recensioni e segnalazioni 2/2014
Dario Antiseri, Adriano Soi
Intelligence e metodo scientifico
Rubbettino, 2014
pp. 128 - euro 12,00
di Akira
di Akira
Gli autori del volume, un filosofo e un prefetto, affrontano il tema dell’intelligence, talvolta esaminato dalla pubblicistica nazionale con criteri e intenti impropri. Antiseri e Soi, invece, lo fanno in maniera chiara e originale al tempo stesso, attingendo spunti e argomentazioni dalle rispettive esperienze professionali e culturali, per tracciare un percorso espositivo che converge, con sicura efficacia, su un’enunciazione dominante: la conoscenza, quale strumento di possibile verità, libertà e sicurezza sociale. Il testo analizza con ottica critica il significato e il senso della conoscenza, tratteggiata come ‘alfa e omega’ di un ininterrotto impegno dell’intelletto umano, chiamato a investigare su se stesso e con se stesso, anche sugli strumenti fondanti della moderna intelligence, deputata a vigilare sulle istituzioni attraverso la gestione delle conoscenze e l’apposizione di vincoli giuridici alla loro indiscriminata divulgazione.
Ben lontana dal presentarsi come un mero esercizio teoretico, l’esposizione sottende il discernimento del ‘razionale’ nel suo triplice approccio metodologico: la deduzione, l’induzione e, in particolare, l’abduzione. Metodiche richiamate e descritte per giungere scientificamente a un sapere non assertivo ma quale risultanza di investigazione costante e rigorosa, disposta anche a fare i conti con la concezione ‘fallibilista’ della scienza stessa. E allora, sul filo affascinante e mai affabulatorio delle correnti di pensiero dei primi del Novecento, la prima parte del testo distilla armonicamente e con la leggerezza della convinzione le principali categorie dell’epistemologia e dell’ermeneutica, cogliendo in esse e nelle numerose varianti apportate euristicamente da maestri del pensiero – quali Gadamer, Heidegger, Peirce, Popper e altri – i cardini su cui poggiare il metodo più corretto per praticare l’intelligence: quello adduttivo. Secondo l’adduzione, la ricerca e l’analisi dei dati reali non possono e non devono rifuggire dai passaggi che guidano logicamente l’intelletto ma, convenientemente, devono ricomprendere il dubbio e il riconoscimento degli errori, quali ingredienti essenziali per alimentare onestamente il percorso dell’intelligence, laddove essa è chiamata a sostenere decisioni di pubblico interesse.
Comprendere gli accadimenti e analizzarne l’impatto, secondo il metodo enunciato, agevola l’approccio del lettore alla seconda parte del testo che affronta, fruendo del sistema adduttivo, il linguaggio dell’intelligence e i concetti alla base dell’organizzazione del lavoro dei moderni organismi d’informazione. In particolare, viene descritta la ciclicità e consequenzialità scientifica delle fasi che caratterizzano un efficiente processo informativo e d’analisi, teso a soddisfare il fabbisogno cognitivo individuato dalle Autorità governative deputate ad assumere decisioni a favore della collettività e a protezione degli interessi del sistema Paese, ascrivendone l’efficacia alle determinazioni filosofiche espresse in apertura. L’excursus dell’esposizione di nozioni e riflessioni, espresse nella seconda parte dell’elaborato, affronta i concetti di affidabilità e attendibilità delle fonti al fine di ottenere un prodotto informativo dotato di fondatezza e coerenza poiché scientificamente raccolto, elaborato, valutato e, quindi, utile.
L’applicazione del metodo scientifico adduttivo, nello scenario filosofico rappresentato, si configura come inedito valore aggiunto alle prassi d’intelligence che assumono più significativa solidità e appetibilità istituzionale, nel solco di una tradizione tutta anglosassone che, da alcuni anni, sostiene anche il nostro rinnovato Comparto di sicurezza.
Il testo avvince il lettore neofita ma, soprattutto, sostiene gli addetti ai lavori, chiamati a operare nel settore e a offrire, con maggiore spessore culturale, un servizio insostituibile per la comunità, per troppo tempo avvolto nel mistero, trattato con consapevole superficialità e meritevole di più responsabile attenzione.
Ben lontana dal presentarsi come un mero esercizio teoretico, l’esposizione sottende il discernimento del ‘razionale’ nel suo triplice approccio metodologico: la deduzione, l’induzione e, in particolare, l’abduzione. Metodiche richiamate e descritte per giungere scientificamente a un sapere non assertivo ma quale risultanza di investigazione costante e rigorosa, disposta anche a fare i conti con la concezione ‘fallibilista’ della scienza stessa. E allora, sul filo affascinante e mai affabulatorio delle correnti di pensiero dei primi del Novecento, la prima parte del testo distilla armonicamente e con la leggerezza della convinzione le principali categorie dell’epistemologia e dell’ermeneutica, cogliendo in esse e nelle numerose varianti apportate euristicamente da maestri del pensiero – quali Gadamer, Heidegger, Peirce, Popper e altri – i cardini su cui poggiare il metodo più corretto per praticare l’intelligence: quello adduttivo. Secondo l’adduzione, la ricerca e l’analisi dei dati reali non possono e non devono rifuggire dai passaggi che guidano logicamente l’intelletto ma, convenientemente, devono ricomprendere il dubbio e il riconoscimento degli errori, quali ingredienti essenziali per alimentare onestamente il percorso dell’intelligence, laddove essa è chiamata a sostenere decisioni di pubblico interesse.
