GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI



» INDICE AUTORI


Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
personaggi 2/2014
Storie di chi si è dato coraggio

Manfredi Talamo Manfredi Talamo

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Nell’assolvere delicate, rischiose mansioni eccelleva per rare virtù militari e impareggiabile senso del dovere, rendendo al Paese, in pace e in guerra, servizi d’inestimabile valore. Caduto in sospetto della polizia tedesca che ne ordinava l’arresto, sopportava stoicamente prolungate torture senza svelare alcun segreto sulle organizzazioni clandestine e sui loro dirigenti. Condotto alla fucilazione, alle Fosse Ardeatine, dava sublime esempio di spirito di sacrificio, di incontrollabile fermezza, di alte e pure idealità, santificate dal martirio e dall’olocausto della vita.
Roma – Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944

Manfredi Talamo nasce a Castellammare di Stabia (Napoli) il 2 gennaio 1895. Proveniente da famiglia numerosa, si arruola volontario nella Legione Allievi dell’Arma, uscendone Carabiniere ‘a piedi’ nell’agosto 1914. Allo scoppio della Grande guerra è tra i primi a raggiungere il fronte già nel maggio 1915, partecipando a numerose azioni che gli valgono il grado di Maresciallo d’alloggio nel febbraio 1919. Nello stesso anno, conseguito a Napoli il diploma di ragioneria, viene ammesso alla Scuola allievi ufficiali dove, nell’aprile successivo, consegue la promozione a Sottotenente. Nel settembre del 1925 sposa Maria Salimbeni, da cui ha quattro figli. delicati, difficili e rischiosi. Nel periodo trascorso tra Pola e la Tripolitania, Viterbo e Bolzano, ad attestarne le qualità professionali viene decorato con una Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Nominato Maggiore per meriti eccezionali, a Roma organizza e conduce complesse operazioni che portano alla luce importanti documenti di Stati esteri. Promosso Tenente Colonnello per merito di guerra nel 1942, dopo l’8 settembre entra in clandestinità. Quale capo centro del Servizio Informazioni Militare (Sim), realizza un sistema di comunicazioni che si rivelerà particolarmente efficace nell’ambito della nascente organizzazione clandestina. Caduto in sospetto delle Ss tedesche, viene lungamente torturato, ma nulla rivela dei nuclei partigiani cui appartiene. Il 24 marzo 1944 viene trucidato alle Fosse Ardeatine e con lui cadono, fra gli altri, 11 appartenenti all’Arma del Fronte Clandestino di Resistenza dei Carabinieri, creato e comandato dal Generale Filippo Caruso


Renato Villoresi Renato Villoresi

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Ferito dopo oltre dieci ore di epica lotta per la difesa di Roma, abbandonava l’ospedale benché non guarito, per costituire una cellula informativa e di controspionaggio in seno ad un gruppo clandestino di informazioni militari – del quale fu uno dei maggiori esponenti – operante in territorio occupato dai tedeschi. Instancabile nell’opera altamente patriottica, sprezzante dei continui pericoli cui si esponeva, riusciva a rendere preziosi servizi e ad infondere nei collaboratori, con l’esempio trascinatore, salda fede nei destini della Patria. In piena attività, arrestato e tradotto nelle carceri di via Tasso, sopportava eroicamente inenarrabili sevizie per non svelare i segreti dell’organizzazione e stoicamente si attribuiva ogni responsabilità. Martire della incondizionata fede e dedizione al dovere veniva barbaramente trucidato alle Fosse Ardeatine. Da eroe, dava così all’Italia la sua nobile vita interamente dedicata ai più alti ideali.
Ponte della Magliana (Roma), 9 settembre 1943
Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944


Renato Villoresi nasce a Roma il 13 febbraio 1917 da famiglia originaria della Toscana con marcata tradizione militare. Il padre, Lorenzo, decorato con due Medaglie di Bronzo e tre d’Argento al Valor Militare, muore a Firenze nel 1928. Un ramo della famiglia era emigrata a Milano, e a quel ramo appartiene l’ingegnere Villoresi, progettista del canale omonimo. Renato studia al Collegio Militare di Roma, consegue la maturità classica e, dopo l’accademia di Artiglieria e del Genio di Torino, è prossimo alla laurea in ingegneria. Militare di carriera, nel 1942 è promosso Capitano. Combatte in Russia e nei Balcani. Dopo l’8 settembre prende parte alla difesa di Roma, viene ferito e ricoverato all’ospedale del Celio. Non ancora guarito, abbandona il nosocomio e costituisce una cellula informativa e di controspionaggio in seno al Gruppo Militare Clandestino ‘Fossi’. Prevede la sua possibile fine ma non la teme, anzi l’affronta con quella forza che sostiene coloro che credono in un ideale. Arrestato dalle Ss il 18 marzo 1944 e sottoposto a sevizie, attribuisce ogni responsabilità a se stesso, evitando l’identificazione dei compagni di lotta. Anch’egli è ucciso alle Ardeatine, dov’è sepolto.


Il racconto che segue solleva un dubbio sulla cattura di Talamo e di Villoresi, che sarebbero finiti nelle mani delle Ss in conseguenza di una delazione: non v’è nulla di provato in proposito, e l’eventualità del tradimento è solo un’illazione. Purtroppo è rigorosamente vero tutto ciò che riguarda il massacro delle Fosse Ardeatine, deciso quale atto di rappresaglia per l’attentato partigiano di via Rasella in Roma.

LE FOSSE ARDEATINE di Giampaolo Rugarli
Mio marito si portò un segreto nella tomba. Forse fu lui a perdere quei due infelici. E quanti altri? Forse. Non mi piace ricordare quel tempo lontano e terribile ma Arabella, la mia nipotina, mi tempesta di domande e non rispondere è piuttosto difficile. Come se non bastasse la curiosità di Arabella, abitiamo quasi porta a porta con la tragica cava di pozzolana.
