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personaggi 3/2014
Storie di chi si è dato coraggio

Giacomo Camillo De Carlo Giacomo Camillo De Carlo

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

In momento grave e decisivo per le sorti dell’Italia, offrivasi per primo, con sublime ardimento, per farsi trasportatore, di nottetempo, in aeroplano al di là del Piave, per iscoprire direttamente quanto il nemico macchinasse su quel lembo di Patria strappatoci e accuratamente celato agli altri ordinari mezzi d’informazione. Per quasi tre mesi, sostenuto dal vigile affetto delle popolazioni, ma sospettato e ricercato dalla polizia nemica, riusciva, vivendo vita di leggenda, a mandare preziose informazioni e a organizzare un efficace servizio. Falliti i tentativi di ritorno per via aerea, scelse quella di mare, rientrando per riferire di persona e offrirsi nuovamente al rischioso cimento. Fulgido esempio di valore e di audacia, rinnovava imprese che già, nei tempi tristi della straniera tirannide, avevano fatto tremare gli oppressori e aperto la via alla redenzione.

Fronte del Piave – Territorio invaso, 29 luglio-2 novembre 1918

Come attestano i documenti, il 6 aprile 1982 nasce a Venezia un bambino di sesso maschile chiamato De Carlo Giacomo Camillo. Il bambino cresce, prova a godersi la vita civile ma poi si vota a quella militare. Disegnatore nel mondo dell’alta moda parigina, dirà che senza la guerra il romanzo della sua vita sarebbe rimasta una storia possibile, mentre con la guerra è diventata un romanzo che si è realizzato. Nella primavera del 1918 è aggregato come osservatore aereo. Capitano nel 1934, poi maggiore per meriti eccezionali e tenente colonnello nel 1942, è in Etiopia, Spagna, Albania e Libia. Le più grandi prove di ardimento le offre durante la Prima guerra mondiale, e si ricordano un atterraggio di fortuna compiuto con il radiatore dell’aereo bucato e un altro con l’elica fatta a pezzi dal fuoco dell’artiglieria nemica. Il suo capolavoro è l’attività informativa svolta per tre mesi alle spalle delle linee nemiche, su incarico dell’Ufficio Informazioni della 3^ Armata. De Carlo è braccato dalla polizia austriaca che, tuttavia, non riesce a impedirgli di tornare in patria, sia pure in modo a dir poco avventuroso. Già insignito di Medaglie al Valore Militare, guadagna infine quella d’Oro. Durante la Seconda guerra mondiale svolge incarichi in Italia e all’estero. Uomo coraggioso e colto, conoscitore di quattro lingue, governa la municipalità di Vittorio Veneto. Nel 1968, proprio a Vittorio Veneto, sua patria di elezione, fervono i preparativi per solennizzare il cinquantesimo anniversario della Vittoria, ma il destino si beffa del Nostro, per l’ultima volta. Muore il 28 marzo di quell’anno, a pochi mesi dalla celebrazione.


Fuochi Fatui di Giampaolo Rugarli
Che strana domanda, la sua! Vuole sapere se ho mai conosciuto la disperazione? Mi perdoni: lei è molto giovane… Mi dice che scrive per il giornale, e mi chiede un’intervista. Beh, oramai ho passato la settantina e capisco che i tempi sono cambiati: nondimeno presumo di aver mostrato coraggio, di aver meritato dalla Patria, e lei mi domanda se ho mai conosciuto la disperazione! Vuole mettermi in imbarazzo? Si, in confidenza, vi fu un momento della mia vita in cui mi sentii completamente solo e abbandonato. Non so se sia questa la disperazione: a me parve di essere tagliato fuori, escluso dal mondo che mi ignorava e di me non sapeva che farsene. Era notte e, nel mezzo di un prato immenso, accendevo fiammiferi, uno dopo l’altro. Consumai un’intera scatola di zolfanelli e, quando fu finita, non mi vergogno di confessarlo, un nodo di pianto mi strinse la gola. Perché accendevo fiammiferi, in un prato di notte? No, non era per riscaldarmi… Certo, tornò alla mia mente la fiaba di Andersen, ma nessuna analogia era possibile tra me e la piccola fiammiferaia. Non avevo nessun bisogno di riscaldarmi, era estate, l’aria era tiepida, e il richiamo degli uccelli notturni rompeva il silenzio dintorno; soprattutto, a tenermi compagnia non c’erano immagini di incantesimi, semmai c’erano i ricordi di un’avventura che stentava a trovare il lieto fine.
Perché accendevo zolfanelli, in un prato, di notte? Cercavo di segnalare che ero là: aspettavo un aeroplano per ritornare a casa. L’aeroplano sarebbe atterrato sulla distesa d’erba, si sarebbe fermato giusto il tempo per imbarcarmi, senza arrestare il motore e poi sarebbe subito ripartito. In alto, sempre più in alto. Dove i proiettili dell’artiglieria austriaca non potevano raggiungerci e dove le stelle si avvicinavano. A proposito: bisognerà che le parli dell’avvicinamento delle stelle, me ne faccia memoria, è molto importante. Però non vorrei divagare. Ebbene, l’aeroplano non arrivò o forse arrivò e non mi vide… Benché la notte fosse illune, erano tante le luci nel cielo, e la fiamma dei miei poveri zolfanelli, per quanto un aereo scendesse verso il suolo, brillava come i fuochi fatui che mi avevano inseguito nel cimitero di Vittorio Veneto, quando, di nascosto, ero andato a pregare sulla tomba della mia povera mamma…
Sto facendo un po’ di confusione, signorina. Sa com’è: certi ricordi sono onde di un mare in tempesta, non si lasciano governare. Dopo la ritirata di Caporetto nel 1917, tra le linee austriache e quelle italiane c’era di mezzo il Piave: passare da una all’altra parte era diventato quasi impossibile, così non si vedevano più disertori che, stanchi di combattere, si arrendevano e fornivano preziose notizie sulle forze avversarie. La parola ‘disertore’ l’ha sorpresa spiacevolmente… E non deve stupirsi. I militari austriaci provenivano da tutte le parti dell’impero e, spesso, appartenevano a comunità che rivendicavano l’indipendenza: pensavano di tradire se combattevano per l’Austria e non se combattevano contro l’Austria. A ogni modo, il provvidenziale flusso di informazioni sui piani del nemico, sul numero delle truppe e sull’entità degli armamenti si era interrotto: così, al di qua del Piave, qualsiasi previsione era impossibile. Vi sarebbe stato un ulteriore attacco? E, se sì, dove? O vi sarebbe stata l’opportunità di riprendere l’iniziativa? Mistero. Perciò si decise di spedire alcuni volenterosi a dare un’occhiata dal lato degli austriaci, per capire quello che aveva in serbo il futuro.
Non mi chieda perché mi offersi volontario e neanche se lo rifarei. Non lo so. Non voglio propormi come un eroe e nemmeno voglio esserlo. So che allora pensai di andare e scelsi come mio compagno Giovanni Bottecchia, un ragazzo di vent’anni che prometteva bene e portava un cognome illustre (suo fratello era un campione del nuovo sport velocipedistico). Fu un Voisin a portarci nel territorio occupato dal nemico, un bell’aereo, veloce, silenzioso (per quanto si poteva), simile a un insetto con la testa grossa e il corpo sottile. D’Annunzio aveva dimestichezza con gli aviatori e con i velivoli: mi sembra che paragonasse il Voisin a una libellula, ma D’Annunzio era un poeta e i poeti (si sa) volano specialmente con la fantasia. Scendemmo a terra, io e Bottecchia. L’aereo ripartì subito e quando fu sparito nella tenebra, quando fu spento prima il ronzio e poi il sussurro sempre più lontano del motore, beh, io e Bottecchia ci guardammo in faccia e, senza dire parola, ci stringemmo la mano.
Riparammo nel bosco, non lontano da Aviano, dove, più o meno, eravamo sbarcati (e ad Aviano c’era un campo di aviazione, una base di aerei nemici: forse anche oggi vi è una base aerea, segno che persino ai luoghi spetta un destino). Le dicevo che riparammo nel bosco e che, sino al termine della missione, il nostro nascondiglio fu tra le forre, gli alberi, gli arbusti, la vegetazione selvatica. Inselvatichimmo anche noi, per mimetizzarci e acquisire l’aspetto di contadini del luogo. Per lo più uscivamo di notte e, a distanza di tanti anni, quel pezzo della mia esistenza trascorso al buio mi appare non so più se un incubo o se una malattia, di quelle che esigono la quarantena.