Comprendere gli accadimenti e analizzarne l’impatto, secondo il metodo enunciato, agevola l’approccio del lettore alla seconda parte del testo che affronta, fruendo del sistema adduttivo, il linguaggio dell’intelligence e i concetti alla base dell’organizzazione del lavoro dei moderni organismi d’informazione. In particolare, viene descritta la ciclicità e consequenzialità scientifica delle fasi che caratterizzano un efficiente processo informativo e d’analisi, teso a soddisfare il fabbisogno cognitivo individuato dalle Autorità governative deputate ad assumere decisioni a favore della collettività e a protezione degli interessi del sistema Paese, ascrivendone l’efficacia alle determinazioni filosofiche espresse in apertura. L’excursus dell’esposizione di nozioni e riflessioni, espresse nella seconda parte dell’elaborato, affronta i concetti di affidabilità e attendibilità delle fonti al fine di ottenere un prodotto informativo dotato di fondatezza e coerenza poiché scientificamente raccolto, elaborato, valutato e, quindi, utile.
L’applicazione del metodo scientifico adduttivo, nello scenario filosofico rappresentato, si configura come inedito valore aggiunto alle prassi d’intelligence che assumono più significativa solidità e appetibilità istituzionale, nel solco di una tradizione tutta anglosassone che, da alcuni anni, sostiene anche il nostro rinnovato Comparto di sicurezza.
Il testo avvince il lettore neofita ma, soprattutto, sostiene gli addetti ai lavori, chiamati a operare nel settore e a offrire, con maggiore spessore culturale, un servizio insostituibile per la comunità, per troppo tempo avvolto nel mistero, trattato con consapevole superficialità e meritevole di più responsabile attenzione.
Sergio Romano
Il declino dell'impero americano
Longanesi, 2014
pp. 124 - euro 14,90
Del volume, che racconta le ultime fasi dell’ascesa dell’Impero americano e le prime fasi del declino sino ai nostri giorni, si propone la Premessa.
Dal primo giorno della loro esistenza gli Stati Uniti sono una potenza imperiale. Le radici religiose, il sentimento delle proprie virtù, la convinzione che il Paese abbia un «destino manifesto», hanno instillato nella società americana la certezza della sua superiorità politica e morale. Sono stati imperiali sin da quando proclamarono la dottrina di Monroe (1823); strapparono la California e altri territori al Messico; estesero la loro frontiera sino al Pacifico; imposero al Giappone la politica della «porta aperta» e bombardarono la città di Shimonoseki (1864); accarezzarono per qualche tempo l’annessione dell’isola di Formosa; cacciarono la Spagna da Cuba e dalle Filippine; comperarono la Louisiana, l’Alaska e le Isole Vergini. Nel 1860, durante una campagna elettorale per la Casa Bianca, W.H. Seward, futuro segretario di Stato durante la presidenza di Abraham Lincoln, fece discorsi in cui, come ricordano gli autori di Rise of American Civilization, descriveva il futuro dell’impero americano. Era convinto che «gli avamposti degli Stati Uniti, un giorno, sarebbero stati spinti lungo la costa nordoccidentale verso l’oceano Artico, che il Canada sarebbe stato accolto nella nostra gloriosa Unione, che le repubbliche dell’America Latina, riorganizzate sotto la nostra benevola influenza, sarebbero divenute parte di questa magnifica Confederazione, che l’antica metropoli degli Aztechi, Città del Messico, sarebbe stata la capitale degli Stati Uniti, che l’America e la Russia avrebbero rotto la loro vecchia amicizia per affrontarsi nell’Estremo Oriente, là dove le grandi civiltà hanno fatto la loro prima apparizione».
Dalla fine della Seconda guerra mondiale l’America ha affrontato la sfida dell’Urss alla testa di una grande alleanza politico-militare, ha cinto il mondo di basi militari, ha creato rapporti di alleanza e sudditanza con un grande numero di paesi amici e vassalli, ha esportato il proprio modello economico e finanziario anche nei paesi che avevano fatto parte del blocco sovietico e nella Cina post-comunista. Ha promosso in alcuni casi la nascita di una giustizia mondiale, ma non è fra i paesi che hanno ratificato il Tribunale penale internazionale perche ciò che è utile e desiderabile per altri, non è né utile né desiderabile per se stessa. Quando decide di punire con sanzioni economiche uno Stato riottoso o ribelle, il Congresso degli Stati Uniti approva leggi extraterritoriali che trattano le aziende straniere come se fossero americane e le puniscono quando non si conformano alle loro norme.
Può sembrare incomprensibile che questa stessa America, così fiera della sua originalità e così convinta della propria superiorità, attraversi periodi in cui la maggioranza dell’opinione pubblica considera con sospetto qualsiasi partecipazione attiva alla grande politica internazionale. II testo sacro dell’isolazionismo americano è il «Farewell Address», l’addio alla nazione di George Washington alla fine della sua presidenza nel 1796. Disse ai suoi connazionali che l’Europa era distinta da un groviglio d’interessi estranei a quelli degli Stati Uniti e concluse: «Non è saggio quindi lasciarci coinvolgere con legami artificiosi nelle abituali vicissitudini delle sue politiche, nelle abituali collisioni e combinazioni delle sue amicizie e inimicizie». Ma in quelle parole vi era più orgoglio che prudenza. Gli Stati Uniti non avrebbero mai combattuto per cause che non fossero interamente, esclusivamente americane. Non avrebbero partecipato a una partita tra «cugini», come i monarchi europei definivano se stessi nei loro rapporti. Li avrebbero guardati dall’alto e da lontano, avrebbero costruito da soli il proprio futuro. E se fossero stati costretti a intervenire, come nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, sarebbero rientrati nella tenda dopo la vittoria o avrebbero preso sin dall’inizio l’intero governo dell’operazione. La parola «isolazionismo» può essere in molti casi sinonimo di unilateralismo. Dopo essere stata costretta ad accettare per più di trent’anni le costrizioni e le servitù della Guerra fredda, l’America ha avuto dapprima qualche tentazione isolazionista, ma si è poi rapidamente considerata libera di agire contro chiunque potesse sfidare l’ordine americano e ha combattuto tre guerre: in Serbia, in Afghanistan e in Iraq. Ma le guerre non vinte, come quelle dell’Afghanistan e dell’Iraq, sono inevitabilmente, per una potenza imperiale, guerre perdute. E la crisi finanziaria del 2008 ha messo in evidenza le falle di un sistema che neppure il suo creatore riusciva più a controllare.
La crisi dell’impero americano è cominciata a Kabul e a Baghdad, ma diviene ancora più evidente quando i più vecchi e fedeli alleati degli Stati Uniti – l’Arabia Saudita, Israele, la Turchia, il Giappone, alcuni paesi europei e latinoamericani – lanciano segnali di fastidio e cominciano a fare scelte politiche che danno per scontato il declino della potenza americana. Barack Obama sembra esserne consapevole e forse deciso ad accompagnare i suoi connazionali verso una diversa dimensione internazionale.
Dal primo giorno della loro esistenza gli Stati Uniti sono una potenza imperiale. Le radici religiose, il sentimento delle proprie virtù, la convinzione che il Paese abbia un «destino manifesto», hanno instillato nella società americana la certezza della sua superiorità politica e morale. Sono stati imperiali sin da quando proclamarono la dottrina di Monroe (1823); strapparono la California e altri territori al Messico; estesero la loro frontiera sino al Pacifico; imposero al Giappone la politica della «porta aperta» e bombardarono la città di Shimonoseki (1864); accarezzarono per qualche tempo l’annessione dell’isola di Formosa; cacciarono la Spagna da Cuba e dalle Filippine; comperarono la Louisiana, l’Alaska e le Isole Vergini. Nel 1860, durante una campagna elettorale per la Casa Bianca, W.H. Seward, futuro segretario di Stato durante la presidenza di Abraham Lincoln, fece discorsi in cui, come ricordano gli autori di Rise of American Civilization, descriveva il futuro dell’impero americano. Era convinto che «gli avamposti degli Stati Uniti, un giorno, sarebbero stati spinti lungo la costa nordoccidentale verso l’oceano Artico, che il Canada sarebbe stato accolto nella nostra gloriosa Unione, che le repubbliche dell’America Latina, riorganizzate sotto la nostra benevola influenza, sarebbero divenute parte di questa magnifica Confederazione, che l’antica metropoli degli Aztechi, Città del Messico, sarebbe stata la capitale degli Stati Uniti, che l’America e la Russia avrebbero rotto la loro vecchia amicizia per affrontarsi nell’Estremo Oriente, là dove le grandi civiltà hanno fatto la loro prima apparizione».
Dalla fine della Seconda guerra mondiale l’America ha affrontato la sfida dell’Urss alla testa di una grande alleanza politico-militare, ha cinto il mondo di basi militari, ha creato rapporti di alleanza e sudditanza con un grande numero di paesi amici e vassalli, ha esportato il proprio modello economico e finanziario anche nei paesi che avevano fatto parte del blocco sovietico e nella Cina post-comunista. Ha promosso in alcuni casi la nascita di una giustizia mondiale, ma non è fra i paesi che hanno ratificato il Tribunale penale internazionale perche ciò che è utile e desiderabile per altri, non è né utile né desiderabile per se stessa. Quando decide di punire con sanzioni economiche uno Stato riottoso o ribelle, il Congresso degli Stati Uniti approva leggi extraterritoriali che trattano le aziende straniere come se fossero americane e le puniscono quando non si conformano alle loro norme.
Può sembrare incomprensibile che questa stessa America, così fiera della sua originalità e così convinta della propria superiorità, attraversi periodi in cui la maggioranza dell’opinione pubblica considera con sospetto qualsiasi partecipazione attiva alla grande politica internazionale. II testo sacro dell’isolazionismo americano è il «Farewell Address», l’addio alla nazione di George Washington alla fine della sua presidenza nel 1796. Disse ai suoi connazionali che l’Europa era distinta da un groviglio d’interessi estranei a quelli degli Stati Uniti e concluse: «Non è saggio quindi lasciarci coinvolgere con legami artificiosi nelle abituali vicissitudini delle sue politiche, nelle abituali collisioni e combinazioni delle sue amicizie e inimicizie». Ma in quelle parole vi era più orgoglio che prudenza. Gli Stati Uniti non avrebbero mai combattuto per cause che non fossero interamente, esclusivamente americane. Non avrebbero partecipato a una partita tra «cugini», come i monarchi europei definivano se stessi nei loro rapporti. Li avrebbero guardati dall’alto e da lontano, avrebbero costruito da soli il proprio futuro. E se fossero stati costretti a intervenire, come nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, sarebbero rientrati nella tenda dopo la vittoria o avrebbero preso sin dall’inizio l’intero governo dell’operazione. La parola «isolazionismo» può essere in molti casi sinonimo di unilateralismo. Dopo essere stata costretta ad accettare per più di trent’anni le costrizioni e le servitù della Guerra fredda, l’America ha avuto dapprima qualche tentazione isolazionista, ma si è poi rapidamente considerata libera di agire contro chiunque potesse sfidare l’ordine americano e ha combattuto tre guerre: in Serbia, in Afghanistan e in Iraq. Ma le guerre non vinte, come quelle dell’Afghanistan e dell’Iraq, sono inevitabilmente, per una potenza imperiale, guerre perdute. E la crisi finanziaria del 2008 ha messo in evidenza le falle di un sistema che neppure il suo creatore riusciva più a controllare.
La crisi dell’impero americano è cominciata a Kabul e a Baghdad, ma diviene ancora più evidente quando i più vecchi e fedeli alleati degli Stati Uniti – l’Arabia Saudita, Israele, la Turchia, il Giappone, alcuni paesi europei e latinoamericani – lanciano segnali di fastidio e cominciano a fare scelte politiche che danno per scontato il declino della potenza americana. Barack Obama sembra esserne consapevole e forse deciso ad accompagnare i suoi connazionali verso una diversa dimensione internazionale.
Frederick Forsyth
La lista nera
traduttore G. Costigliola
Mondadori, 2013 - collana Omnibus
pp. 282 - euro 19,00
di Alain Charbonnier
di Alain Charbonnier
È proverbiale la capacità di profetare degli scrittori di fantathriller, utilizzando elementi disparati, frutto di ricerche, suggerimenti, informazioni che trasformano i loro romanzi in ‘fonti aperte’ per gli analisti dell’intelligence. Il romanzo di Forsyth prende spunto dall’eliminazione di Osama Bin Laden ad Abbottabad, per presentare al lettore un nuovo leader, un predicatore che sveglia ‘cellule dormienti’ e le trasforma in macchine di morte. Sarà eliminato egli stesso grazie all’azione combinata di uomini sul campo e dell’intelligence elettronica, dei droni e dei satelliti spia, ma anche alla genialità di un giovane hacker che riuscirà là dove altri esperti del mondo cibernetico avevano fallito. Forsyth ha così modo di addentrarsi nella realtà della proliferazione delle agenzie di ‘intelligence’ dopo l’11 settembre e di definire, attraverso la figura di un professore dell’università islamica del Cairo, la sua visione del terrorismo, anche se
cronologicamente collocata a venti anni prima, ma con un’anticipazione profetica. «Con i terroristi – fa dire al vecchio erudito – che siano di Al Fatah, di Settembre Nero o del nuovo sedicente ramo religioso, la rabbia e l’odio sono in cima alla lista. Poi viene la giustificazione. Per l’IRA è il patriottismo, per le Brigate rosse la politica, per i jiahidisti salafiti la devozione. Una falsa devozione». Quindi avverte: «Il comunismo è morto e l’Occidente è debole ed egoista, interessato solo al piacere, all’avidità. Saranno in molti ad ascoltare il messaggio dei predicatori della Jihad». Il romanzo si legge d’un fiato, il messaggio merita meditazione, soprattutto rispetto all’evolversi della situazione, dopo l’eliminazione di Osama Bin Laden che non ha prodotto il ‘cessate il fuoco’ desiderato. I kuffar, i miscredenti, continuano a essere i nemici da abbattere, con il paravento dell’unica vera fede, mentre il terrorismo si nutre degli infiniti conflitti che insanguinano il Medio Oriente e il Corno d’Africa e che droni, infiltrati, navi da guerra, forze speciali continuano a combattere, senza mai sconfiggerlo.
Wolfgang Krieger
Storia dei servizi segreti
Dai Faraoni alla CIA Mimesis, 2013
«Passato prossimo» pp. 354 - euro 28,00
di Alain Charbonnier
Dai Faraoni alla CIA Mimesis, 2013
«Passato prossimo» pp. 354 - euro 28,00
di Alain Charbonnier
Quattro anni dopo la prima edizione a Monaco di Baviera, è stata tradotta e stampata in Italia l’ennesima storia dei servizi segreti. Repetita juvant, direbbe qualcuno. Ed è vero, se ogni opera, oltre a ripetere cose già dette, aggiunge novità, come fa Wolfgang Krieger. Professore di Storia contemporanea e Storia delle relazioni internazionali, Krieger è considerato tra i massimi esperti di storia dell’intelligence e, alla luce della propria esperienza, offre al lettore l’opportunità di gettare uno sguardo sul funzionamento di uno strumento delicato e sensibile, come si rivelano i servizi segreti. Uno strumento indispensabile – avverte Krieger – «oggi che le armi di distruzione di massa rappresentano una minaccia concreta» – e aggiunge – «non è necessario inventare metodi innovativi per occuparsi dei servizi segreti, ma piuttosto utilizzare con precisione e finezza quelli già sperimentati; bisogna porsi delle domande… le analisi devono essere documentate e comprovate in modo preciso». È l’indicazione del metodo seguito da Krieger nel lungo excursus attraverso i secoli, articolato per grandi blocchi che passano dall’antichità al Rinascimento; proseguono fino alle guerre napoleoniche per poi affrontare il periodo del confronto fra le grandi potenze e le pulsioni rivoluzionarie, tipiche del periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento e, successivamente, fino alla Prima guerra mondiale. Esaminano, quindi, l’epoca delle dittature del XX secolo, la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda e le operazioni di destabilizzazione nel Terzo mondo. Nel volume viene sottolineato, a più riprese, come lo spionaggio sia una tecnica antica quanto l’umanità, se è vero che già il popolo egiziano aveva i suoi 007 e che sia nella Bibbia che nel volume L’arte della guerra di Sun Tzu si trovano ampi riferimenti a tale attività.
L’Autore propone un’analisi completa sul funzionamento dei servizi segreti di ogni epoca: rievoca le tecniche di codificazione dei messaggi segreti, le metodiche correlate ai piani d’infiltrazione, senza trascurare il ricorso all’arte del travestimento o all’attività di disinformazione e intossicazione. Attenendosi sempre al quadro storico di riferimento, l’autore evidenzia come alcune modalità operative utilizzate in tempi antichi da personaggi storici conosciuti ai più, quali Alessandro Magno, Giulio Cesare e Gengis Kan, siano state riprese e, perfezionate e integrate, con la tecnologia disponibile ai nostri giorni, da servizi informativi quali il Kgb, la Cia, la Stasi e il Mossad. Da ultimo merita evidenziare che il volume è corredato da un’ampia bibliografia, da un elenco di riviste in lingua inglese e da una pubblicazione in tedesco, oltre a una decina di pagine web dedicate all’intelligence, a conferma del puntuale lavoro di ricerca svolto dall’autore.
L’Autore propone un’analisi completa sul funzionamento dei servizi segreti di ogni epoca: rievoca le tecniche di codificazione dei messaggi segreti, le metodiche correlate ai piani d’infiltrazione, senza trascurare il ricorso all’arte del travestimento o all’attività di disinformazione e intossicazione. Attenendosi sempre al quadro storico di riferimento, l’autore evidenzia come alcune modalità operative utilizzate in tempi antichi da personaggi storici conosciuti ai più, quali Alessandro Magno, Giulio Cesare e Gengis Kan, siano state riprese e, perfezionate e integrate, con la tecnologia disponibile ai nostri giorni, da servizi informativi quali il Kgb, la Cia, la Stasi e il Mossad. Da ultimo merita evidenziare che il volume è corredato da un’ampia bibliografia, da un elenco di riviste in lingua inglese e da una pubblicazione in tedesco, oltre a una decina di pagine web dedicate all’intelligence, a conferma del puntuale lavoro di ricerca svolto dall’autore.