Roma, dalla fine della guerra in poi, non ha fatto altro che ingrandirsi e le palazzine di civile abitazione, quattro, cinque piani, tutte eguali, tutte clonate, hanno invaso e cancellato quelle che una volta erano le campagne circostanti. Le pecore sono abrogate.
Non avrei mai creduto che la metropoli sarebbe arrivata sino a qui: pensavo che sarebbe stata garantita un’ampia zona di rispetto, tanto più che la gente non è contenta di prender casa accanto a un cimitero. Mi sbagliavo. Tutto intorno alla via Ardeatina n. 174 pullulano rispettabili dimore, munite di attico, di superattico e di gerani alle finestre. Come se a due o trecento metri di distanza non fosse accaduto nulla.
Noi abitiamo in via Nesazio ed è tutto così dolce e addomesticato che sembra di stare in una cittadina svizzera. Forse è giusto così, un modo per affermare che il sacrificio di vite umane – di trecentotrentacinque vite umane – non è stato soltanto un rito di stupida barbarie, ma per antifrasi è stato un tributo alla continuità del mondo, che risorge a dispetto di ogni offesa.
È quasi un miracolo che diventa più evidente a primavera, quando i fiori e i passerotti ritornano a occupare la scena. Non posso spiegare queste cose ad Arabella. E tanto meno posso raccontarle che, tra quelle tombe, mi sono avventurata una sola volta, anni fa: non vi sono ritornata più, e non per pigrizia o per indifferenza, ma per paura. Paura che si levi il vento – come accadde quella sera – e che il vento trascini anche me, con la polvere di pozzolana, con le foglie secche e con le preghiere. Mi trascini nel passato. A parte i miei personali incubi, una bambina di dieci anni, per quanto sensibile e intelligente, non dovrebbe imbattersi nella parola «massacro», nemmeno sul libro di storia. Ma nemmeno posso tacere o mentire. «Quel posto che ti incuriosisce» le dico, «è un camposanto. Vi sono sepolte le vittime di una strage compiuta durante l’ultima guerra... È passato più di mezzo secolo: è giusto ricordare. Però tu sei ancora una bambina, avrai tempo per conoscere e per riflettere». «Una strage è quando vengono ammazzate molte persone?» domanda. Non aspetta la mia risposta e incalza: «Perché non hanno ammazzato anche il nonno?». «Tuo nonno riuscì a salvarsi... » borbotto, celando un certo imbarazzo. «Vuoi dire che tagliò la corda?». «Questo è un modo di esprimersi poco rispettoso» protesto. «Tuo nonno fu più fortunato degli altri. Tutto qui».
L’attenzione di Arabella si posa su una farfalla, per fortuna. Con i bambini c’è il vantaggio che non si soffermano mai troppo, passano da una cosa all’altra e, beati loro, la fantasia li conduce in paesi incantati, meravigliosi, mentre noi vecchi continuiamo ad aggiustare i conti con i ricordi, e sono conti che non tornano mai... Ero giovanissima, meno di vent’anni. Ero anche bella e mi piaceva ascoltare Star Dust di Hoagy Carmichael. Sposata da pochi mesi, mio marito era alquanto più anziano di me. Da ragazzo ci aveva rimesso una mano pasticciando con un marchingegno e la mutilazione più tardi si era rivelata una fortuna. Era stato esonerato dal servizio militare. Lui si era dichiarato dispiaciuto, mortificato, avvilito, non si era capito se perché la Patria avrebbe fatto a meno di lui o se perché era monco. Subito dopo l’8 settembre prese parte alla difesa di Roma: prese parte come poteva e sapeva, passando informazioni sui movimenti dei tedeschi, ma fu questione di un paio di giorni, si sa come andò a finire. Chi voleva continuare la lotta doveva farlo in clandestinità.
Fu allora che incontrai per la prima volta il colonnello Manfredi Talamo e il capitano Renato Villoresi. Abitavamo in campagna, non lontano da Zagarolo, un espediente per non pensare troppo alla guerra, anche se la guerra, al dunque, se ne infischiava di ogni furbizia, piccola o grande. I due erano braccati dai tedeschi e per un poco li nascondemmo a casa nostra. C’erano altri rifugi, ben noti a mio marito, che aveva il compito delicato di mantenere i contatti. La tana giudicata più sicura era sui monti della Tolfa.
Andavo più d’accordo con Talamo, forse per una questione d’età. Era sulla cinquantina e in lui ritrovavo qualche cosa del mio povero papà; e poi mi piacevano il suo marcato accento partenopeo, divertente ed espressivo, e la sua provenienza da una famiglia affollatissima. Era il sesto di sette figli. Villoresi era un ragazzo, aveva ventisette anni ed era un quasi ingegnere. A suo modo era affascinante, con i baffetti alla Errol Flynn. Mi guardava. I suoi parenti erano persone importanti: vi era uno zio che aveva progettato un canale nel milanese e che a quel canale aveva legato il suo nome. Cose da mettere in soggezione.
Talamo, Villoresi e mio marito tramavano. Organizzavano azioni di guerriglia contro gli occupanti tedeschi, ma più ancora informavano il Comando militare, al fianco degli angloamericani, di quanto avveniva a Roma e dintorni. Una radio ricetrasmittente passava da una mano all’altra e veniva considerata un oggetto più pericoloso di una bomba. Fu nascosta a casa mia per un paio di settimane e furono giorni di batticuore: finivamo tutti in campo di sterminio se Kappler e associati ci avessero beccati con quell’arnese. Andò bene. Una sera arrivò Villoresi e portò via l’apparecchio.
Lui era ancora sofferente per una ferita abbastanza seria: finché era durata l’illusione di poter difendere Roma, si era esposto al fuoco nemico ed era stato investito dall’esplosione di una granata. Ricoverato all’ospedale del Celio, era fuggito dopo meno di due mesi per riprendere la lotta. Aveva messo in piedi una banda che, non so per quale ragione, era stata chiamata ‘Fossi’ – e quelli della Fossi avevano occhi e orecchie per tutto, osservavano, ascoltavano e riferivano. Vìlloresi, benché giovanissimo, mi intimidiva: mi guardava in silenzio e anch’io lo guardavo in silenzio.
Talamo era un agente professionista. Aveva passato tutta la sua esistenza a carpire i segreti dei nemici veri e di quelli possibili, aveva ricevuto non so che decorazione od onorificenza per essere entrato in possesso di importantissimi documenti della diplomazia straniera. Purtroppo il gioco adesso era molto più pericoloso e io mi domandavo che parte recitasse mio marito. Non lo vedevo nei panni della quinta colonna e nemmeno dell’attentatore: era bravo soprattutto a curare l’orto e le galline. Ma, di quei tempi, anche offrire un riparo, un rifugio, era un atto di coraggio e ciascuno faceva come poteva e sapeva.
A Roma non andavo quasi mai. La città era spenta, di gente per le strade se ne vedeva poca e quella poca non indugiava, andava di fretta, non vedeva l’ora di scomparire. I negozi erano vuoti, non avevano niente da vendere, a parte la borsa nera che esigeva segretezza e si celebrava in anditi noti solo agli iniziati. Di tempo in tempo, sfilavano le quadrate legioni di Mussolini. Per lo più erano ragazzi che facevano la faccia feroce e che invece erano smarriti come noi, più di noi.
Eravamo tutti smarriti.
Gli angloamericani si erano fermati a Cassino da alcuni mesi e, convinti di colpire i tedeschi, avevano distrutto la storica abbazia. La guerra, se posso dire così, si era anchilosata, sebbene si continuasse a morire da una parte e dall’altra. Talamo e Villoresi apparivano meno frequent emente e, del resto, le loro visite mi colmavano di sgomento: dopo la radio ricetrasmittente, c’era sempre qualche cosa da nascondere. Cifrari, elenchi di aderenti o di amici, armi purtroppo. Non vorrei essere giudicata male: io ammiro l’eroismo ma, da povera donna, sono piuttosto paurosa e tra i pericoli vivo male, non chiudo occhio di notte. Nell’inverno 1943-1944 ero poco più di una ragazzina ed ero più vulnerabile di adesso: vivevo nel terrore.
Portarono una mitragliatrice. Era grossa, ingombrante, minacciosa. Nelle case della gente perbene si trovano quadri appesi alle pareti, vasi per i fiori, soprammobili, argenteria, ninnoli... una mitragliatrice è un oggetto insolito. La nascondemmo in cantina ma, ogni volta che passava la ronda, il cuore m’impazziva. Per fortuna Talamo venne a riprendersela dopo pochi giorni. Con lo sguardo esplorò la cantina e giudicò che fosse abbastanza capiente. Chiese se avremmo potuto accogliere un cannoncino. «Roba di piccolo calibro» precisò, come per avvertire che, se peccato era, si trattava di peccato veniale. Grazie al cielo, mio marito disse di no. Spiegò che, se fosse dipeso soltanto da lui, non avrebbe esitato, ma che io avevo paura, non era possibile coinvolgermi ancora, avrei fatto o detto qualche sciocchezza e mi sarei tradita. Talamo sorrise con comprensione. «Troveremo un altro posto per nascondere il cannoncino» concluse rassicurante. «C’è abbondanza di artiglieria» azzardai, «però sono tre settimane che non vediamo un pezzetto di carne. Non c’è modo di rimediare qualcosa? ». «Bombe a mano in quantità» osservò Talamo con voce triste, «ma la carne è scomparsa... ».
Due giorni dopo mi giunse un dono insperato: una gallina già spiumata e svuotata, pronta per il fornello.
Me l’aveva mandata Talamo.
Una sera mio marito non tornò a casa. Di quei tempi accadeva; si usciva per commissioni e si scompariva. «Vado a comprare il giornale» qualcuno annunciava e, invece di rientrare nel giro di pochi minuti, non lo si vedeva più, mai più. Bastava poco per dileguare nel regno delle ipotesi: una sparatoria, una retata, una risposta sbagliata. Piansi per tutta la notte. La mattina dopo mi giunse un biglietto scritto da Villoresi: mio marito era stato portato a via Tasso.
Via Tasso era un nome sinistro, pauroso: non era più la quieta strada, persino un po’ sonnolenta, dove abitavano impiegati dello Stato e piccoli commercianti, tutti occupati dal loro decoro borghese (e, la domenica mattina, dalle solenni funzioni che si celebravano nella vicina basilica di San Giovanni). A via Tasso le Ss avevano insediato il loro presidio e la loro prigione: da quel luogo maledetto, chi vi era entrato sotto una accusa, quasi mai sortiva vivo. Si picchiava, si suppliziava, calando nella realtà le mostruose fantasie del marchese de Sade: per gli aguzzini la più grave colpa non era la defezione o il complotto, ma la vita stessa. La felicità, la dignità, la bellezza della vita. Non si ammetteva che l’inferno e, a via Tasso, c’era un girone infernale.
Mi disperai. Avrei voluto raggiungere Villoresi o Talamo, ma non sapevo dove trovarli: si nascondevano un po’ qua e un po’ là, mai nello stesso posto e comunque, a scanso di guai, l’intesa era che toccava a loro di stabilire il contatto. Nel primo pomeriggio un monello mi portò un altro biglietto di Villoresi: mi aspettava a un fontanile a un paio di chilometri nei campi, un abbeveratoio dove ci eravamo incontrati già altre volte. Mi raccomandava di badare bene di non essere seguita. Mi guardai intorno, non c’era un’anima. Inforcai la bicicletta e pedalai di buona lena.
