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personaggi 4/2014
Storie di chi si è dato coraggio

Tandura Alessandro Tandura

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Animato dal più ardente amor di Patria, si offriva per compiere una missione estremamente rischiosa: da un aeroplano in volo si faceva lanciare con un paracadute al di là delle linee nemiche nel Veneto invaso, dove, con alacre intelligenza e indomito sprezzo di ogni pericolo, raccoglieva nuclei di ufficiali e soldati nostri dispersi e, animandoli col proprio coraggio e con la propria fede, costituiva con essi un servizio di informazioni che riuscì di preziosissimo ausilio alle operazioni. Due volte arrestato e due volte sfuggito, dopo tre mesi di audacie leggendarie, integrava l’avveduta e feconda opera sua, ponendosi arditamente alla testa delle sue schiere di ribelli e con esse insorgendo nel momento in cui si delineava la ritirata nemica, e agevolando così l’avanzata vittoriosa delle nostre truppe. Fulgido esempio di abnegazione, di cosciente coraggio, e di generosa, intera dedizione di tutto se stesso alla Patria.

Piave – Vittorio Veneto, agosto-ottobre 1918

Nasce a Vittorio Veneto (Treviso) il 17 settembre 1893, figlio di un maestro elementare. Lo sarebbe anche lui, ma la Grande guerra lo travolge e lo vota alle armi. È alpino e un pioniere: nell’agosto 1918, come attesta la proposta di decorazione avanzata dal Comando dell’8a Armata, «accettava di libera elezione di esperimentare un nuovo sistema di discesa dall’alto e, a mezzo di paracadute, si faceva lanciare da un apparecchio in volo nella zona di Vittorio Veneto». L’impresa – affrontata su richiesta dell’Ufficio Informazioni della Grande Unità e che gli vale la Medaglia d’Oro – è ricordata da egli stesso nel volume edito da Zoppelli, Tre mesi di spionaggio oltre il Piave (all’epoca l’affidabilità del paracadute non è assoluta, e le cronache riferiscono spesso di sventurati che, illusi di raggiungere il suolo con la levità delle farfalle, si sfracellano malamente). L’aereo, un Savoia-Pomilio da bombardamento, ha un equipaggio composto da due ufficiali, uno canadese e uno inglese, come di fabbricazione inglese sono quasi tutti i paracadute, disponibili in numero esiguo, non recuperabili dopo l’uso e quindi costosissimi. Tandura precipita nel vuoto all’improvviso, per l’apertura di una botola sulla quale è sistemato, da 1500 piedi di quota, di notte: il paracadute, piccolo, nero come un necrologio, esita, finalmente si apre, per un attimo spinge in alto il suo fardello vivente, poi veleggia verso terra. Tandura, primo paracadutista della storia in azione di guerra, arriva fuori bersaglio, nel vigneto del parroco di San Martino, mentre infuria un temporale, ma vi arriva indenne. Fa il diavolo a quattro: manda informazioni, è catturato due volte e fugge due volte (in un caso saltando da un treno in corsa), organizza e mobilita una banda di partigiani alla cui testa prende parte allo scontro finale di Vittorio Veneto. La fidanzata e la sorella, per il sostegno fornitogli sfidando gravi pericoli, vengono entrambe decorate di Medaglia d’Argento al Valor Militare. Muore in Africa, a Mogadiscio, nel 1937, ancora giovane. Nel 1944, nella zona goriziana del Collio, la Seconda guerra si prende il figlio Luigi, poco più che ventenne, anche lui decorato di Medaglia d’Oro.


