • - la possibilità per il personale dei Servizi di deporre nei procedimenti giudiziari, fornendo generalità di copertura;
  • - la facoltà per le Agenzie di intelligence, previa autorizzazione del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma, di effettuare fino al 31 gennaio 2016 colloqui con soggetti detenuti o internati, al solo fine di acquisire informazioni per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale.

Ulteriori misure comprendono:

  • - l’introduzione di una nuova figura di reato destinata a punire chi organizza, finanzia o propaganda viaggi per commettere condotte terroristiche;
  • - la punibilità del soggetto reclutato con finalità di terrorismo anche fuori dai casi di partecipazione ad associazioni criminali operanti con le medesime finalità (attualmente è sanzionato solo il reclutatore);
  • - la punibilità di colui che si ‘auto-addestra’ alle tecniche terroristiche (oggi è punito solo colui che viene addestrato da terzo);
  • - la possibilità di applicare la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai potenziali foreign fighters;
  • - la facoltà del Questore di ritirare il passaporto ai soggetti indiziati di terrorismo, all’atto della proposta di applicazione della sorveglianza speciale di p.s. con l’obbligo di soggiorno. Il provvedimento è sottoposto a convalida dell’Autorità giudiziaria;
  • - l’attribuzione al Procuratore Nazionale Antimafia di funzioni di coordinamento su scala nazionale delle indagini per procedimenti penali e di prevenzione in materia di terrorismo, anche internazionale.

Nel medesimo contesto vengono aggiornati gli strumenti di contrasto all’utilizzazione della rete Internet per fini di proselitismo e agevolazione di gruppi terroristici. In particolare, sono previsti:

  • - l’aggravamento delle pene stabilite per i delitti di apologia e di istigazione al terrorismo commessi attraverso strumenti telematici;
  • - la possibilità per l’Autorità giudiziaria di ordinare agli internet provider di inibire l’accesso ai siti utilizzati per commettere reati con finalità di terrorismo e, nel caso di inosservanza, di disporre l’interdizione dell’accesso ai relativi domini Internet.

Ancorché il decreto legge n. 7 de quo abbia apportato delle misure immediate e sicuramente efficaci nella prevenzione al terrorismo, ritengo necessario un intervento dell’Unione europea volto a coordinare le legislazioni degli Stati membri.
L’Europa unita contro il terrorismo non può essere uno spot, ma deve puntare a una normativa comune.
Tra le altre dimensioni da prendere in considerazione, particolare importanza rivestono le misure di deradicalizzazione e contrasto all’estremismo violento, spesso configurabile quale primo passo nella carriera di un aspirante jihadista; le strategie finalizzate a un migliore monitoraggio dei flussi di migranti che, con cadenza quasi quotidiana, giungono sulle nostre coste (lungi dal voler compiere semplicistiche equazioni tra immigrazione e terrorismo, è verosimile attendersi la presenza di estremisti all’interno dei barconi provenienti soprattutto dalle coste nordafricane); una maggiore collaborazione tra le Forze di polizia e l’intelligence a livello europeo e internazionale, necessaria per fronteggiare un fenomeno che ha più volte dimostrato di non conoscere confini.
In conclusione, è fondamentale che, anche una volta placatosi il clamore mediatico nei confronti dello Stato islamico e dei suoi ‘seguaci’, l’attenzione rimanga altissima in direzione di un fenomeno, oscuro e multiforme, che potrebbe farci rivivere orrori e paure che si pensavano sopiti.

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA