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Storie di chi si è dato coraggio

Barnaba Pier Arrigo Barnaba

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Sebbene inabile alle fatiche della guerra per ferita riportata in combattimento, con elevato senso di amor patrio, si offrì volontario per essere trasportato in aeroplano e calato con paracadute in territorio invaso dal nemico. Sprezzando le gravi conseguenze nelle quali sarebbe incorso, se scoperto, inviò per vari giorni, con mezzi aerei, importanti notizie sul nemico. Ogni suo atto fu un fulgido esempio di valore e di patriottismo.

Piave – Tagliamento, ottobre-novembre 1918


Nasce a Buia (Udine) nel 1891 e a margine del suo atto di nascita vi è l’annotazione: «… trovasi inscritto col titolo di Signore di Buia al volume XVI pag. 26 del Libro d’Oro della Nobiltà Italiana». Si diploma geometra e nel 1927 ha una figlia, Simonetta. I documenti di anagrafe alla voce ‘professione’ indicano ‘possidente’: se ne può desumere che Barnaba, per vivere, non abbia particolari difficoltà. Nondimeno la sua è una vita tutt’altro che inoperosa. Chiamato alle armi e riformato per tachicardia nel 1914, allo scoppio della guerra vuole andar volontario negli Alpini, ciò che gli è possibile solo nella primavera del 1916. Ferito, e già decorato più volte, merita la Medaglia d’Oro quando si fa paracadutare al dì là delle linee nemiche per svolgere attività informativa e per mobilitare civili e sbandati per conto dell’Ufficio Informazioni dell’8a Armata. La sua testimonianza, sullo stato del paracadutismo in Italia in quegli anni, è interessante, anche se pessimistica, fermo restando lo sfondo pionieristico. I medici militari – prima che compia la sua impresa – gli obiettano che un malato di cardiopalmo non è idoneo a sopportare certi strapazzi: Barnaba taglia corto e sottoscrive una dichiarazione con cui esonera lo Stato italiano da qualsiasi responsabilità, rinunciando preventivamente all’eventuale diritto a pensioni dirette o indirette, a decorazioni, onorificenze e altro. Nella motivazione di una delle tante medaglie di Barnaba, si parla di ‘sentimenti virili’: l’enfasi maschilista dell’affermazione oggi può indurre al sorriso, ma che Barnaba fosse una pellaccia è fuori discussione. Grande, grosso, robusto, il classico gigante buono, è soprannominato ‘Maciste alpino’ a dispetto di un cuore che batte troppo in fretta. Decorato anche di una Medaglia d’Argento al valor civile, durante il fascismo è podestà di Udine e deputato al Parlamento nazionale: la sua probità e il suo disinteresse sono riconosciuti dagli stessi avversari politici tant’è che, dopo la liberazione, gli udinesi lo eleggono nel consiglio comunale. Muore nel 1967 a 76 anni, segno che la sua tachicardia non era gravissima. Uomo schivo, la nobiltà, annotata nei documenti dello stato civile, appare in ogni atto della sua vita. Barnaba lascia scritto che la sua aspirazione più grande è rendersi utile alla Patria e, a dispetto dei tempi, ci riesce.


La dichiarazione di esonero di Giampaolo Rugarli
Erano in tre, credo di ricordare: Alessandro Tandura, Ferruccio Nicoloso e Pier Arrigo Barnaba, tutti e tre pronti per una missione speciale, anzi specialissima. Il mio era un punto di vista peculiare (ero ufficiale medico, chiamato ad accertare l’idoneità fisica dei richiamati e dei volontari): perciò fu il caso di Barnaba ad attirare la mia attenzione.
Barnaba lo conobbi nel 1914, prima che l’Italia entrasse in guerra: aveva poco più di vent’anni, ed era un ragazzone grande e grosso, quasi un gigante, il tipo che, a vederlo, si pensa scoppi di salute. Voleva arruolarsi come volontario. Tanto per la precisione, io mi chiamo Antonio Capozzi, sono figlio e nipote di medico, sono parente alla lontana di Scipione Riva-Rocci, la mente preclara che, or sono pochi anni, ha donato alla scienza lo sfigmomanometro: voglio dire che il mio lavoro per me è quasi un sacerdozio, come la poesia. Non mi lascio ingannare dalle apparenze e, soprattutto, non ometto nulla di ciò che è o che mi sembra necessario.
Pier Arrigo Barnaba si spogliò, e io vidi un esemplare umano perfetto. Era simile a una statua greca. Altri, al posto mio, avrebbero subito sentenziato: «Abile, arruolato», passando a esaminare la recluta successiva, ma non io, che non mi lascio abbagliare dalle apparenze del corpo umano e che conosco le fragilità che vi si annidano. Il cuore... bisogna conoscerlo, capirlo, qualche volta smascherarlo. Memore degli insegnamenti di Augusto Murri, mio insigne maestro, palpai, ispezionai, ascoltai; poi, per meglio comprendere, misi mano allo stetoscopio. Sentivo tre toni per battito anzi che due, ma i sensi, anche i miei, sono fallaci, così mi dissi che forse l’udito mi ingannava: dove purtroppo non mi ingannavo era nel tumulto dei battiti, tu-tum tu-tum tu-tum, un galoppo di cavalleria, un rullo di tamburi che infittiva in luogo di quietarsi.
«Sei emozionato?» domandai a Barnaba. «Neanche un poco» mi rispose. «E allora che cosa è questa tachicardia, che cosa è questo cuore matto?». «La tachicardia l’ho sempre avuta, è un fatto congenito, che non mi ha impedito di cimentarmi in ogni attività sportiva. E ho anche fermato un cavallo imbizzarrito». «Andare in guerra non è come bloccare cavalli imbizzarriti: le condizioni fisiche devono essere perfette». «Le mie condizioni fisiche sono perfette: ne sono sicuro». «Io non lo sono altrettanto e, sebbene mi dispiaccia di raffreddare il tuo ardore patriottico, sono costretto a riformarti ...». «Che cosa significa? Che non potrò mai vestire la divisa?». «Mai è una parola molto impegnativa. Se vorrai, tra due anni potrò riesaminarti. Due anni, non prima». «E nel mentre?». «Se fossi in te, farei vita tranquilla, non agitata. E un buon decotto di camomilla, ogni sera, al momento di andare a letto, sono sicuro che ti gioverebbe».
Passarono i due anni e avvennero tante cose. L’Italia entrò in guerra e il fonendoscopio subentrò allo stetoscopio. Il fonendoscopio collegava una membrana sottilissima, ultrasensibile a tutte e due le orecchie: il collegamento era attuato con due tubicini di gomma che terminavano in due auricolari. Si sentiva molto meglio, ed era meno probabile l’errore indotto da un inganno dei sensi. Noi medici comprendemmo che sapevamo ancora poco del cuore e che, in futuro, nuove apparecchiature ci avrebbero aiutato a diradare il mistero... Forse, tentando nuove applicazioni della corrente elettrica, sarebbe stato possibile tradurre il battito cardiaco in un tracciato grafico, chi sa; purtroppo la corrente elettrica non aveva raggiunto tutte le case, e mezza Italia accendeva candele o lumi a petrolio, per avere un po’ di luce al calar del sole.
Mi spiace ricordarlo, ma anch’io, nella mia postazione di Udine, procedevo a lume di candela, cosa che non mi creava troppo imbarazzo perché, se la vocazione alla medicina della famiglia Capozzi non avesse fatto di me un trepidante discepolo di Esculapio, consegnandomi alla missione di combattere contro le malattie e le infermità, io mi sarei votato ad altra missione, intendo alla divina poesia cui dedicavo deliziose ore sottratte al sonno. La poesia combatteva le malattie e le infermità dell’anima, che erano peggiori di quelle del corpo. Lo confesso, stavo componendo una ballata che avevo intitolato Leggenda di mitraglie e di cannoni, e che tuttavia stentava a raggiungere la perfezione formale da me desiderata, forse perché il divino D’Annunzio, al quale mi ispiravo, era ineguagliabile. (Qualche anno dopo, lessi la mia Leggenda a un critico, a uno del mestiere che, amichevolmente, mi consigliò di concentrarmi sulla medicina se non forse sulla veterinaria: Vittorio Locchi, morto in mare nel corso di operazioni di guerra, aveva scritto La sagra di Santa Gorizia, e aveva trovato accenti più convincenti dei miei per esaltare la passione dell’Italia irredenta). Non vorrei divagare. La luce delle candele proiettava sul muro una fantasmagoria di ombre e, tra di esse, scoprivo o riscoprivo volti amici, volti cari, volti amati, come quello del mio adorato padre che curava l’erisipela con il chinino e con la cascara.