Villoresi era preoccupato. Mio marito lo avevano beccato mentre raccoglieva da terra un giornaletto clandestino. Gli avevano chiesto spiegazioni. «L’ho visto e l’ho preso» lui si era giustificato, «volevo capire che cosa era». Il bello è che aveva detto la pura e semplice verità, era abbastanza sprovveduto per mettersi nei guai solo per soddisfare una curiosità. Non gli avevano creduto. Volevano sapere dov’era la tipografia, chi erano gli autori degli articoli e dove si nascondevano, chi dirigeva l’organizzazione. Mio marito aveva protestato la sua innocenza e aveva affermato la sua fede fascista. Niente da fare: lo avevano arrestato.
«Lo tortureranno» buttò là Villoresi, con una smorfia. «Come sarebbe a dire?» mi indignai, anche se sapevo che non c’era da stupirsi. Mio Dio, mi avevano raccontato tutto il repertorio di via Tasso... le bruciature con la sigaretta, le scosse con la corrente elettrica, gli spilli o le schegge di legno infilate sotto le unghie. «Spero di no» rispose Villoresi con poca convinzione, «ma vorranno sapere i nomi dei complici e vorranno sapere dove pescarli... Siamo in pericolo tutti noi e forse, finché siamo in tempo, conviene fuggire quanto più lontano possibile... ». «Per adesso è in pericolo soltanto mio marito» non potei fare a meno di osservare, «e non posso... non voglio accettare che gli facciano del male. Ha già perduto una mano, da ragazzo. La Patria dovrebbe compatirlo ». «La Patria è fuori questione» osservò Villoresi, «e naturalmente, se ne avessi la possibilità, andrei subito a liberare tuo marito. Anche a me non va che gli facciano del male, però è stato lui a mettersi nei guai. Ed è giusto che io mi preoccupi di evitare che altri rimangano coinvolti. Ti sembra che sbagli?». No, purtroppo non sbagliava. Mi guardò in silenzio e anch’io lo guardai. Ci colse uno smarrimento che non dipendeva dalla guerra e che, anzi, induceva a dimenticarla. Renato mi strinse una mano ed era un gesto di complicità, che fingeva fosse di incoraggiamento: io mi affidai, mi abbandonai a lui come mi abbandonavo alla musica di Carmichael. C’era una solitudine infinita, intorno a noi. Nessuno avrebbe scoperto il nostro segreto. Prima di lasciarmi, Renato espresse il timore che i nazifascisti potessero arrivare nella casa di Zagarolo e mettere tutto sottosopra, cercando armi e materiale compromettente. Mi chiese se nascondevamo mercanzia scottante. Risposi di no, però sapevo che mio marito a me non confidava tutto. Mi raccomandò di stare attenta, promise che non mi avrebbe abbandonata e che avrebbe cercato di proteggermi, per quanto possibile. Mi accarezzò sui capelli e mi baciò una mano.
Mentre io spingevo sui pedali e mi allontanavo, restò fermo, immobile a contemplare: come se da quel posto non volesse andarsene mai più.
Il mese di febbraio fu molto freddo, o almeno sembrò così, perché non c’era legna da bruciare nel camino e non c’era roba da mangiare. Il gelo della notte si scioglieva a fatica e la stradetta in terra battuta, sulla quale procedevo, era dura e scivolosa, come una lastra di ghiaccio. Un paio di volte slittai e fui sul punto di cadere: ma riuscii a controllare la bicicletta e a rimetterla in linea. Gli alberi nella maggior parte erano stati tagliati, fatti a pezzi e usati per il fuoco: le piante che restavano erano piccole, intisichite, non erano buone per ardere e nemmeno per il frutto. La campagna, spoglia, non più verde, aveva assunto uno strano colore, tra il grigio e il nero. Vestiva a lutto. Mi avvicinai a casa, con cautela. Anzi: scesi dalla bicicletta e, reggendola per il manubrio, avanzai a piedi, a piccoli passi, sostando ogni tanto. Se il timore di Villoresi era fondato, se i fascisti erano piombati a insudiciare la mia intimità, qualche cosa avrei dovuto vedere. Una o più macchine, sentinelle, soldati in perlustrazione... tutti i consueti segni del sopruso. Non c’era nulla d’insolito, nulla di anormale, a meno che la marmaglia si fosse nascosta. Proprio davanti alla porta, credetti di scorgere una sagoma familiare, una persona a me intima e che, mai e poi mai, avrei immaginato di ritrovare così presto. Mio marito passeggiava avanti e indietro e certo si do mandava dove fossi finita. Sapete com’è al cinema, che alla fine lui e lei volano uno nelle braccia dell’altra: lasciai cadere la bicicletta in terra e presi la corsa, mio Dio, che corsa! E lo strinsi, lo strinsi a me, mentre ripetevo: «Caro... caro... », e non sapevo dire altro, anche perché in quel caro c’era non so se più sollievo o rimorso. Lo amav o per risarcirlo della mia abiura.
Venne il momento delle spiegazioni: come era possibile che fosse ritornato a casa? era fuggito? Ma no, niente di avventuroso o di romanzesco. Semplicemente lo avevano interrogato e, riconosciute le sue buone ragioni, lo avevano liberato, naturalmente diffidandolo dal pasticciare con la stampa clandestina. Possibile? A via Tasso conoscevano anche il buon senso, la moderazione? Il mio volto esprimeva incredulità, e: «Hanno tenuto conto della mia mutilazione» borbottò, infastidito del mio scetticismo. Si compatì: «Un uomo privo di una mano non può che ispirare pietà... e poi qual era la mia colpa? Che senso ha castigare uno che raccoglie un giornaletto clandestino, quando tutta l’Italia ascolta radio Londra? Li ho convinti, sai. Li ho convinti ed è stata una gran fortuna, perché lì non scherzano... Ce n’era uno cattivissimo... minacciava di passarmi sulle gambe il ferro da stiro bollente. Voleva sapere... voleva sapere... ». «Che cosa voleva sapere? Che cosa?» gridai, sentii che il pericolo non si era allontanato, che il pericolo incombeva. Dio mi perdoni, pensai a Renato.