Le ali delle farfalle di Giampaolo Rugarli
Tsushima... Era un’isola lontana, molto lontana, e se ne era parlato l’anno prima, come si era parlato della Russia. Le notizie giungevano in ritardo e in modo frammentario. Nell’estate del 1906 le grandi questioni di politica internazionale ci interessavano per quel tanto che colpiva la fantasia di noi ragazzi. Beh, a essere sincero, mi tiro fuori: ero il più vecchio ed ero stato ordinato sacerdote già da due anni, le fanfare di guerra non erano certo il mio genere. Ci incontravamo a Colle Umberto, dove ero proprietario di una vigna, a lato della quale svettava una torretta dove raccoglievamo l’uva e, dopo la pigiatura, le vinacce. Discutevamo di tante cose: dell’impresa di Alberto Santos Dumont (era riuscito a volare per una cinquantina di metri o poco meno), dei dirigibili e dei paracadute.
Eravamo un gruppo affiatato. I più assidui erano Alessandro Tandura che, sebbene avesse tredici o quattordici anni, era sveglio come avesse avuto la mia età, e Leonardo Stelluti che, a dispetto del nome di battesimo, non era un genio (ma era un buon diavolo e gli volevamo bene, aveva perduto i genitori e viveva con una vecchia nonna). Studiavamo il volo delle farfalle: ve ne era una, molto grande, con le ali blu screziate di bianco che, prima di impennarsi nell’alto, si lasciava quasi precipitare dal ramo sul quale si era posata e, solo a uno o a due metri dal suolo, tornava a vivere e riprendeva quota. Stabilimmo una analogia tra il comportamento delle farfalle e quelle dei paracadutisti che all’estero, già da tempo, effettuavano lanci di prova buttandosi da mongolfiere o da dirigibili. Campione imbattuto e imbattibile era il francese Bernard Zaphyrous. Gli altri facevano del loro meglio. Vi erano atterraggi felici e vi erano atterraggi più bruschi. Quando il paracadute non si apriva, ciò che per fortuna accadeva di rado, la morte era sicura, ed era una brutta morte.
«A Tsushima» disse all’improvviso Stelluti (era una sera dolcissima, sul finire dell’estate), «se i russi avessero paracadutato un po’ di truppa sulle navi giapponesi, sarebbe andata a finire diversamente. Benedetti». Lo guardammo come si guarda un pazzo. I russi erano sconfitti e, a quel tempo, l’impiego di truppe paracadutate sarebbe riuscito a immaginarlo solo Jules Verne, morto proprio nello stesso anno dello scontro. A tacere dei focolai di insurrezione che erano esplosi a Pietroburgo e a Odessa... Azzardai una profezia: «Non credo che il paracadute sarà mai impiegato in operazioni belliche». «Perché?» domandò Tandura. «Troppo grosso, troppo ingombrante, troppo visibile» spiegai. «Ne hanno ridotto le dimensioni» osservò Stelluti, «poco più di un ombrello e... ». Sollevò lo sguardo e si incantò a contemplare il culmine della torretta. Non badai a quello sguardo, e feci male: purtroppo i paracadute mi interessavano, ma i casi di Pietroburgo e di Odessa mi preoccupavano. «A Tsushima» tagliai corto, «i russi erano condannati a perdere, paracadute o no. E lo zar farà bene a riflettere, se vorrà evitare l’avvento di un governo di senza religione e di senza legge... ». Con ampio gesto affettuoso indicai la vigna, dove i grappoli già cominciavano a gonfiarsi, e: «Sarebbero capaci di togliermi questo pezzo di terra che ho ereditato da mio padre e da mio nonno… Sarebbero capaci di tutto». «Chi?» chiese Stelluti che di quella sparata aveva capito ben poco. «I bolscevichi» sorrise Tandura. Soggiunse: «Potrebbero scendere col paracadute sulla tua vigna, don Lorenzo». «Tu scherzi» replicai un po’ piccato, «ma i bolscevichi fanno maledettamente sul serio. E, quanto al calarsi col paracadute sulla mia vigna, non si sa mai nella vita».