Riapparve Pier Arrigo Barnaba. «E tu che vuoi?» domandai con tono poco incoraggiante. Al fronte i ragazzi morivano come mosche e, se mi riusciva di sottrarre qualcuno al macello, tiravo un respiro di sollievo. «Voglio andare a combattere» rispose Barnaba, e soggiunse: «Me lo ha detto lei, maggiore Capozzi, di ripassare dopo due anni, e dunque eccomi qua». Gli ordinai di spogliarsi e, poiché ricordavo il caso molto bene, mi occupai subito del suo cuore. Adesso disponevo di un fonendoscopio e, niente meno, di un Riva-Rocci: ero convinto che la pressione arteriosa mi avrebbe dispensato da ulteriori indagini, e invece, non so se a malincuore o con sollievo, rilevai valori normali. Tanto la massima quanto la minima erano perfette. Invece il battito cardiaco continuava a galoppare... «Non è cambiato gran che» obiettai, «ad ascoltarti... sembra di sentire una locomotiva lanciata a tutta velocità. Io ammiro il tuo fervore e il tuo amor di patria, ma tu sei ammalato e non posso mandarti a combattere». Oramai sono vecchio, e ne ho passate tante, così mi è capitato più di una volta di vedere la disillusione e la mortificazione dipingersi sul volto di una persona: però lo sguardo che mi rivolse Barnaba non lo dimenticherò mai, e compresi che, volendo salvargli la vita, lo stavo uccidendo. La vergogna poteva fare persino più male delle mitraglie e dei cannoni celebrati nei miei endecasillabi sciolti. Per un tempo che a me parve interminabile ci fissammo negli occhi, in silenzio, lui aspirante eroe, e io medico militare: lui che non si risolveva ad andarsene, e io che non avevo il coraggio di congedarlo.
Andò a finire nel peggiore dei modi, almeno dal mio punto di vista. C’era bisogno di carne da spedire in trincea, così una disposizione ministeriale aveva autorizzato a dichiarare abile anche chi non era in perfette condizioni fisiche, purché avesse sottoscritto la dichiarazione di esonero. La dichiarazione di esonero, dopo aver premesso che la pubblica amministrazione declinava ogni responsabilità per eventi dannosi di qualsiasi natura a carico del firmatario, precisava che comunque nulla sarebbe stato riconosciuto al firmatario medesimo o, in caso di evento letale, ai suoi parenti e che, pertanto, l’interessato rinunciava in via preventiva a pensioni, medaglie, onorificenze, rimborsi o indennizzi eventualmente dovuti. Era disgustoso. Si accettava che un cittadino andasse a morire per la Patria, ma si pattuiva che il suo sacrificio sarebbe stato considerato meno di zero.
Con riluttanza, accennai a Barnaba che esisteva la dichiarazione di esonero e che, se lui avesse firmato, avrei potuto attestare la sua idoneità. Mi posi un problema di coscienza: se dovevo dargli disco verde per la trincea, tanto valeva farlo senza esigere che lui firmasse carte, però mi mancò l’animo di compiere questa infrazione. Bisogna capirmi: sono un poeta, ma sono anche un ufficiale e un medico. D’altronde, Barnaba si disse felice di esonerare e di rinunciare: pur di partire, avrebbe accettato imposizioni anche più odiose. E infatti partì subito dopo.
Di tanto in tanto mi giungevano sue notizie, ed erano notizie lusinghiere: tutti ne ammiravano il coraggio, lo spirito di sacrificio, l’altruismo. Promosso tenente degli alpini nella primavera del 1917, nell’autunno dello stesso anno, pochi giorni prima della disfatta di Caporetto, Barnaba si infiltrò nelle linee nemiche e sottrasse agli austriaci il carrello di una teleferica che si caricò sulle braccia. Il colpo di mano fu consentito dalla oscurità, dalla nebbia, dalle asperità del terreno, adatto agli agguati e alle sorprese, ma certo fu un bell’esempio di temerarietà. Se questi erano gli effetti di una tachicardia, c’era da augurarsi che il batticuore diventasse epidemico.
Di Caporetto sofferse come di un lutto in famiglia: ne sono sicuro. La postazione che era affidata a lui non si arrese, nonostante gli austriaci bombardassero dalla terra e dal cielo: resistette anche al lancio dei gas asfissianti, e Barnaba non ordinò la ritirata neppure quando venne ferito a una mano. Gravemente. Non è uno scherzo continuare a battersi con una mano fracassata che gronda sangue e che sta per fare infezione: ma Barnaba fece anche questo, e mollò la posizione solo quando l’ordine di sganciarsi fu tassativo. La guerra non era lui che la comandava, ma Cadorna: così bisognava abbandonare al nemico il natio Friuli e sperare che la nuova linea di resistenza sul Piave non avrebbe ceduto. È una storia gloriosa e triste, meglio non ricordare.
Barnaba lo ritrovai in un ospedale da campo, dove approntammo le prime cure per la sua povera mano. Ci voleva altro per rimettere in sesto quel brandello di carne, così decisi che, appena possibile, il valoroso tenente sarebbe stato trasferito a Livorno, presso una struttura specializzata che avrebbe operato miracoli. E di miracoli c’era proprio bisogno.
Mi riconobbe subito e fu contento di rivedermi. «Maggiore Capozzi!» esclamò, e nella voce percepii una incrinatura di commozione. Un po’ ero commosso anch’io.
«Come va, con il tuo cuore matto?» mi provai a scherzare. «Sempre al galoppo? Sempre più di cento battiti al minuto?» Barnaba sorrise: «Sinceramente mi è mancato il tempo di occuparmene... Credo che il suo lavoro lo faccia lo stesso. Sono gli anni in cui viviamo che vanno di corsa: non è così signor maggiore?». Non aveva torto, e la singolarità della guerra – forse di ogni guerra – stava nell’impulso ricevuto dalla scienza e dalla tecnologia: la civiltà umana, per progredire, aveva bisogno di cadaveri? Era un tema interessante che avrei potuto affrontare nella mia Leggenda di mitraglie e di cannoni, ma che adesso era meglio ignorare.
Barnaba partì per l’ospedale di Livorno uno o due giorni dopo: avrei voluto salutarlo, ma ci fu un malinteso e, quando arrivai, era troppo tardi. Mi consolai pensando che sarebbe stato curato nel modo migliore e che, alla fine, sarebbe stato congedato: la guerra per lui sarebbe finita, tanto più che la sua parte l’aveva già fatta, ad abbondanza.
Avevo sottovalutato il mio amico (credo di poterlo chiamare così, benché ci fossimo incontrati non più di tre o quattro volte). Nel marzo 1918 era già nelle retrovie e scalpitava per essere impiegato in missioni informative: le più pericolose, perché si trattava di portarsi alle spalle delle linee nemiche e di condurre azioni di spionaggio. C’era la forca in caso di cattura. Non bastava avere fegato, ci volevano nervi d’acciaio e, soprattutto, ci voleva un cuore impermeabile a ogni emozione. Barnaba – con il suo cuore forsennato – era la persona meno adatta per compiti del genere: così, per la seconda volta, mi trovai ad affrontare un caso di coscienza. Prima di tutto era prevista la visita medica di controllo: e, per mia fortuna, l’incarico della visita fu affidato al colonnello Zancati, insigne sanitario che, in tempo di pace, aveva cattedra all’università di Pavia. Non sarebbe toccato a me di respingere Barnaba, ed era un bel sollievo.
Per una sera volli dedicarmi alla mia Leggenda, e mi domandai se non era giusto aggiungere i velivoli alle mitraglie e ai cannoni. Ho già detto che le ombre proiettate dalle candele accese stimolavano la mia fantasia, e mi illusi che, sul muro, transitasse a volo radente una squadriglia. Mancava il rombo dei motori che tentai di imitare ripetendo in rapido ritmico rotolare il suono della erre, ma poi mi dissi che stavo giocando come un ragazzino, e mi accontentai di simulare con una mano un lungo atterraggio in planata. Sì, nel mio poemetto avrei cantato anche gli aeroplani che, nel prossimo futuro, avrebbero fatto meraviglie: capaci di varcare un oceano in un solo balzo... In verità, gli aeroplani austriaci, a più breve scadenza, offersero un’altra, indesiderata meraviglia: colpirono con una granata la camionetta sulla quale viaggiava Zancati, e il colonnello non ebbe nemmeno il tempo di pentirsi dei suoi peccati.