Cadde una lunghissima pausa e, negli occhi di mio marito, sorpresi non so che segreta vergogna. Balbettò: «Nulla, nulla. Non voleva sapere nulla. Soltanto sciocchezze… ». Si soffiò il naso, appallottolò il fazzoletto e, senza riporlo in tasca, lo strinse nell’unica mano. Continuò, con voce sempre più esitante: «Sai, là... a via Tasso... ne ho visto uno che ritornava dall’interrogatorio... Interrogatorio è un modo di dire. Pover’uomo, non si reggeva in piedi, era simile a un Cristo in croce. Mi sono chiesto se avrei saputo resistere alle sevizie... Per buona sorte mi è stata risparmiata una prova così severa, però ho capito che alla fine vinceranno i nazisti. Non la guerra. La guerra no, oramai per loro è una causa persa. Ora si tratta di una mediocre faccenda di confini che in un modo o nell’altro si aggiusterà. Vinceranno imponendo a tutto il mondo la loro concezione, la loro eresia: scorgo un futuro di prepotenze, di sopraffazioni, di crudeltà, soprattutto di morte... non mi riesce di scorgere altro». «Forse dovremmo fuggire » azzardai, «dovremmo nasconderci... Ho incontrato Villoresi e... ». «Lascia stare» mi tolse la parola di bocca. «È inutile fuggire o nasconderci. Te l’ho già detto: la morte vincerà la partita».
Due giorni dopo vi fu una rapida apparizione di Talamo. Era scuro in volto. «Hanno catturato Villoresi» annunciò, «lo hanno portato a via Tasso». «Com’è possibile?! » esclamò mio marito con meraviglia eccessiva. «Me lo domando anch’io» disse Talamo, sempre più buio. Soggiunse: «Anche perché sono andati a prenderlo sulla Tolfa e questo significa che qualcuno li ha informati... qualcuno ben addentro alle nostre faccende ». Guardò con sfida mio marito e sparò: «Tu non ne sai niente?». «Vuoi scherzare?» fu la replica immediata. «Sai... » osservò più bonariamente il colonnello, «da via Tasso ci sei passato anche tu, recentemente e, beato te, ne sei uscito sano e salvo... Un caso più unico che raro. Lo so che la carne è debole e che i nazifascisti hanno raffinati strumenti di persuasione. Non vorrei... ». «Tu non devi volere un cavolo!» si imbestialì mio marito. «Con me hanno capito subito di essere in errore... Un mutilato! Un monco!» e, dicendo così, agitò il braccio mozzato sotto gli occhi dell’amico. «Che diavolo potevano chiedermi?».
Talamo sospirò e tacque. Quando ricominciò a parlare lo fece a bassa voce, senza preoccuparsi di smorzare l’inflessione dialettale, confidenzialmente. «Scusami, se ho dubitato... » mormorò, «ma so’ tempi terribili e poi io tengo un pensiero: Maria, mia moglie, ha partorito un mese fa... una bella creatura... una femminuccia… L’abbiamo chiamata Gabriella. Mo’ tu dirai che alla verde età di quarantotto anni mi metto a fare figli, dopo che ne erano nati già tre... E di questi tempi! Cosa devo dirti? È successo. Non venivano più bambini da dieci anni, così ho pensato... abbiamo pensato che ci eravamo fatti vecchi. Invece... Tu non lo puoi sapere, ma io ne ho passate di tutti i colori... Però, a questa sciagurata Italia, io voglio dannatamente bene e sarei pronto pure a farmi ammazzare per il mio Paese... Ma il pensiero di questa bimba mi dispera. Chi baderà a lei se dovesse accadermi qualcosa?».
Chiese a mio marito di promettere che si sarebbe preso cura della bambina, se fosse capitata una brutta cosa e mio marito promise. Con le lacrime che gli rigavano le gote. Il tenente colonnello Manfredi Talamo non lo vedemmo più. Giunse notizia che era stato catturato e associato al carcere di via Tasso. Vivemmo giorni terribili. Se Villoresi e Talamo, sottoposti a tortura, avessero parlato, molti altri sarebbero stati imprigionati e la lotta clandestina avrebbe ricevuto un colpo mortale. A dispetto del frangente drammatico, mio marito era tranquillo. Abbastanza. La sua relativa calma mi incuriosiva e mi imbarazzava. Sentì il bisogno di spiegare: «Quei due non parleranno, anche se si proveranno a convincerli con tenaglie roventi. Quei due sono veri uomini... hanno carattere, hanno stoffa, la stoffa degli eroi. Sarebbe piaciuto anche a me di essere così, invece ho scoperto di essere debole, fragile... ».