Venne il tempo della vendemmia. Per fortuna la stagione si mantenne tiepida, e il raccolto fu eccellente. Prememmo l’uva, stivammo le vinacce nella torretta, il vino prometteva di essere squisito, ad alta gradazione. Invitai gli amici, per assaggiare il novello; la zia Giustina preparò stracotto di musso e una gran polenta. Proprio quella sera il tempo girò a pioggia, una vera disgrazia, perché avrei voluto apparecchiare la tavola all’aria aperta. Riparammo al pian terreno della torretta: lo spazio era esiguo, e il profumo delle vinacce fortissimo, ma almeno stavamo al coperto. Vennero sei o sette amici, e naturalmente vennero Stelluti e Tandura. Tutti muniti di ombrello, tant’è che non si sapeva dove riporre la selva dei paracqua. Si trovò una soluzione, li sistemammo in cantina. Mangiammo e bevemmo: più del dovuto, ma fummo tratti in inganno dal novello, picchiava in testa peggio di vino invecchiato. Non pioveva più, e anzi la luna si affacciava da uno squarcio del cielo: ci portammo all’aperto, e respirammo aria fresca. Finalmente: nella torretta stavamo stretti, soffocavamo dal caldo e dal sentore turgido delle vinacce.
«Ai primi freddi» osservò Tandura «le farfalle svaniscono. È un peccato». «Che ti frega delle farfalle?» qualcuno domandò con intenzione di scherno. «Sono belle» fu la risposta, «sono piene di colori e volano». «Ne hai mai acchiappata una?» mi intromisi. «Sì, una volta» disse esitando il mio giovane amico, «però me ne sono pentito... Le ali era come se tra le mie dita si polverizzassero, come se perdessero i colori, la luce, la leggerezza... Non so come esprimermi: mi sembrò che la farfalla, le sue ali esistessero nella mia fantasia, e potessero esistere solo a patto che io non cercassi di dare corpo ai miei sogni. La farfalla che avevo catturato non riprese il volo, cadde ai miei piedi inanimata, forse morta, e io pensai di aver commesso un assassinio». «Un assassinio!» sbottai per sdrammatizzare. «Mi pare che ci sia differenza tra gli esseri umani e i lepidotteri... ». «Questo è vero» consentì Tandura, «gli esseri umani non hanno ali, se non per modo di dire».
Proprio sicuro che gli esseri umani non avessero le ali? Un grido attirò la nostra attenzione verso il culmine della torretta, e tutti alzammo il capo per comprendere che cosa significava quel richiamo. Una rondine rimasta per via? Un uccello notturno? Macché. Stelluti, dall’alto, reclamava la nostra attenzione e, strepitando, saltellava, ballava, brandiva un ombrello chiuso. Aveva bevuto molto, non era in sé. «Che cosa fai, lassù?» lo apostrofai, mentre gli altri ammutolivano. Ebbi paura per lui, la torretta era alta non più di dieci metri, ma una caduta poteva essere fatale. «Mi lancio con il paracadute: benedetti» sogghignò Stelluti. «Non dire sciocchezze» lo rimbeccai, sforzandomi di non smarrire la calma. «Non c’è nessun paracadute, e tu potresti solo romperti l’osso del collo... ».
Non finii di parlare. L’ubriaco si fece il segno della croce, spalancò l’ombrello e si buttò nel vuoto. Lanciammo un urlo di sgomento e uno o due si coprirono gli occhi per non vedere. Per una frazione di secondo l’ombrello si gonfiò, si arrotondò, prese l’aspetto di un pallone, ma subito si svuotò, si afflosciò, ricadde come un cencio. Ricadde come un cencio anche Stelluti che, tuttavia, salvò l’osso del collo, grazie a un accogliente mucchio di letame, sebbene al suo arrivo, in luogo di ringraziare il Signore che gli aveva risparmiato la vita, lo bestemmiò ripetutamente. Si era rotto una gamba: tutto sommato un prezzo esiguo per un salto di dieci metri.