Così tornava a me l’ambascia di giudicare le condizioni fisiche dei volontari che si erano offerti per essere paracadutati nei territori invasi: Tandura, Nicoloso e Barnaba. Nessun problema con i primi due: Tandura era leggero come una libellula, non mi sarei stupito se gli fossero spuntate le ali, e Nicoloso era di quelli che li guardi in viso, e capisci che sono destinati a campare cent’anni e anche di più. Con Barnaba ritornavo al suo cuore matto, e sancirne l’idoneità mi sembrava un inganno. Verso di lui, verso l’amministrazione, addirittura verso la Patria... Un uomo, nato fragile per sua sventura, una volta catturato e magari tormentato dal nemico, avrebbe avuto la fortezza di resistere all’interrogatorio?
Barnaba era intelligente, molto intelligente. Al mio rituale: «Spogliati», replicò: «Neanche per idea». «Come sarebbe a dire?» esclamai, troppo stupito per arrabbiarmi. «Io sono stato ferito» spiegò Barnaba, «e sono stato curato presso l’ospedale di Livorno. L’ospedale ha certificato la mia perfetta guarigione, e non credo che occorra altro». «Ragazzo mio» dissi, con tono che mi sforzai di rendere suadente, «non sono in discussione normali operazioni belliche... C’è da volare, prima in aeroplano, e poi appeso a un paracadute; e ammesso che uno arrivi a destinazione, sano e salvo, c’è da fare guerriglia e spionaggio nel territorio invaso dagli austriaci. Ti sembra uno scherzo?». «Non è affatto uno scherzo» acconsentì Barnaba, «se non che io ho già esonerato e rinunciato. Niente pensioni, rimborsi, indennizzi, medaglie, nessuno ci rimette niente... Il solo che può smenarci qualche cosa sono io, ma, in una faccenda tutta mia, nessun altro può mettere il becco. Se lei crede, maggiore Capozzi, posso firmare un’altra dichiarazione, confermando che sono pronto a morire per la Patria senza nessuna contropartita, ma ciò che ho già firmato non ha bisogno di duplicati, giace nel grembo dei vostri archivi. E le giuro, per la seconda volta, che all’Italia non chiederò niente di più della opportunità di donarle la mia vita».
Erano parole nobili, e poi, sebbene di cavilli e di cabale legali io non m’intendessi e non m’intenda, forse la dichiarazione di esonero, sottoscritta a suo tempo, chiudeva ogni discorso. L’esercito lo aveva messo in guardia e, ciò nonostante, Barnaba aveva deciso di rischiare: ebbene, tanto peggio per lui. «Allora sono abile e arruolato?» mi domandò. «Quello che tu hai sottoscritto» risposi «rende superflue le verifiche di carattere sanitario. Tu non sei abile, sei un malato di cardiopalmo che pretende di essere abile. E, quanto a essere arruolato, non dipende da me: domani avrai un colloquio con il generale Caffaro, al quale spetta di decidere. Ma vorrei che tu ci ripensassi: alla Patria hai già dato abbastanza, e mi sembra stupido che tu vada a suicidarti...». «Maggiore Capozzi» affermò solennemente, «saranno gli austriaci a suicidarsi. Parola d’onore».
Per un estremo scrupolo, esposi il caso al generale Caffaro prima che questi interrogasse Barnaba. Il generale Caffaro era un valoroso soldato ed era un gentiluomo: intese perfettamente le mie ragioni, e mi promise che avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere per dissuadere lo sconsiderato. Si dichiarò entusiasta degli altri due candidati: paragonò Tandura a un grillo e Nicoloso a uno scoiattolo. «Restando nella zoologia», mi scappò dalla bocca, «Barnaba è un orso». Precisai: «È un orso buono, generoso... peccato che abbia quel cuore ballerino». «Maggiore Capozzi» tagliò corto il generale Caffaro, «arrivo sempre dove voglio arrivare, e le assicuro in modo formale che un malato di cardiopalmo non verrà mai lanciato con il paracadute».