Non credo le interessi ciò che io e Bottecchia riuscimmo a combinare. Segnalavamo con lenzuola stese sulla riva dei fiumi o con piccioni viaggiatori, dei quali fummo tempestivamente riforniti (molto ci aiutò la popolazione locale): non so quanto giovarono alla causa italiana i nostri finti bucati e i nostri colombigrammi, ma suppongo che ebbero qualche utilità. Purtroppo Bottecchia fu beccato a un controllo di polizia, mentre io la scampai per un miracolo. Fu evidente che, da solo, e con gli austriaci sulle mie tracce, non sarei più riuscito a combinare niente, e conveniva che io tornassi indietro al più presto. Già avevo mandato un preavviso: «Il lupo è stanco di camminare», e lo avevo mandato ancor prima della cattura di Bottecchia. Alcuni piccioni viaggiatori erano stati intercettati e la situazione si era fatta molto pesante. L’intesa era che il Voisin sarebbe tornato a riprenderci dove ci aveva lasciati: ma per una ragione o per un’altra andava sempre buca. O c’era troppa luna o troppa nebbia o troppe nuvole: il vento portava lo stormire di una fronda e, per un poco, m’illudevo che un apparecchio si stesse avvicinando. Poi il silenzio si ricompattava e la solitudine mi stringeva alla gola come un cappio.
Con Bottecchia avevamo sperimentato la via di fuga, a piedi, per vedere se era praticabile. Ci aveva respinti il Piave, la corrente era troppo impetuosa, impossibile attraversare il fiume a nuoto. E c’era il rischio che ci sparassero addosso, da una parte e dall’altra parte. Bottecchia cadde nelle mani della polizia a Tarzo, un borgo non lontano da Vittorio Veneto: gli chiesero chi era e che cosa faceva, lui disse di essere un contadino, gli guardarono le mani e la menzogna fu palese. Trovai rifugio da una povera donna, Maria De Luca, che senza tante domande accettò di nascondermi.
La casa di Maria De Luca era di pietra, molto povera, un tugurio più che una casa. Ricordo il camino reso nero dal fumo, un paiolo sgangherato, gli attrezzi per lavorare i campi appoggiati in un angolo del muro; e ricordo una culletta di legno, dove sembrava che una bambina stesse riposando. Ma non dormiva. Nei suoi occhi spalancati (di un colore azzurro intenso, quasi viola) vi era una fissità innaturale e il suo sguardo, se di sguardo posso parlare, era quasi di rimprovero, di accusa, come se volesse contestare un torto del quale era stata vittima senza colpa alcuna. Respirava roca, anzi rantolava.
«Che cosa ha… » domandai. «È mia figlia» rispose Maria De Luca, «sta morendo». «Com’è possibile?» esclamai, e subito compresi di aver parlato scioccamente. Abitavamo un mondo in cui morire era più facile che vivere, anche per i bambini. Tentai di dare un minimo di razionalità alla mia meraviglia, e soggiunsi: «Non l’ha visitata un medico? Non ha prescritto farmaci… medicine?». «Il medico ha visto la bambina ieri sera» cantilenò Maria De Luca, «ha detto di lasciarla morire in pace, che non c’era niente da fare». Parlò senza un’incrinatura nella voce, senza una lacrima a inumidirle i cigli. «Com’è possibile?» ripetei, e mi sentii stupido per la mia incapacità di rassegnarmi. «Ha la spagnola» tagliò corto Maria De Luca.
Mio Dio, la spagnola. Era una terribile febbre influenzale che per la prima volta si era manifestata in Spagna e che poi aveva preso a girare per il mondo, facendo più vittime di quante ne faceva la guerra. Era contagiosissima e non c’erano rimedi: per lo più si moriva, però, in alcuni casi fortunati, si poteva guarire. Grosso modo c’era una probabilità su tre di scamparla. Rabbrividii di paura, lo confesso. Pensai che stavo rischiando di infettarmi e, costretto com’ero alla macchia, senza un tetto, senza un giaciglio, l’esito letale sarebbe stato immancabile.
Maria De Luca mi lesse nel pensiero. «Il medico mi ha spiegato come evitare il contagio» disse, «basta non toccarla e soprattutto stare lontani dal suo respiro… Povera bambina». «Lei non l’ha più toccata?» chiesi sgomento. «Certo che l’ho toccata» protestò Maria De Luca, «e la tocco anche adesso». Si avvicinò alla culla e accarezzò sulla fronte la creaturina morente. Con un sorriso spento mormorò: «Ma io sono la sua mamma… Sfortunatamente non si accorge più di nulla, non sente più nulla, è come se fosse già volata in paradiso. Se il paradiso esiste…Tu credi che ci sia? Almeno per i bambini… ». «Per i bambini esiste di sicuro» la incoraggiai. Con amarezza aggiunsi: «E forse esisterà anche per il mio compagno, abbastanza presto. I poliziotti lo hanno arrestato, qui a Tarzo. Se non lo rilasciano subito, saranno dolori». «Li spediscono a Graz gli spioni… » precisò Maria De Luca. Si pentì di aver usato la parola «spioni», volle scusarsi: «Gli austriaci li chiamano così, ma è solo questione di punti di vista… A me la tedescheria non è mai piaciuta. Se vuoi, posso fare una scappata in paese e sentire dal parroco che cosa è accaduto del tuo amico. I preti sanno sempre tutto». «C’è la bambina» obiettai. «Per me è già morta» sospirò la donna, «e poi penserai tu a farle compagnia, anche se la tua presenza non servirà a resuscitarla». Andò. Forse per lei la scappata in paese era un modo per uscire da un incubo sia pure per poco, e a me parve giusto di essere rimasto nell’incubo, con i rantoli della bimba agonizzante che infittivano e le ombre della sera che incupivano maggiormente la stamberga già buia. Compresi che la bimba sarebbe morta entro pochi minuti: lo diceva la difficoltà del suo respiro, il segnale di una lotta oramai giunta all’epilogo.
Morire in solitudine era il peggior modo di andarsene. Così, se avessi tenuto una manina della piccola tra le mie, chissà, lei avrebbe pensato che qualcuno cercava di trattenerla a questo mondo, che, sì, partiva, ma rimaneva una traccia di se stessa. Negli affetti, nei ricordi. Pensieri troppo difficili per una creaturina che forse già era altrove e che nella nebbia del coma… Chi può sapere quello che si vede e si sente nella nebbia del coma?
Il mio temperamento mi spinge ad agire d’impeto, come era stato quando mi ero offerto per la missione nelle retrovie nemiche: afferrai una manina della bimba e la strinsi. La strinsi forte forte, come per trasmetterle un poco del fluido vitale che tumultuava dentro di me. Della spagnola non mi preoccupai o forse mi dimenticai: credetti che fosse mio obbligo morale esprimere la mia solidarietà o quanto meno la mia vicinanza. A proposito… Attraverso la finestra mi sembrò che le stelle si stessero avvicinando pericolosamente, che stessero per precipitare su di noi… Mio Dio s’ingrandivano, brillavano con più lucentezza, esplodevano… Fantasie, il cielo manteneva le distanze, non ammetteva confidenze. Le luci che vedevo erano fuochi d’artiglieria e di mitragliatrice perché, probabilmente, era stato avvistato un aereo italiano, forse l’aereo che doveva venire a riprendermi? Durò pochi momenti. La tenebra si rinchiuse e le stelle, lontanissime, fuggirono nello spazio senza preoccuparsi delle miserabili vicende umane. La mano della bambina era ghiacciata e, inutilmente, mi ero provato a riscaldarla: era inerte, simile al marmo, e quando, all’improvviso, ebbe una contrazione, come per riprendere qualcosa che stava per smarrirsi, m’illusi in un miracolo. Nessun miracolo. La mano s’irrigidì, finirono gli spasimi dell’agonia, finì il rantolo: la bambina era morta tra le mie braccia, se posso azzardarmi a dire così, e non sapevo neppure come si chiamasse. Le chiusi gli occhi. All’incirca un’ora dopo ritornò Maria De Luca. Era notte e nella stanza miserabile balenavano non più che ombre. Si piegò sulla culletta e disse: «È morta, non è vero?» e io accennai di sì, con la testa. Maria De Luca accese un lume a petrolio. Le ombre si definirono meglio, danzavano sul muro non so che minuetto. «Il tuo amico lo porteranno a Graz» m’informò Maria De Luca, «proprio come ti avevo detto. Lo giudicheranno e l’impiccheranno». «A che serve giudicarlo» eccepii, «se già si sa che lo spediranno alla forca?». «Non so risponderti» sospirò la donna dopo un’esitazione. «Per quanto ne so, i processi si fanno non per decidere le condanne, ma per renderle solenni». Cercò in una credenza vecchia e ammuffita, senza trovare alcunché. «Hai fame?» mi chiese. «Vuoi mangiare qualche cosa?». «Non ho nessuna voglia di mangiare» brontolai stupito, anzi scandalizzato, «e poi, con la bambina che è morta non capisco come si possa avere appetito». «Si sapeva che era condannata» replicò, «e naturalmente è triste che abbia finito di vivere: però non è una ragione perché finiscano di vivere tutti quelli che sono rimasti». La guardai a lungo. La guardai per quanto consentito dai fiochi bagliori del lume a petrolio, e mi domandai se era lei a essere dura di cuore o se ero io che badavo alla forma, ignorando l’essenziale. Maria De Luca era ancora giovane, forse era stata bella. Il suo volto sembrava inaridito, e le labbra, dritte, sottili, mostravano una misteriosa crudeltà. Gli occhi grandi, azzurri, quasi viola, erano gli stessi di sua figlia. A bruciapelo sparò: «Non l’avrai toccata, spero». «Le ho tenuto una manina» confessai, quasi mi vergognai del mio buon cuore, «e le ho chiuso gli occhi». «Hai commesso un’inutile imprudenza» mi rimproverò la donna, «adesso sei in pericolo, puoi ammalarti». «Più in pericolo di come già sono!» Sorrisi mio malgrado. «Non sarà un attacco di spagnola a peggiorare le cose… ». «È un’influenza che uccide» lei replicò «lo hai visto tu stesso». «Signora» dissi, e calcai il tono sulla parola ‘signora’, per far intendere che nessuna circostanza, per quanto drammatica, valeva a infrangere la barriera delle buone maniere, del rispetto, della riservatezza, «signora, credo che lei abbia toccato la bambina… forse l’ha addirittura baciata». «Cretino» rispose (proprio così), «si capisce che l’ho toccata e che l’ho baciata, ma è… era mia figlia». Difficile darle torto, considerando i fatti nudi e crudi. Avevo ceduto a un soprassalto del sentimento, suppongo, perché ero costretto a muovermi, da più di tre anni, in un mondo che il lusso del sentimento non poteva permetterselo. E quelli che morivano, spesso, non avevano nemmeno il tempo di rantolare, se ne andavano con la faccia e con la gola squarciata, era impossibile star loro accanto per donare un po’ di conforto. «Tra non molto me ne andrò» dichiarai, «la metterei in pericolo se restassi ancora». «Del pericolo non m’importa» sorrise pallidamente Maria De Luca, «il problema è che dovrò pensare al funerale della piccola… Dovrò chiamare il medico un’altra volta, per il certificato. Verranno i miei parenti, verrà gente… Forse potrei nasconderti lo stesso». «Non voglio nascondermi» osservai, «devo attraversare il Piave e tornare nello schieramento italiano… ». «Come farai?» si preoccupò. «C’è parecchia strada di mezzo e ci sono posti di polizia da ogni parte. Controllano tutto e tutti». «Mi verrà a prendere un aeroplano» spiegai, «c’è un prato: io devo solo aspettare e, se possibile, segnalare la mia presenza».
Mi cacciò tra le mani una scatola di zolfanelli. «Non fanno molta luce» mi disse, «però, di notte, se non c’è la luna… non lo so, spero che possano esserti utili». Stavo per borbottare un ringraziamento ma, a un tratto, me la trovai tra le braccia: singhiozzava, sfogava il dolore trattenuto, e mi si aggrappava, come se toccasse a me di risarcirla delle sue sciagure. Quell’effusione inattesa mi provocò da principio imbarazzo: durò pochi attimi, e poi ammisi con me stesso che io e lei eravamo due naufraghi che non avevano neanche un relitto cui afferrarsi. Allora la baciai. Non come si fa tra gli innamorati, ma come tra quelli che si vogliono bene, punto e basta: la baciai sulle guance, volevo che capisse il mio animo, il mio cuore. Maria De Luca mi accarezzò sui capelli e: «Riguardati» mi raccomandò. «Anche tu» risposi. Spalancai la porta del tugurio, e mi tuffai nella notte.
Sto mettendo a dura prova la sua pazienza, signorina. Però l’idea di intervistarmi è stata sua. Avrei preferito rimanere nell’ombra, anche perché, al tempo della grande guerra, la mia vita cominciava al calar del sole, credo di averglielo già detto. Il buio mi ossessiona ancora oggi.
Per andare da Tarzo ad Aviano si passa da Vittorio Veneto, si sfiora l’abitato della cittadina, e sono pochi chilometri, una passeggiata in un contesto di normalità. Puntai un’altra volta sul cimitero, volevo ritornare a pregare sulla tomba della mia povera mamma, volevo chiederle di aiutarmi nel difficile frangente in cui mi trovavo. Non sorrida di me, signorina. Lo so che il mistero della morte include anche le mamme e che è puerile sperare nel loro aiuto dall’aldilà… ma io ero terribilmente solo e, chissà perché, dopo aver lasciato Maria De Luca la solitudine mi pesava più che mai.
Non ebbi fortuna. Il cancello del cimitero era sprangato e non azzardai acrobazie per saltare dentro. Pensai che la mia mamma mi avrebbe protetto pur se rimanevo al di fuori del muro di cinta. A bassa voce dissi una preghiera e, nel mentre, sollevai gli occhi al cielo come per ritrovare un volto conosciuto e amato. Era una notte limpidissima, senza luna, e sulla mia testa c’era un carico di stelle mai vedute: mi sembrò che si moltiplicassero, tant’è che mi chiesi se in alto vi sarebbe stato posto per accoglierle tutte. Lo trovavano il posto, lo trovavano e, distanti da me non so quanti anni luce, testimoniavano su epoche remote, quando, più vicino alla terra, più accessibili, non avevano ancora imparato a celarsi e a celare.
Lei può comprendere, signorina, che i miei nervi erano tesi e la similitudine con le corde di un violino è banale quanto veritiera. Mi accorsi di sentire un gran freddo, anzi di rabbrividire, benché la notte estiva fosse calda: fu a quel punto che apparvero i fuochi fatui. Era già accaduto in occasione della mia prima visita al cimitero, però non mi ero spaventato del corteo di labili fiammelle azzurre che sembrava inseguirmi. Il fenomeno era ben noto, la decomposizione delle ossa nella terra sprigionava gas saturi di fosforo che a contatto con l’aria s’incendiava. Si sapeva. E tuttavia, ora, immaginai che i fuochi fatui mi circondassero, mi assediassero, m’imprigionassero: un’onda di panico salì sino alla gola, e mi dissi che le fiammelle intorno a me erano gli spiriti dei morti. Gli spiriti di tutti quelli che, da una parte e dall’altra, erano stati uccisi dalla guerra, definita dal Papa «una inutile strage». Naturalmente scambiare i fuochi fatui per presenze ultraterrene era una sciocchezza e io lo sapevo: l’eccitazione mi rendeva superstizioso e pauroso peggio di una donnetta. Ahimé. I caduti erano rimasti nella terra di nessuno, nei camminamenti, nelle trincee, raramente avevano ricevuto il privilegio di un camposanto di fortuna: è certo che non sarebbero tornati, mai più.
Neppure in sembiante di fuochi fatui.
Crede che, se non disperato, fossi prossimo alla disperazione? È strana questa sua curiosità, signorina. Strinsi i denti e mi rimisi in cammino. Impiegai tre giorni o meglio tre notti, prima di raggiungere il prato ad Aviano, e rammento di averle già raccontato della mia attesa e degli zolfanelli che accendevo per invocare soccorso. Ricordo di averle già confessato che, dopo aver bruciato inutilmente l’ultimo fiammifero, mi assalì una tentazione di pianto. Si chiama disperazione un momento di intima fragilità, di cedimento emotivo? Sono convinto di no. La disperazione è tutt’altra cosa, ignora il lavacro delle lacrime, sa che persino la resa non serve a nulla, come non serve a nulla chiedere aiuto, implorare. Mio Dio, pensai, e adesso che cosa farò? Mi rifugiai nel bosco, nello stesso anfratto che era stato mia dimora all’inizio della missione. Mi coricai sul letto di foglie. Mi provai a dormire.
Ero stanchissimo, ma non riuscivo a prendere sonno. Continuavo ad avere freddo, battevo i denti. Mi toccai la fronte. Scottava, avevo una febbre da cavallo. Era la febbre spagnola? Se sì, non mi restava che ritornare a Tarzo, da Maria De Luca, e farmi curare. Solo che prima di arrivarci sarei morto, e Maria De Luca, se pure fossi arrivato sino a lei, tutt’al più avrebbe potuto tenermi la mano e magari buttarmi addosso una coperta. Non c’erano medicine cui affidarsi, il chinino dello Stato non serviva a niente. Non c’era che consegnarsi al destino. Mi addormentai o forse caddi in un deliquio pieno di colori, di volti dimenticati, di sussurri misteriosi, di imprecazioni, di preghiere. Quanto tempo durò il mio stato di ipnosi, non so dire. Mi ripetevo che forse ero già morto e che, in questa mia nuova condizione, la realtà si presentava in frantumi. Non ero morto, ero molto ammalato, e la febbre andò avanti per qualche giorno finché, una mattina, i pezzi della realtà si ricomposero e, tra le fronde di un albero, vidi che stava albeggiando. Ero sudato. Ero guarito.
Che fossi guarito lo compresi perché i rumori, i richiami, i fruscii del bosco tornarono a sembrarmi quello che erano: non mi tormentavano più voci sconosciute e la sera riconobbi il canto dei grilli. Ma non potevo indugiare ancora. La borraccia dell’acqua era vuota e non avevo niente da mettere sotto i denti. Se non la spagnola, mi avrebbero ucciso la sete e l’inedia. Mi feci coraggio e, appena fu giorno, abbandonai il bosco. Incappai in due posti di polizia, ma le guardie non mi badarono, tanto il mio aspetto era miserabile, larvale. Non ero un uomo, ero uno spettro. Fui soccorso da un contadino che mi dissetò e mi sfamò. Adesso sapevo che nessun aeroplano sarebbe tornato a riprendermi e che, se volevo riguadagnare le linee italiane, dovevo rimettermi in cammino verso il Piave. Era un’impresa impossibile, che già avevo tentato inutilmente. Tentai un’altra volta ed ebbi fortuna.
Non sto ad annoiarla, signorina, raccontandole minuziosamente le peripezie, le angosce, i batticuore… Andò bene. Mi fu compagno un barcaiolo e con lui superai in barca il fiume in piena. Fu un miracolo se gli italiani non spararono su di noi. Bottecchia fu processato e fu condannato all’impiccagione: lo salvò l’armistizio. Ma lei, signorina, non è curiosa della mia fuga o della sorte del mio compagno: lei mi domanda se ho mai conosciuto la disperazione e, come le ho già detto, quando ebbi bruciato l’ultimo fiammifero, su quel prato dove nessun aereo sarebbe sceso a riprendermi, mio Dio, lo scoramento fu immenso e, sul mio futuro, non avrei scommesso un soldo.
Ma a non scommettere avrei sbagliato. Infatti, l’impresa del ritorno mi riuscì, anche se in modo molto più avventuroso. Compresi, così, che alla disperazione non bisogna mai arrendersi.
Come le ho detto, oggi ho più di settant’anni e mi preparo a uscire di scena. Si può morire senza troppo rimpiangere quello che lasciamo, purché vi sia la consapevolezza di aver vissuto non casualmente, consegnando all’eternità, se non un messaggio, almeno una traccia, fosse pure: «Il lupo è stanco di camminare». Che voleva dire l’impossibilità di proseguire nella nostra missione, ma anche (sebbene inconsapevolmente) l’assurdità di ogni guerra. Non è vero che il lupo sia un predatore feroce: il lupo predilige la pace, l’ombra protettiva del bosco.
Pochi giorni fa sono tornato al cimitero di Vittorio Veneto. Era sera, era molto tardi. Volevo riscoprire i fuochi fatui, che subito hanno cominciato a danzarmi vicino, in un crudele gioco azzurrognolo a ‘ti vedo’ e ‘non ti vedo’. Avvolto da una ridda vagamente infernale, nel mezzo di una girandola che accendeva piccole fiamme trasparenti, un’altra volta ho immaginato che quelle fiamme fossero gli spiriti dei caduti. Ecco… dopo l’inutile strage, quante altri stragi avevano e avrebbero funestato il mondo?
Mi sono chiesto se quelle anime senza pace volessero qualche cosa da me, dal mio sacrificio, dalla mia medaglia. Volevano tante cose, volevano soprattutto che l’umanità imparasse ad avere più amore di se stessa e che la parola ‘disperazione’ fosse cancellata dal vocabolario.
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