Gianluca Barneschi
L’inglese che viaggiò con il Re e Badoglio
Le missioni dell’agente speciale Dick Mallaby LEG Edizioni, 2013 pp. 281 - euro 24,00
di Alain Charbonnier
Le missioni dell’agente speciale Dick Mallaby LEG Edizioni, 2013 pp. 281 - euro 24,00
di Alain Charbonnier
Il volume, frutto di un’accurata ricerca, narra di vicende realmente accadute e di retroscena inediti, degni delle migliori spy story letterarie e cinematografiche. Barneschi ricostruisce la biografia di Dick Mallaby, agente speciale inglese dello Special Operations Executive (Soe), in missione in Italia nel periodo a cavallo dell’8 settembre 1943. Dopo essere stato paracadutato nei pressi del lago di Como per organizzare la resistenza, viene catturato dagli italiani nella notte del 14 agosto 1943. Per evitare la fucilazione Mallaby, in possesso di un’apparecchiatura per le comunicazioni cifrate, si offre come anello di congiunzione tra il Generale Castellano e gli anglo-americani.
L’agente inglese, anche se difficoltà e incomprensioni rallentano gli scambi dei messaggi cifrati tra gli italiani e gli Alleati, risulterà indispensabile per l’esito favorevole delle trattative e l’annuncio dell’armistizio.
Il 10 settembre 1943, dalla corvetta Baionetta attraccata nel porto di Brindisi scendono Vittorio Emanuele III, Badoglio, alcuni membri della famiglia reale, del Governo e del Comando supremo militare e, tra i più noti passeggeri, quasi inosservato, figura anche Mallaby, fino a qualche giorno prima destinato al plotone d’esecuzione.
Da questo dettaglio cui, per settant’anni, nessuno ha attribuito un particolare significato, prende spunto l’Autore per far emergere e ricostruire l’intera vicenda, attraverso testimonianze, ricerche archivistiche ed esami documentali, gettando per certi versi una luce nuova su una fase particolarmente delicata della storia, non solo italiana.
Al pregevole lavoro di Barneschi va riconosciuto, inoltre, il merito di mostrare e far apprezzare al grande pubblico dei lettori come, spesso, alla storia e alle sorti di un Paese concorrano, con assoluta rilevanza, le gesta di persone anonime ai più.
Il 10 settembre 1943, dalla corvetta Baionetta attraccata nel porto di Brindisi scendono Vittorio Emanuele III, Badoglio, alcuni membri della famiglia reale, del Governo e del Comando supremo militare e, tra i più noti passeggeri, quasi inosservato, figura anche Mallaby, fino a qualche giorno prima destinato al plotone d’esecuzione.
Da questo dettaglio cui, per settant’anni, nessuno ha attribuito un particolare significato, prende spunto l’Autore per far emergere e ricostruire l’intera vicenda, attraverso testimonianze, ricerche archivistiche ed esami documentali, gettando per certi versi una luce nuova su una fase particolarmente delicata della storia, non solo italiana.
Al pregevole lavoro di Barneschi va riconosciuto, inoltre, il merito di mostrare e far apprezzare al grande pubblico dei lettori come, spesso, alla storia e alle sorti di un Paese concorrano, con assoluta rilevanza, le gesta di persone anonime ai più.
Neal Bascomb
Nazi Hunters
Giunti, 2014
pp. 224 - euro 9,90
di Akira
di Akira
Il libro riassume una storia realmente accaduta, avventurosa ma vera. Una storia che appartiene al popolo d’Israele e ai suoi servizi segreti, impegnati a costruire un’identità nazionale dopo il dramma dell’olocausto e la caduta del nazismo.
È il racconto di un colpo di mano realizzato da un manipolo di combattenti, proiettati segretamente a oltre settemila chilometri di distanza da Gerusalemme, per rintracciare una preda fuggita in Argentina dopo essere stata l’artefice del più spietato progetto di sterminio dell’era contemporanea, la ‘soluzione finale’ per gli ebrei sparsi sul continente europeo.
La preda è Adolf Eichmann, nato in Renania nel 1906, ufficiale delle Schutzstaffeln – meglio note come SS – dal 1938 a capo del Dipartimento per gli affari ebraici che aveva lo scopo di pianificare e realizzare la politica di sterminio nei confronti dei ‘giudei’. Una vera e propria guerra parallela voluta da Hitler per bonificare i territori conquistati dai suoi carri armati.
Eichmann non ha mai combattuto, si è limitato a sterminare, con lucida, inesorabile efficienza. Scampato all’occupazione di Berlino, nel 1945, si mimetizza sotto false generalità per qualche anno nei territori della Germania e del Tirolo sino a trovare rifugio in Argentina con l’aiuto di una rete coperta di ex nazisti sparpagliati sulle due sponde dell’oceano Atlantico. Vivrà, così, una seconda vita con la moglie e i tre figli, in una sperduta casupola alla periferia di Buenos Aires, sotto le false generalità di Riccardo Klement, capo operaio in una fabbrica di utensili meccanici. Quella vita durerà diciotto anni, sino a quando, nel maggio 1960, la squadra israeliana lo catturerà con una operazione da manuale.