Fui presente al colloquio con Barnaba, e devo ammettere che il generale fece ogni sforzo per convincerlo a tirarsi indietro. Cominciò descrivendo i pericoli del paracadutismo: c’era da viaggiare nel retro della carlinga, senza alcuna possibilità di comunicare con il pilota o con l’osservatore (il rombo dei motori copriva le voci, e, gridando, la situazione non cambiava), si stava seduti su una botola con le gambe a penzoloni nell’aria, infine la botola si spalancava senza preavviso e di punto in bianco si precipitava verso il suolo. «Ma c’è il paracadute» obiettò Barnaba. «II paracadute qualche volta non si apre» osservò lugubremente il generale. Che continuò la sua perorazione all’incontrario elencando gli obblighi di un militare: la riservatezza, anzi tutto; il coraggio, ma pure la ponderatezza prima di accettare un incarico; la necessità di non confondere ardimento e sconsideratezza; l’umiltà di riconoscere i propri limiti.
Al termine del pistolotto, Barnaba domandò: «Signor Generale, rispettosamente sono ammesso a esporre le mie ragioni?». Caffaro lo guardò stupefatto. Forse era la prima volta –nel corso della sua lunga carriera, collaudata più di vent’anni prima con Baratieri nella infausta conca di Adua –, era la prima volta che un semplice tenentino osava chiedere all’alto ufficiale il permesso di contraddirlo. Barnaba comunque non aspettò di ottenere licenza di parlare e, come un fiume in piena, protestò di sentirsi mortificato: non era un bambino e, se si era offerto volontario, sapeva di che cosa si trattava, per nessuna ragione al mondo avrebbe agito con imprudenza o con avventatezza. Tirò il fiato, sospirò: «A meno che ci sia entrato il maggiore Capozzi. Rispettosamente oso rammentare che il maggiore Capozzi ha decretato che il mio cuore è matto, che batte troppo in fretta, e che perciò mi rende inidoneo al servizio. Presumo di aver dimostrato, con i fatti, di essere più che idoneo al servizio e al combattimento, sorvolando sulla circostanza che ho firmato la dichiarazione di esonero...». «Che cosa è questa dichiarazione di esonero?» lo interruppe bruscamente il generale Caffaro. Toccò a me spiegare, e Caffaro mi ascoltava rannuvolandosi. «Quella dichiarazione» concluse, «dovrà essere fatta in mille pezzi. Temo che negli archivi della pubblica amministrazione non manchino le vergogne, ma di una simile vigliaccheria vorrei proprio che si facesse a meno. Non ci sono esoneri che tengano, se uno è ammalato, specie se uno ha un vizio cardiaco».
«Ciò significa» osservai «che il tenente Barnaba non è idoneo alla missione di lancio con il paracadute? Intendo bene?».
«Intende malissimo, signor maggiore» sancì il generale Caffaro. «II tenente Barnaba, per quanto mi riguarda, potrà andare domani stesso».
«Mi sembrava di aver capito» osai obiettare «che un malato di cardiopalmo non dovrebbe essere lanciato con il paracadute».
«Lei ha capito benissimo» sorrise il generale, «solo che il tenente Barnaba non è ammalato di cardiopalmo e, se mai ha patito questo disturbo, ne è guarito perfettamente».
Caffaro mentiva, e sapeva di mentire. Non voleva umiliare un coraggioso più di quanto avesse già fatto la burocrazia. Barnaba partì, e non sto a raccontare le sue gesta: ebbe la medaglia d’oro, come Tandura e come Nicoloso che però preferì commutare la decorazione in una insegna cavalleresca. Dei tre, Nicoloso ebbe la sorte più incerta, più amara. Non amava il fascismo, e fu coinvolto nell’attentato che Tito Zaniboni andava organizzando contro Mussolini: fu processato, fu condannato al carcere, fu graziato. Si trasferì in Libia. Sparì in circostanze misteriose, durante un viaggio di ritorno, per mare.