Venne la primavera. Che anche il 1944 avesse la primavera era quasi incredibile, ma le scadenze del calendario erano al di sopra di ogni dubbio, e poi le piante superstiti cacciavano gemme impaurite mentre i passerotti ritrovavano voce. Sarebbero ritornate anche le rondini? Improbabile, dopo il fatto di via Rasella... Accadde il 23 marzo, due giorni dopo la festa di San Benedetto... ma chi si ricordava di San Benedetto? Per chi non fosse pratico di Roma, via Rasella è una strada centralissima, piuttosto stretta, incassata tra una doppia fila di palazzi perbene. Scende da via delle Quattro Fontane parallelamente a via del Tritone. Il luogo era ed è irreprensibile, tant’è che all’epoca, sulla destra, si affacciava il seminario della Chiesa Scozzese, dunque una scuola di fede religiosa e di virtù cristiana. Non so, non ho mai capito perché, di tempo in tempo, nelle prime ore del pomeriggio, una colonna di cento e passa Ss percorresse quella via appartata, silenziosa, aristocratica. Kappler avrebbe saputo spiegare e, quando fu processato, certamente disse le sue ragioni che purtroppo erano diverse da quelle della guerriglia. Un carretto, imbottito di esplosivo, fu fatto scoppiare proprio al centro della colonna, mentre un gruppo di partigiani bersagliava, con bombe a mano e raffiche di mitra, i militari di coda. Superata la sorpresa, i tedeschi risposero al fuoco. Chiesero e ottennero rinforzi. Tutti i palazzi di via Rasella furono messi sottosopra e le abitazioni furono perquisite, saccheggiate, devastate. Un inferno. Nell’attentato morirono trentatre Ss, altre rimasero ferite. La rappresaglia era inevitabile.
Se ne ebbe notizia dalla stampa il 25 marzo, due giorni dopo. Un dispaccio di agenzia informava: «… trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti... Il comando tedesco perciò ha ordinato che, per ogni tedesco assassinato, dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è stato già eseguito». In realtà ne ammazzarono trecentotrentacinque, cinque in più di quanto stabilito da Hitler, ma Kappler, per non sbagliare, si era lasciato un po’ di margine. Il massacro fu attuato in una vecchia cava di pozzolana, sulla via Ardeatina, appena fuori Roma. A scempio ultimato, furono fatte brillare alcune mine e le grotte in cui i cadaveri erano stati ammucchiati furono distrutte, cancellate dal resto del mondo. Soltanto dopo la liberazione di Roma fu possibile esumare le salme e comprendere esattamente quello che era accaduto.
I predestinati all’eccidio furono scelti tra i prigionieri di via Tasso (duecentosettanta) e tra i detenuti di Regina Coeli (cinquanta). La morte di un ferito indusse Kappler ad aggiungere altri dieci ostaggi, più cinque (per fare il buon peso, come già si è visto). Non tutte le vittime designate militavano nella Resistenza: molti erano estranei alle vicende belliche, ignari, incolpevoli (e gl i ebrei trucidati furono settantatré).
In ogni caso nessuno aveva una qualsiasi responsabilità nell’attentato di via Rasella.
I militari uccisi furono sessantotto, la categoria più rappresentata subito dopo quella degli ebrei: e di essere giustiziati toccò anche al tenente colonnello Manfredi Talamo e al capitano Renato Villoresi. La tragedia o, più esattamente, la notizia della tragedia filtrò a poco a poco, tuttavia con ampie zone di dubbio; così si sapeva e in parte si immaginava che, nella prigione di via Tasso, erano state assunte tremende decisioni, ma non era chiaro quali, contro chi e in che modo. Certamente Talamo e Villoresi erano stati torturati, era la prassi, ma era ben verosimile che non avessero parlato, che non avessero coinvolto altri amici, altri compagni; ne faceva fede la calma cimiteriale che, dopo la rappresaglia, era discesa su Roma e, mai come in questo caso, l’aggettivo ‘cimiteriale’ non era sproporzionato. Del resto, che Talamo e Villoresi fossero stati uccisi era solo una congettura plausibile: non vi era nessuna certezza ed era impossibile acquisirne.
Osservavo mio marito. Stava impiantando un piccolo orto ed era tutto preso dalla semina dei fagioli, dei peperoni, dei pomodori: si muoveva con una certa abilità, nonostante la menomazione. Mi ero imposta di dimenticare lo smarrimento vissuto con Villoresi in campagna, accanto al fontanile: mi ripetevo che era stato un sogno, però, con il passare del tempo, il sogno ingigantiva e conchiudeva il mondo, l’universo, il firmamento. Le stelle, a dispetto dell’oscuramento, si ostinavano ad accendersi. Così, senza sembrare, esternavo le mie paure per Talamo ma soprattutto per Villoresi e m’attendevo da mio marito una parola di incoraggiamento. Era indaffaratissimo con un secchio di letame, il Cielo sa dove lo aveva pescato, perché anche lo stallatico era diventato merce rarissima. Sollevò il capo, con uno straccio nettò la sua unica mano. «I peperoni vogliono molta acqua» sospirò, «e vogliono terra fertile, ricca...». Indugiò, continuò a parlare a capo basso, quasi ipnotizzando il secchio di letame: «Non ho notizie di quei due infelici, anche se bisogna prepararsi al peggio... I tedeschi hanno fatto una carneficina, una strage... questo è l’unico dato sicuro. Forse non hanno ammazzato tutti i prigionieri di via Tasso, può darsi che qualcuno si sia salvato miracolosamente e, se fosse Villoresi, sarebbe giusto... Povero ragazzo. La vita si era accanita con lui... a dieci anni era orfano di padre, un eroe della grande guerra, un pluridecorato. E, adesso che stava per laurearsi in ingegneria, gli era toccata la prima esperienza del fronte e di una brutta ferita, poi la lotta partigiana. Per essere fedele al suo onore di soldato. Mi auguro che l’epilogo non sia giunto ancora, altrimenti quel figliolo sarebbe morto senza conoscere nessuna gioia. Nessuna gioia, mi capisci?».