«Era sbronzo da far schifo» disse Tandura, «ed è un po’ colpa nostra: avremmo dovuto tenerlo d’occhio». Aveva ragione, ma come si poteva immaginare che i fumi del vino lo avrebbero indotto a paracadutarsi appeso a un ombrello? Stelluti ebbe fortuna, nella sua follia: la sua frattura risanò perfettamente, dopo due mesi di gesso, e l’incidente fu rimosso dai nostri discorsi. Non se ne parlò mai più, anche se Stelluti non smise di parlare di paracadute e di paracadutismo. Si iscrisse a un corso di addestramento e, dopo qualche tempo, conseguì non so che strano brevetto. Mi annunciò che vi sarebbe stata una esibizione, dalle parti del Meschio, e mi invitò ad assistere. Rabbrividii, però non ebbi il coraggio di rifiutare.
Ne parlai con Tandura. Non era più un ragazzino, era cresciuto, e non so più se avesse conseguito il diploma di maestro o la maturità classica. I pezzi di carta contano poco. Era molto istruito ed era maturo come un uomo fatto. «Ha invitato anche me» disse Tandura, «e anch’io non ho avuto il coraggio di rifiutare. D’altronde, un conto è lanciarsi in stato di ebbrezza appeso a un ombrello, altro conto è farlo dopo un meticoloso tirocinio, con le attenzioni e le cautele del caso. Dovrebbe arrivare a terra sano e salvo, così spero». «D’accordo» ammisi a malincuore, «ma vorrei capire che cosa è questa mania di buttarsi nel vuoto». «Tu sei un prete, don Lorenzo» osservò il mio amico, «e tu conosci un solo tuffo nel vuoto... quello che ci attende, quando saremo morti». «Non è un tuffo nel vuoto!» protestai. «Troveremo ad accoglierci le braccia misericordiose... ». «Don Lorenzo!» Tandura mi interruppe, con tono metà di rimprovero e metà di ironia. «Stelluti non credo che abbia mai pensato all’al di là; vive, beato lui, come se gli spettasse un al di qua eterno e inesauribile. Col paracadute si illude di volare... del resto, tutti noi voliamo, ma solo con le ali del pensiero o della fantasia. Non ne abbiamo altre, a nostra disposizione. Stelluti non ha neppure quelle, così si illude di conquistare le ali delle farfalle. A ogni modo, questa volta la situazione è sotto controllo: possiamo andare alla manifestazione paracadutistica in assoluta tranquillità, nessuno si romperà la testa».
Così fu, nessuno si ruppe la testa. I lanci avvenivano da un dirigibile, che stazionava a mille metri di quota, all’incirca: c’era molta folla, e il pubblico col naso per aria, seguiva le evoluzioni degli uomini volanti. I più coraggiosi sembravano mettere in funzione il paracadute poche centinaia di metri prima di toccare il suolo: e, a vederli precipitare, c’era sempre il dubbio che non avrebbero fatto in tempo ad azionare il dispositivo di apertura, poi, dopo secondi lunghi come ore, la grande corolla di seta bianca si schiudeva, e gli intrepidi giungevano sani e salvi, tra gli applausi della gente. Stelluti fu tra i più bravi, planò spalancando le braccia, arrivò a terra con una impeccabile capovolta. Appena potemmo abbracciarlo per complimentarci: «Benedetti» esclamò, «non c’è proprio da aver paura, è una ginnastica come tante altre».
Correva l’anno 1914 e, oramai archiviata la guerra russo-giapponese e la battaglia navale di Tsushima, scoppiò un’altra guerra per allietare gli spiriti eroici. Alla fine di luglio, Francesco Ferdinando (erede al trono d’Austria) e sua moglie si erano recati in visita a Serajevo: non tutti gradirono e, infatti, l’augusta coppia fu uccisa a pistolettate da tal Gavrilo Princip, studente e terrorista (ed è singolare come spesso e volentieri queste due qualifiche si associno: se sia lo studio che invoglia alla violenza o viceversa, non saprei). Poco più di un mese dopo tutta l’Europa era in fiamme. E l’Italia? Il primo ministro Salandra annunciò che ci saremmo mantenuti neutrali, mentre i soliti spiriti eroici reclamavano il nostro intervento contro gli imperi centrali peraltro nostri alleati. «Marciare e non marcire» tuonava Marinetti.