Tandura e Barnaba ebbero più felice destino, specialmente Barnaba che, a dispetto del cuore matto, fu podestà di Udine, e fu amministratore di rara probità. Andai a trovarlo tre anni fa, nell’estate del 1943, quando i sordi brontolii della seconda guerra mondiale avevano raggiunto la Sicilia. Sono della classe 1878, e non sono più un giovanotto: so che abbastanza presto una visitatrice sgradita busserà alla mia porta e, in previsione di quel momento, riordinavo le mie carte, i miei appunti, un lavoro rivelatosi più lungo e più complesso di quanto avessi immaginato. Così, tre anni fa, mi capitò di ritrovare la famosa dichiarazione di esonero: mi era stata restituita dal Ministero, e io, ignorando gli ordini del generale Caffaro, non l’avevo fatta in mille pezzi e anzi l’avevo conservata, per mia memoria. Mi aveva sfiorato l’idea di farne omaggio a Barnaba, ma poi avevo lasciato stare: la dichiarazione di esonero documentava un infortunio della scienza medica, della burocrazia, della comprensione umana.
«E il cuore?» non potei fare a meno di domandare, appena Pier Arrigo Barnaba fu di fronte a me. «Batte sempre più forte» sorrise Barnaba, «ma non mi dà fastidio. È un fatto costituzionale, io corro più in fretta». Eravamo in una vecchia trattoria di Udine, dove avevamo mangiato bene e bevuto meglio, nei limiti consentiti dal razionamento annonario: riscoprire insieme il passato aveva una dolcezza che, in parte, attenuava le ansie del presente. Il presente era un oggetto ingombrante e imbarazzante che cercavamo di allontanare, purtroppo senza risultato: El Alamein, la Sicilia invasa, i bombardamenti urgevano, mentre sbiadiva il ricordo di Buia in mano austriaca.
«Lei ha saputo...» cominciò Barnaba. Subito si interruppe, si corresse: «Voi avete saputo... questo benedetto voi, non riesco ad abituarmi, mio buon amico... avete saputo di Ferruccio Nicoloso?». «Lei o voi, non ti dare pena» sorrisi, «e anzi sarebbe meglio che usassi il tu, con me. Ne abbiamo viste tante! E anche tu non sei più un giovanotto. Sì... ho sentito di Nicoloso. Una storia misteriosa, nella conclusione; e pensare che sono passati quasi vent’anni da quando il Nostro voleva attentare...». «Non entro nel merito della vicenda» disse Barnaba, «e poi… il punto non è questo». «E quale sarebbe?» osservai, un po’ stupito.
«Maggiore Capozzi» obiettò Barnaba, «nella storia di Nicoloso hai dimenticato un particolare che, secondo me, è più importante di ogni altra cosa. Quando Ferruccio fu condannato, venne anche degradato e, con un semplice pezzo di carta, si revocarono medaglie e onorificenze ossia si dichiarò che quanto era stato fatto per la Patria non valeva più nulla. A mio parere fu commessa una grave ingiustizia. Perché un atto di coraggio, se è stato compiuto, non si può e non si deve cancellarlo: vi è una sola verità, quella dei fatti, ed è stupido illudersi che, sulla carta, si possa crearne un’altra. Io stesso, nel mio piccolo, ebbi esperienza dell’assurdo potere di rigenerazione che si attribuisce alla carta: sottoscrissi una dichiarazione di esonero e di rinuncia dove si stabiliva che le mie azioni, in ogni caso, non avrebbero avuto alcun valore. Fu fatta opera di prevenzione e, per quanto mi riguarda, potevo starci: le mie qualità erano da dimostrare. Ma Nicoloso di essere un eroe lo aveva dimostrato, e non si poteva, non si doveva annullare quello che lui aveva compiuto: invece la Patria rinunciò alla sua abnegazione, e si esonerò dall’obbligo di onorarla... Mio vecchio e buon amico, non so quale sia lo stato dei nostri armamenti e, a costo di essere accusato di disfattismo, non so come finirà questa guerra che ci ha espulsi dall’Africa e che ha abbandonato la Sicilia agli angloamericani: ma temo che, con la carta, l’impegno di vincere sarà rispettato. Con la carta noi vinceremo».
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