«Spero che non sia così» mormorai pallidamente, «e che quel ragazzo almeno un po’ di gioia l’abbia ricevuta ». Chiusi il discorso. Tutto quello che stavamo dicendo era inutile, stupido: aggrapparmi a speranze impossibili serviva solo a rendere il dolore più crudele. Ed era abbastanza vile che io mendicassi parole di incoraggiamento da mio marito. Villoresi era morto e anche Talamo: il mondo avrebbe fatto a meno di loro, come di tanti altri. Nei giorni che seguirono giunse una visita inattesa e imbarazzante: una povera donna che stringeva una creaturina tra le braccia e che, non più giovane, mostrava di essere sofferente, mortalmente stanca. Si presentò dichiarando di chiamarsi Maria Salimbeni e, leggendo una certa perplessità sui nostri volti, spiegò di essere la moglie del tenente colonnello Manfredi Talamo. Era disperata. Cercava notizie del marito, qualsiasi notizia. Le dicemmo che non c’era niente di sicuro, ma di prepararsi al peggio. Ora scoppierà in pianto, pensai e mi avvicinai per prendere la bimba, ma non versò una lacrima, si impietrì e per alcuni eterni secondi ci guardò con una incomprensibile espressione di accusa. Come se la colpa della sua sventu ra fosse nostra.
«Sperare non è proibito» azzardò mio marito. Si soffiò il naso e, con il gesto che gli era abituale, appallottolò il fazzoletto stringendolo nella mano superstite, alla ricerca di un barlume di certezza. Aggiunse: «Ho promesso a Manfredi... Si intende: mi auguro di tutto cuore che il mio impegno non debba mai servire... ho promesso che, se dovesse accadere una disgrazia, io mi prenderei cura della piccola. In tutti i sensi. Come un papà». «È molto gentile da parte sua» disse con velata ironia la signora Talamo, «ma Gabriella non ha bisogno di genitori putativi. Alla peggio, ci sono la sua mamma e i suoi zii. Io non sono venuta a chiedere assistenza o protezione. Io basto a me stessa e ai miei figli. Voglio soltanto sapere se Manfredi è vivo o è morto: ma mi par di capire che farei bene a preparare gli abiti del lutto. È nel destino delle donne che si chiamano Maria».
Stentavo a credere che a ogni Maria spettasse una Croce.
Maria Salimbeni se ne andò senza altri discorsi: era stata accompagnata in macchina non so da chi (circostanza insolita di quei tempi: le automobili erano sparite quasi tutte) e, al ritorno, supposi che si avviasse verso Roma. Ignoravo da dove fosse arrivata e dove andasse: dove era la famiglia del tenente colonnello Talamo? E perché sua moglie, pur nel frangente drammatico, era stata così asciutta, perentoria, persino sprezzante? Chiesi a mio marito, che mi parve a disagio. Appallottolò il fazzoletto un’altra volta e: «Povera donna... » farfugliò. «Sono momenti terribili... Come hai sentito, io mi sono offerto per la bambina... ».
«Ebbene?» dissi con severità. «Mi sono offerto… » lui ripeté in confusione, «mi sono offerto... mi sono offerto… ». Con la sua unica mano riprese il secchio di letame e ricominciò a zappettare.
Avete mai assistito all’esumazione di un cadavere? È un brutto spettacolo, che dovrebbe indurre a riflessioni sin troppo ovvie sull’itinerario della materia mortale. Purtroppo sto parlando di spoglie non più vecchie di tre mesi, e tanto era passato dall’eccidio delle Ardeatine alla esumazione dei morti. Dopo tre mesi dal seppellimento, il corpo di un uomo conserva ancora vistose tracce della vita perduta. Le membra che tornavano alla luce, dopo il lavoro di scavo, serbavano brandelli dei vestiti, carte o documenti nelle tasche, oggetti personali che non erano stati razziati; serbavano ciocche di capelli e, visibili attraverso la bocca spalancata o le guance vuote, i denti, dischiusi in un estremo sogghigno. Tranne i denti, le salme esumate non avevano che un colore: il nero. Il nero della terra e dell’umidore che le intrideva, il nero della notte che nella cava non finiva mai, il nero della morte calata senza un perché.
Un tenente dei Carabinieri mi sbarrò il passo e mi domandò che cosa andavo cercando. «A dire il vero» osservai, «siete voi che avete cercato me e mi avete intimato di presentarmi». Poco dopo la liberazione di Roma, eravamo tornati nella nostra casa di città: mio marito, con cadenza settimanale, faceva una scappata a Zagarolo, non voleva abbandonare il suo piccolo orto. La convocazione alla via Ardeatina era arrivata per posta, su un modulo alquanto anonimo, indirizzato a me personalmente. «Vai tu al posto mio, o almeno accompagnami, andiamo insieme» avevo detto a mio marito. «Non conosco la causa di questa chiamata, temo che vi sia una connessione con la strage e mi manca il cuore». «Tu penserai che sono un vigliacco» lui aveva risposto, «ma non andrò mai nel luogo del massacro. Troppi ricordi, troppi rimorsi». «Perché troppi rimorsi?» avevo esclamato. Mi aveva guardato in silenzio e in quel silenzio avevo creduto di sorprendere quasi un’ammissione di colpa, benché sapessi che il crimine delle Ardeatine era enorme e che mio marito era piccolissimo. Aveva spiegato: «Sto parlando di rimorso in termini ampi... generici... Siamo tutti responsabili: non ci siamo opposti alla follia, abbiamo applaudito, tutti, all’annuncio che l’Italia scendeva in guerra». «Io non ho applaudito» avevo precisato.