Neal Bascomb, al termine di minuziose ricerche documentali e interviste raccolte su quattro continenti, redige questo volume con stile asciutto, essenziale, ritmato, senza concessioni retoriche. È la cronaca circostanziata di una missione speciale durata molti mesi, scandita con i toni avvincenti del romanzo, capace di delineare personaggi e azione con impareggiabile nitidezza.
I diciotto capitoli del testo narrano tutte le fasi della caccia all’uomo, dalla quasi occasionale individuazione in Argentina da parte di un ebreo tedesco emigrato per sfuggire ai nazisti, sino all’epilogo della cattura effettuata da un ‘team’ di agenti e specialisti del Mossad e dello Shin Bet – i servizi segreti israeliani paragonabili, rispettivamente, alla CIA e al FBI statunitensi – e alla esfiltrazione verso il territorio d’Israele con un aereo della El Al, giunto a Buenos Aires per accompagnare una delegazione ufficiale di politici, ignara di ciò che era accaduto in tutta segretezza.
La descrizione della missione, autorizzata dal governo israeliano, è minuziosa e introduce il lettore nelle reali dinamiche preparatorie ed esecutive delle operazioni sotto-copertura dei servizi segreti e in particolare di quelli israeliani, capaci di unire, come pochi, vocazione individuale, professionalità e patriottismo.
L’autore affronta tutti gli step del rischioso percorso della squadra di cacciatori: dai ripetuti sopralluoghi sull’obiettivo, ai prolungati pedinamenti di Eichmann, dall’approntamento della base in cui condurlo prima di riportarlo in terra d’Israele, alla ripetizione maniacale dei compiti di ciascuno per non commettere errori e non lasciare tracce. Errori e scoperture, infatti, avrebbero non solo causato il fallimento di una missione storica ma creato imbarazzanti compromissioni internazionali.
L’adrenalina e la tensione sono il filo conduttore del racconto. A ogni pagina si vive a fianco di ciascuno dei protagonisti, come se i loro gesti e i loro pensieri fossero i nostri.
Il 23 maggio 1961, Davide Ben-Gurion – Primo Ministro del neonato Stato di Israele – quando ancora non tutti gli agenti erano riusciti a rientrare in patria separatamente, si presentò alla Knesset e disse: «Devo informare che recentemente i servizi segreti israeliani hanno catturato uno fra i maggiori criminali nazisti, Adolf Eichmann, responsabile insieme ad altri dirigenti nazisti di quello che essi stessi avevano definito “la soluzione finale del problema ebraico”, cioè lo sterminio di sei milioni di ebrei europei. Adolf Eichmann si trova attualmente in carcere in Israele e presto sarà condotto in tribunale in conformità alla legge per i reati commessi dai nazisti e dai loro alleati». Il criminale nazista venne processato nella terra delle sue vittime. Il 15 dicembre successivo, il giudice lesse la sua condanna a morte, l’unica sinora eseguita da un tribunale israeliano. Il 30 maggio 1962 venne impiccato. Di lui la scrittrice Hannah Arendt disse che era «…l’incarnazione dell’assoluta banalità del male». Il libro si legge tutto d’un fiato. Chi ama il genere, o lavora nel ‘settore’, riconoscerà gli elementi e le dinamiche delle vere operazioni ‘coperte’ e percepirà il profumo dei successi ottenuti sul campo, con fatica e rischio, tra incertezze, tribolazioni, rinunce e indispensabili silenzi, prima e dopo l’azione.
D’altro canto, il racconto offre alle nuove generazioni il monito di non dimenticare una tragedia epocale che ha squarciato la nostra storia recente. Dimostra come un popolo unito nelle sue componenti essenziali – politica, militare e di sicurezza – possa raggiungere risultati simbolici di rara valenza sociale e identitaria.
È una storia, dunque, educativa, portata a compimento da una squadra speciale che, in ossequio alla tradizione ebraica più remota, ha fuso il significato di due parole: Tzedek (giustizia/capacità di vittoria) e Nakam (soddisfazione/vendetta)
È il racconto di un colpo di mano realizzato da un manipolo di combattenti, proiettati segretamente a oltre settemila chilometri di distanza da Gerusalemme, per rintracciare una preda fuggita in Argentina dopo essere stata l’artefice del più spietato progetto di sterminio dell’era contemporanea, la ‘soluzione finale’ per gli ebrei sparsi sul continente europeo.
La preda è Adolf Eichmann, nato in Renania nel 1906, ufficiale delle Schutzstaffeln – meglio note come SS – dal 1938 a capo del Dipartimento per gli affari ebraici che aveva lo scopo di pianificare e realizzare la politica di sterminio nei confronti dei ‘giudei’. Una vera e propria guerra parallela voluta da Hitler per bonificare i territori conquistati dai suoi carri armati.
Eichmann non ha mai combattuto, si è limitato a sterminare, con lucida, inesorabile efficienza. Scampato all’occupazione di Berlino, nel 1945, si mimetizza sotto false generalità per qualche anno nei territori della Germania e del Tirolo sino a trovare rifugio in Argentina con l’aiuto di una rete coperta di ex nazisti sparpagliati sulle due sponde dell’oceano Atlantico. Vivrà, così, una seconda vita con la moglie e i tre figli, in una sperduta casupola alla periferia di Buenos Aires, sotto le false generalità di Riccardo Klement, capo operaio in una fabbrica di utensili meccanici. Quella vita durerà diciotto anni, sino a quando, nel maggio 1960, la squadra israeliana lo catturerà con una operazione da manuale.
Neal Bascomb, al termine di minuziose ricerche documentali e interviste raccolte su quattro continenti, redige questo volume con stile asciutto, essenziale, ritmato, senza concessioni retoriche. È la cronaca circostanziata di una missione speciale durata molti mesi, scandita con i toni avvincenti del romanzo, capace di delineare personaggi e azione con impareggiabile nitidezza.
I diciotto capitoli del testo narrano tutte le fasi della caccia all’uomo, dalla quasi occasionale individuazione in Argentina da parte di un ebreo tedesco emigrato per sfuggire ai nazisti, sino all’epilogo della cattura effettuata da un ‘team’ di agenti e specialisti del Mossad e dello Shin Bet – i servizi segreti israeliani paragonabili, rispettivamente, alla CIA e al FBI statunitensi – e alla esfiltrazione verso il territorio d’Israele con un aereo della El Al, giunto a Buenos Aires per accompagnare una delegazione ufficiale di politici, ignara di ciò che era accaduto in tutta segretezza.
La descrizione della missione, autorizzata dal governo israeliano, è minuziosa e introduce il lettore nelle reali dinamiche preparatorie ed esecutive delle operazioni sotto-copertura dei servizi segreti e in particolare di quelli israeliani, capaci di unire, come pochi, vocazione individuale, professionalità e patriottismo.
L’autore affronta tutti gli step del rischioso percorso della squadra di cacciatori: dai ripetuti sopralluoghi sull’obiettivo, ai prolungati pedinamenti di Eichmann, dall’approntamento della base in cui condurlo prima di riportarlo in terra d’Israele, alla ripetizione maniacale dei compiti di ciascuno per non commettere errori e non lasciare tracce. Errori e scoperture, infatti, avrebbero non solo causato il fallimento di una missione storica ma creato imbarazzanti compromissioni internazionali.
L’adrenalina e la tensione sono il filo conduttore del racconto. A ogni pagina si vive a fianco di ciascuno dei protagonisti, come se i loro gesti e i loro pensieri fossero i nostri.
Il 23 maggio 1961, Davide Ben-Gurion – Primo Ministro del neonato Stato di Israele – quando ancora non tutti gli agenti erano riusciti a rientrare in patria separatamente, si presentò alla Knesset e disse: «Devo informare che recentemente i servizi segreti israeliani hanno catturato uno fra i maggiori criminali nazisti, Adolf Eichmann, responsabile insieme ad altri dirigenti nazisti di quello che essi stessi avevano definito “la soluzione finale del problema ebraico”, cioè lo sterminio di sei milioni di ebrei europei. Adolf Eichmann si trova attualmente in carcere in Israele e presto sarà condotto in tribunale in conformità alla legge per i reati commessi dai nazisti e dai loro alleati». Il criminale nazista venne processato nella terra delle sue vittime. Il 15 dicembre successivo, il giudice lesse la sua condanna a morte, l’unica sinora eseguita da un tribunale israeliano. Il 30 maggio 1962 venne impiccato. Di lui la scrittrice Hannah Arendt disse che era «…l’incarnazione dell’assoluta banalità del male». Il libro si legge tutto d’un fiato. Chi ama il genere, o lavora nel ‘settore’, riconoscerà gli elementi e le dinamiche delle vere operazioni ‘coperte’ e percepirà il profumo dei successi ottenuti sul campo, con fatica e rischio, tra incertezze, tribolazioni, rinunce e indispensabili silenzi, prima e dopo l’azione.
D’altro canto, il racconto offre alle nuove generazioni il monito di non dimenticare una tragedia epocale che ha squarciato la nostra storia recente. Dimostra come un popolo unito nelle sue componenti essenziali – politica, militare e di sicurezza – possa raggiungere risultati simbolici di rara valenza sociale e identitaria.
È una storia, dunque, educativa, portata a compimento da una squadra speciale che, in ossequio alla tradizione ebraica più remota, ha fuso il significato di due parole: Tzedek (giustizia/capacità di vittoria) e Nakam (soddisfazione/vendetta)