Non sono che un povero prete e, se i popoli si combattono, non posso che deplorare: si trova sempre un modo per mettersi d’accordo. Tandura era infervorato, acceso: per fortuna aveva conosciuto Maddalena Petterle, una bella ragazza, e se ne era innamorato, il che non gli aveva fatto dimenticar l’amor di patria ma gli aveva suggerito atteggiamenti meno scomposti. Quanto a Stelluti, si lanciava con il paracadute e, forse, non si era neppure accorto che era scoppiata una guerra. Pregavo, anche di più di quanto spetti a un umile sacerdote: ma era solo appellandomi alla pietà del Cielo che mi riusciva di accettare un mondo nel quale mi sentivo sempre più esiliato.
Il mese di settembre, Maddalena Petterle venne a farmi visita nella vigna di Colle Umberto. Stavo preparando la vendemmia, e tutto mi sarei aspettato tranne quella visita: la ragazza l’avevo incontrata una volta soltanto, quando Tandura me l’aveva presentata, e avevamo scambiato poche parole, pochi convenevoli, e poi non ne avevo saputo più niente. Fui molto sorpreso, tanto più che stava calando la sera, ma lei mi disse di essere stata accompagnata da un vetturale su un calesse, e che sarebbe ritornata nello stesso modo. Mi confidò di essere stata lì per lì dall’arrivare, niente meno, in automobile! Purtroppo la Fiat Tipo Zero, che avrebbe dovuto portarla, si era scassata sul più bello.
Sedemmo all’aperto, tra le vigne, mentre in alto apparivano le prime stelle. Andai subito al sodo e: «Qual buon vento?» domandai. Maddalena sorrise: «Vorrei il tuo aiuto o meglio il tuo consiglio, don Lorenzo... Tu sai che io voglio bene ad Alessandro, e che lui ne vuole a me. Non ci sono ombre. Ma adesso c’è qualcosa che mi turba... ». Per farla breve, il giovane Tandura aveva deciso di arruolarsi volontario, perché era convinto che presto l’Italia sarebbe entrata in guerra contro l’Austria, così lei, povera figlia, viveva un intimo conflitto, tra i suoi sentimenti di innamorata e quelli di patriota, e non sapeva se incoraggiare o scoraggiare la risoluzione del fidanzato.
Non seppi che cosa rispondere. Tergiversai, mostrai di approvare l’una e l’altra scelta, indifferentemente. In realtà anelavo alla pace, e mi sconcertava che Tandura, un giovane pieno di senno e di equilibrio, volesse offrirsi volontario per andare in guerra. Ero nato in tempi sbagliati, pensai: nella mia idea di povero prete, ciò che contava era vivere confidando nel Signore, mentre sembrava che fosse più importante morire confidando nella Patria. Ebbi un’ispirazione. «Non credo che tu debba suggerire nulla ad Alessandro» conclusi, «lascia che faccia come a lui sembra giusto, così non potrà mai rimproverarti di averlo spinto verso una scelta sbagliata».
«In questo responso c’è la saggezza di Ponzio Pilato» obiettò Maddalena, «però credo che tu abbia ragione, don Lorenzo. Sono scelte troppo importanti, ed è meglio non intromettersi». In quel momento una farfalla fuori stagione si posò su un tralcio di vite, davanti a noi: aveva colori vivaci sulle ali, era molto bella. «È una Atalanta purpurea» spiegò Maddalena, «e, chi sa perché, appare quando il tramonto della Pleiadi è imminente». «Te ne intendi?» le chiesi. «Abbastanza» rispose. «Mi sono sempre piaciute le farfalle, e io ne ho una collezione». «Una collezione?» mi stupii. «Com’è possibile? Le tieni chiuse in gabbia?» «Macché!» scoppiò a ridere. «Che cosa ti salta in mente? Non sono vive: sono morte, sono tutte morte, e ne ho riempiti tre album. Le catturo con il retino, e poi le chiudo in un flacone dov’è una compressa di bambagia imbevuta nel veleno. Dalla compressa si sprigiona un gas che le uccide e le mummifica: e io posso conservarle come si fa con la raccolta dei francobolli». «Perché fai questo?» la rimproverai. «II tuo passatempo mi sembra inutile e crudele... ». «Don Lorenzo» lei sospirò, «può anche darsi che tu abbia ragione, ma la bellezza a me dispiace che se ne voli via... Voglio impadronirmene, custodirla, conservarla... Voglio vederla, toccarla. Altrimenti se ne fugge tutto con i nostri pensieri... ». «E non è meglio così? Che se ne fugga tutto con i nostri pensieri?» borbottai.
Nella primavera del 1915 l’Italia intervenne nella guerra: Tandura e Stelluti già si erano arruolati, e Tandura si beccò quasi subito una brutta ferita a un braccio. Stelluti di tanto in tanto inframmezzava alle operazioni belliche qualche esibizione col paracadute: per non smettere l’allenamento, lui diceva. Ma erano brevi esibizioni, e non sempre era ammesso il pubblico. L’ultima grande manifestazione di lancio si era tenuta dieci giorni prima dell’inizio delle ostilità, e aveva partecipato anche Bernard Zaphyrous, che naturalmente aveva vinto. Stelluti era arrivato buon secondo, e aveva lamentato alcune imperfezioni nel suo modello di paracadute. Molto meglio il modello inglese, aveva affermato.
Io di queste cose non ci capisco niente, ma credo che la calotta di seta o di tessuto leggero sia collegata a una serie di tiranti che si congiungono in un moschettone. Tra il moschettone e l’imbracatura che lega il paracadutista c’è una sorta di corda elastica per attenuare il contraccolpo dell’aria, appena l’ombrello si apre. Ebbene, Stelluti aveva criticato la giunzione tra l’imbracatura e i tiranti, a suo dire troppo lunga, troppo cedevole. E anche la calotta a suo parere era troppo ampia: ne sarebbe bastata una con un diametro di due metri e mezzo o, meglio ancora, in luogo della calotta, un rettangolo di tessuto, a forma di aquilone. «Scendo troppo piano» aveva concluso, scuotendo il capo, «e così, quando siamo in gara, vince sempre Zaphyrous e, quando domani saremo in azione di guerra, il più stupido cecchino potrà aggiustare il tiro come vorrà. Benedetti».
Come ho detto, le azioni di guerra cominciarono dieci giorni dopo e il tiro fu aggiustato da tutte e due le parti. Vi fu gloria per molti e disonore per qualcuno. Guardando le cose dal mio punto di vista di povero prete, fu una carneficina che straziò il cuore di madri e di spose. Le vicende del conflitto sono note e non sto a riassumerle: il 1917 fu l’anno di Caporetto e il 1918 fu l’anno della riscossa. I miei amici, e tanti altri che erano partiti, si comportavano da coraggiosi, e io non potevo fare a meno di ricordare la teoria di don Abbondio a proposito del coraggio: don Abbondio sbagliava, di innato, di istintivo non c’è che la paura, mentre il coraggio uno può e deve darselo, perché si tratta di una scelta morale. Ma quella scelta quanto costa cara! Nell’estate del 1918 riapparve Maddalena Petterle. Venne a trovarmi a Treviso, la mia vigna di Colle Umberto era in mano agli austriaci. Sembrava che avesse pianto, e a lungo. «Ti porto brutte notizie, don Lorenzo» esordì, «sempre che tu non sia già informato». «Non so niente» risposi con l’angoscia nella voce, «e vorrei che tu non mi tenessi in ansia... Che altro è successo?». Dissi «altro», perché un mucchio di cose già capitate mi sembravano orribili. «Stelluti ci ha lasciati... » mormorò Maddalena, e poi, abbandonando gli eufemismi, precisò: «È morto, lo hanno ammazzato. Sai... il Comando cercava un volontario, per paracadutarlo al di là del Piave, oltre le linee austriache. C’era bisogno di raccogliere informazioni sul nemico: truppe, materiali, dislocamenti... Stelluti era l’uomo giusto, e del resto si era offerto lui stesso. Sarebbe voluto scendere di notte, con un piccolo paracadute di colore nero, di quelli fabbricati dagli inglesi, ma un paio di ufficiali del Comando si erano opposti, giurando che, in quelle condizioni, si finiva sfracellati a terra. Niente da fare, a parere degli ufficiali il modello più sicuro era quello ampio, di seta bianca (purtroppo ne avevano uno soltanto, e lo avevano tenuto da parte proprio per lui). Gli avevano garantito che lo avrebbero lanciato in una sorta di terra di nessuno, lontano dal fronte, dagli austriaci, lontano da tutti... Stelluti non era rimasto molto convinto e, alla vigilia del lancio, si era confidato con Alessandro. Gli aveva raccomandato di prendersi cura di sua nonna, se le cose fossero andate storte. In effetti, il poveretto era caduto dove non c’era nessuno, quasi nessuno, tranne un tiratore austriaco che gli aveva sparato mentre scendeva. Niente capovolta: quando aveva toccato terra, era già morto». Chi sa se prima di essere colpito, era riuscito a scorgere il cecchino, pensai: temo di sì, e forse nel rendere l’anima, aveva rimpianto che non gli avessero dato ascolto, ci voleva il modello inglese, benedetti.
A Treviso, io e altri preti dei territori occupati avevamo trovato rifugio nel Seminario Vescovile, già convento dei domenicani, monumento insigne per il chiostro e per gli affreschi di Tommaso da Modena nella Sala del Capitolo. Di arte non mi intendo, architettura e pittura parlano al mio cuore molto meno di una vigna che sta per colmarsi di uva. A dirla tutta, l’arte mi mette in soggezione. Maddalena l’avevo ricevuta nel chiostro: respiravo meglio all’aria aperta, e poi, in un luogo dove passava sempre qualcuno, evitavo le chiacchiere. Ma, dopo aver saputo di Stelluti, avevo un gran desiderio di solitudine: volevo appartarmi a pregare.
«Ci sono altre notizie?» domandai, preparando il commiato. «Si» confermò Maddalena, «c’è un’altra notizia. C’è che, per lanciarsi con il paracadute, si è offerto Alessandro Tandura, e credo che, abbastanza presto, non so se di giorno o di notte, partirà in missione». «Alessandro!» esclamai. «È una follia: non si è mai lanciato, non ha la più pallida idea di ciò che significhi... ». «È vero» mi interruppe Maddalena, «non si è mai buttato nel vuoto da un aeroplano, ma lui dice che questo è un particolare insignificante, che il paracadute fa tutto da solo e che è di modello inglese... ». «Immagino che sia impossibile dissuaderlo» commentai desolato. «Niente da fare» disse Maddalena, «si è intestardito e... non so. Le ho tentate tutte per fargli cambiare idea, l’ho anche accusato di voler dimostrare il suo coraggio, come un ragazzino. Mi ha risposto che il coraggio è fuori causa, e che, anzi, lui ha una terribile paura». «Ma parte lo stesso!» gridai esasperato. «Allora è pazzo, completamente pazzo... ». Tuttavia sapevo che non era così.
Fu in quel momento che una farfalla variopinta atterrò ai nostri piedi. Maddalena la contemplò con affetto e: «È una Pentesilea sulfurea», spiegò, «ed è strano che sia giunta sino a qui. Non è il suo tempo e questo non è il suo posto. Tuttavia è molto bella... ». «Potresti catturarla» insinuai, con una sfumatura di malinconica ironia, «e conservarla nella tua collezione». Il volto di Maddalena si incupì. «I miei album li ho gettati via» disse. «Non faccio più la raccolta delle farfalle: ucciderle mi sembra un gioco stupido e crudele, adesso. È giusto lasciarle volare».
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