Mostrai al tenente il mes saggio di convocazione e compresi perché era stata sollecitata la mia presenza. Si voleva che io riconoscessi la salma di mio marito. «Mio marito è vivo, vivissimo» obiettai e, mio malgrado, sorrisi. «L’ho lasciato a casa un paio d’ore fa e stava benone». «Me ne compiaccio» disse l’ufficiale. «Evidentemente c’è stato un equivoco, del quale mi scuso. Siamo riusciti a identificare quasi tutte le vittime: purtroppo vi sono ancora dodici corpi senza un nome. Abbiamo pensato a suo marito perché, a via Tasso, c’è un’annotazione che lo riguarda e quasi tutti i censiti dalle Ss sono stati uccisi. È un miracolo che suo marito sia uscito sano e salvo da via Tasso». «Sì, è un miracolo» assentii pensierosa e poi: «Tra gli identificati » azzardai, «vi sono anche il colonnello Talamo e il capitano Villoresi?». «Sì, li ricordo benissimo» confermò l’ufficiale e diede una scorsa a un elenco che tolse da una tasca. «Sono il numero 8 e il numero 30. Sono stati riconosciuti dalle famiglie, dai parenti... Non dimenticherò mai una sventurata, con una creaturina in braccio, una creaturina di pochi mesi... Due eroi, due fulgidi eroi e già si sta parlando di decorarli con la medaglia d’oro... ».
Ringraziai il tenente e mi allontanai a precipizio. Non riuscii a scansare la vista di quattro salme, ricomposte in casse foderate di zinco: poveri diavoli, forse non erano stati fulgidi eroi e non avevano meritato medaglie, però gli era andata male, gli era andata che peggio non si poteva. Appresi, qualche tempo dopo, che alle Ardeatine era stato trucidato un campione statistico perfettamente rappresentativo: artigiani, agricoltori, commercianti, professionisti, impiegati, operai, studenti, un prete e un ragazzo di quattordici anni. Soltanto le donne erano state risparmiate.
«Credevano che tu fossi morto, ammazzato come Talamo e come Villoresi» spiegai a mio marito. «Si aspettavano che io riconoscessi il tuo cadavere... ». «Che macabro equivoco!» protestò. «Beh, non avevano tutti i torti» dissi con una incrinatura di sospetto. «Hanno trovato il tuo nome e il tuo indirizzo nei registri di via Tasso e hanno fatto due più due. Erano stupiti che tu fossi scampato... soltanto tu». «Insomma che cosa vuoi?» sbottò. «Vuoi che mi suicidi? Qualche volta, a questo mondo, si può avere fortuna e io sono stato fortunato». «Ne sei sicuro?» insinuai. Mi guardò. Non rispose.
Ebbi una notte orribile, piena di sogni. Mi rividi con Renato Villoresi in campagna, accanto al fontanile. Mio Dio, mi ero sentita in colpa e adesso rimpiangevo di non aver commesso una colpa più grave. Ci eravamo baciati, nient’altro. Ma ci eravamo baciati coinvolgendo le nostre anime e mi domandavo se, nel ricordo di quei baci, qualche cosa di Renato potesse sopravvivere. Mi vidi vestita da sposa, in una bara foderata di zinco, ridevo e continuavo a ripetere: «Un viaggio meraviglioso, Renato... », mentre un’orchestra segreta suonava Star Dust di Carmichael. Peccato che qualcuno singhiozzasse e disturbasse... il volo infinito o il volo verso l’infinito?
Mi ridestai, non so se da un incantesimo o da un incubo. Mio marito, seduto sull’orlo del letto, appallottolava il fazzoletto nell’unica mano, lo stringeva cercando il suo rifugio. Si accorse che mi ero svegliata. «Fa caldo» mi disse.
La guerra finì e passarono gli anni. Il cimitero delle Ardeatine, credo nel 1949, ebbe l’attuale sistemazione. Furono ritrovate e restaurate le grotte dove fu compiuta la strage: i trecentotrentacinque morti ebbero le loro tombe, tutte eguali, di granito, in un interrato coperto da una unica grande pietra, che lascia filtrare pochissima luce.
La scena è in ombra, ed è giusto che sia così: un manto arcano di oscurità fa intendere l’immensità del sopruso. Del resto l’oscurità appartiene al sempre degli uomini, né basta a rischiarare la lampada votiva che fu offerta da papa Paolo VI. Io e mio marito cambiammo casa, andammo ad abitare nella zona di Montesacro; lui aveva trovato lavoro in una banca. Pover’uomo, non aveva mirabolanti aspettative di carriera e le sue attribuzioni erano modeste, però, dalla mattina alla sera, aveva un posto dove andare e io mi affrancavo dal suo sguardo malinconico e canino. Figli non ne erano arrivati così, quando rimasi incinta e oramai ero sulla quarantina, mi ricordai della moglie di Talamo: solo che i tempi erano cambiati, non che l’umanità avesse rinunciato al rito dei massacri, ma nel nostro pezzo di mondo si era stabilito di non insistere. Partorii una bambina e volli chiamarla Gabriella, anche se dell’altra Gabriella, la piccolina che Maria Salimbeni maritata Talamo stringeva al collo, non avevo avuto più notizie. Di vero cuore le auguravo tutto il bene del mondo, come fosse stata mia figlia.
Montesacro è il regno della normalità. Non accadeva mai nulla. Vi fu una sola novità, spiacevole: mio marito si ammalò. Era una malattia dalla quale non si guariva. Non era più un giovanotto, ma era presto per andarsene. Accettò con titubante rassegnazione di essere condannato a morte. Le sue ultime ore furono terribili. Fuori di testa e fuori di coscienza, rantolava e vaneggiava, stringendo il fazzoletto nell’unica mano: aveva un cuore fortissimo e fu uno strazio stargli accanto mentre si spegneva rifiutandosi di farlo. Ripetè più volte: «Voleva... Voi capite: voleva... », ma chi e che cosa restò un mistero, fu impossibile comprendere quali allucinazioni o quali ricordi lo tormentassero, nelle nebbie dell’agonia. Se ne andò nelle prime ore di un pomeriggio d’estate. Faceva caldo.
Rimasi sola, con una bambina da crescere. Feci del mio meglio: in banca andai a lavorare io, al posto lasciato da mio marito e i miei parenti mi aiutarono in tutti i modi. Mia figlia studiò, si laureò, si sposò con un giovane ingegnere, di professione costruiva e vendeva case. