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punto di vista 4/2014

punto di vista di Javier Solana biografia

Il nostro è un mondo in continuo cambiamento. Un mondo dove i grandi assetti del potere stanno mutando. Una volta era misurato secondo le dimensioni dell’esercito e della popolazione. Non in termini di Pil pro capite, di reputazione o di capacità di ospitare le olimpiadi. Nuovi poteri stanno emergendo ovvero, in certi casi, riemergendo. Tutto ciò è una conseguenza della globalizzazione che rimane la grande sfida della nostra era; ci rende più ricchi e permette a molti poveri di sfuggire dall’indigenza. Unisce le persone e consente loro di avere vite più lunghe e migliori. La globalizzazione è il prodotto della pace e, mentre si diffonde, intensifica l’interdipendenza. La crisi economica dimostra quanto siamo interconnessi. La globalizzazione implica anche nuovi problemi: il cambiamento del clima, la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, la migrazione e quella che potrebbe essere chiamata la politica di scarsità. Un terzo dell’umanità si sta modernizzando. Questo fa sì che l’accesso alle risorse naturali sia più competitivo. Il mondo è sempre più diviso fra coloro che sono dentro il sistema e quelli che non lo sono. Quelli esclusi sono poveri – come nella maggior parte dell’Africa – o fastidiosi – come la Corea del Nord e l’Iran – oppure entrambe le cose.
In un certo senso il pianeta continua a rimpicciolirsi. Però non stiamo convergendo verso un modello univoco di sviluppo. Il caos e l’ipermodernità coesistono l’uno a fianco dell’altra. È presente una proliferazione di ‘approcci’ politici ed economici e non esiste nessun collegamento automatico fra economia globale e politica democratica mondiale. Nel nuovo assetto la maggior parte della politica può essere condotta solo su scala continentale. Per noi dell’Europa, ciò significa attraverso l’Unione europea. L’unico modo di affrontare problemi globali è attraverso soluzioni globali. Ma bisogna avere degli elementi indispensabili. È difficile per noi essere globali senza passare attraverso l’Europa. È la sede logica per organizzare un’azione collettiva all’interno di un gruppo di paesi che condividono gli stessi principi. Inoltre, il mondo esterno ci costringe a raggrupparci.
Prendiamo, per esempio, il cambiamento climatico. È la più grande sfida globale: un consenso scientifico sta costringendo la leadership politica a superare la crisi planetaria. Non sarà risolta né dagli Stati Uniti, né da Cina o Germania, Italia, Regno Unito, Francia, Polonia. L’Europa stessa deve interessarsene, o diverrà strategicamente irrilevante.
Dunque, ecco emergere temi come l’assetto dei poteri, la multipolarità, le nuove minacce alla sicurezza. Un mondo dove altri scenari e altri modi di agire stanno guadagnando terreno. Questo è il paesaggio geopolitico col quale gli europei devono confrontarsi.
La buona notizia è che abbiamo fatto progressi significativi negli ultimi dieci anni per costruire le basi di una politica estera credibile. Dal parlare dei problemi e scrivere comunicati, all’entrare in azione nelle zone di crisi per aiutare le popolazioni. Questo è un risultato notevole, se si considerano le condizioni iniziali poste a fondamento dell’Ue.
La nostra cultura organizzativa era orientata a prendere iniziative legislative in un mondo lento. Ora ne assumiamo in un mondo veloce. Il nostro peso politico – a lungo il nostro tallone d’Achille – è aumentato. Lavoriamo in stretta collaborazione con gli Stati Uniti, l’Onu e la Nato. Non è tutto perfetto. È lontano dall’esserlo. Ma facciamo la differenza dove conta: nei Balcani, in Medio Oriente, in Africa. E tale tendenza è in aumento, anche se non sempre ci muoviamo alla velocità che mi piacerebbe registrare.
La difesa europea occupa una grande parte del progresso che abbiamo compiuto. Quando abbiamo iniziato, la natura globale del nostro approccio concettuale era innovativa. Oggi siamo presenti in tre continenti con molte missioni: dal Kosovo all’Afghanistan, in Medio Oriente e nella zona costiera somala dove abbiamo dimezzato i successi della pirateria. Dieci anni fa non pensavo che un giorno l’Ue avrebbe guidato 13 fregate nell’Oceano Indiano.
Proviamo a offrire una soluzione attagliata ai problemi complessi. E la richiesta di un nostro coinvolgimento continua a essere maggiore della nostra offerta. Tutto questo rimane, per così dire, un lavoro in corso. Per tale motivo abbiamo bisogno dell’impegno continuo dei nostri stati membri: persone, idee, capacità e danaro.
Passiamo ora da questo macroquadro a qualche area specifica, come il Medio Oriente. Gli aspetti fondamentali nel conflitto arabo-israeliano non sono cambiati negli ultimi 50 anni. Ma il contesto nel quale noi ne discutiamo sì. Ci sono molti elementi nuovi e altri hanno assunto una connotazione diversa. In questo contesto, quale dovrebbe essere la nostra filosofia? In primo luogo, un approccio che ricomprenda tutte le diverse questioni. Concentrarsi solo su un argomento e trascurare gli altri non funzionerà. Gestire tale complessità è la sfida principale della nostra politica. Tale atteggiamento chiede pari attenzione sia al metodo che alla sostanza. L’aspetto nuovo dovrebbe essere parallelo anziché sequenziale ai precedenti, creando effetti che si rafforzino reciprocamente. E dovrebbe essere inclusivo, coinvolgendo tutti i giocatori, compresi la Turchia e l’Iran.
In secondo luogo, dobbiamo passare dalla gestione della crisi alla risoluzione dei conflitti. Troppo tempo è stato sprecato nel tentativo di risolvere problemi specifici e limitati, talvolta senza successo. Non c’è da stupirsi, perché tali tematiche fanno parte di un quadro più generale e interconnesso.
Ancora: l’Europa dell’Est, l’Afghanistan, il Pakistan, la non-proliferazione e il disarmo nucleare. Permettetemi di provare a identificare alcune questioni e anche a suggerire qualche prossimo passo.
In primo luogo è opportuno sottolineare che la soluzione dei problemi è sempre politica. Le guerre civili, i conflitti fra stati, l’approvvigionamento energetico, il cambiamento climatico o la proliferazione: tutti richiedono un accordo politico che tenga conto degli interessi e dei poteri coinvolti. Il potere non può identificarsi solo con lo strumento militare o la forza economica, anche la legittimazione è importante, anzi direi che è fondamentale.
La politica estera può essere incredibilmente difficile. Paradossalmente, nella maggior parte dei casi si tratta di tematiche riconducibili alla politica interna.
Oggi possiamo fare molto di più rispetto a dieci anni fa. Ma non possiamo farlo da soli. Abbiamo bisogno di partnership regionali e globali. Questo significa lavorare con gli altri che, per definizione, hanno propri interessi e idee. Spesso, costruire delle partnership rallenta le cose, ma non esiste una scorciatoia. Talvolta governare con altri partner è necessario, anche se può comportare tempi più lunghi e difficoltà. Stiamo operando sempre di più in paesi lontani. Spesso sono paesi che non comprendiamo bene. Ciò evidenzia la necessità di buone analisi. È importante che lo facciamo insieme come europei, invece di farlo ognuno per sé, a livello nazionale.
Sono convinto che l’obiettivo della diplomazia sia di creare regole condivise: sulla partecipazione politica, sulla demarcazione dei confini, sui movimenti degli equipaggiamenti militari.
Regole per domare la passione degli stati e degli individui, per porre fine ai conflitti dentro o tra gli stati. Regole che ci aiutino ad affrontare gli enormi problemi del nostro tempo.
Il moltiplicarsi di leggi, procedure e istituzioni sembra un lavoro noioso; ma ciò è alla base della civilizzazione globale. Le regole condivise rendono i paesi sicuri e i popoli liberi.
Quali sono i prossimi passi? La nostra responsabilità primaria è far funzionare l’Europa. Rafforzare la nostra abilità collettiva nel gestire le crisi globali. Inoltre, abbiamo bisogno di più ampie competenze per più ragionevoli priorità di bilancio e più sofisticate analisi politiche. Tutti e tre gli obiettivi sono a portata di mano.
La politica estera dell’Ue non può funzionare se è vista solo come un’agenzia di servizi per particolari problemi dei singoli paesi membri. Non funzionerà una Ue dove tutti cercano più risorse per soddisfare le priorità interne mentre si disimpegnano dagli altri temi. Abbiamo bisogno di solidarietà, non solo in termini economici, ma anche politici.
Dobbiamo sostenere uno Stato membro quando ha un problema o un’esigenza particolare. E dovremmo essere rigorosi su qualsiasi uso irragionevole della regola dell’unanimità. L’assioma non scritto dell’Unione è, infatti, thou shalt negotiate, cioè negozierai. Dunque, non dobbiamo semplicemente adagiarci sulla nostra posizione, ma costruire una politica estera adeguata ai problemi del XXI secolo. Non dovremmo mutuare a livello europeo ciò che non funziona a livello nazionale: per questo la politica estera deve essere integrata e orientata verso la mobilizzazione delle reti e delle alleanze, assumendo dei rischi calcolati.

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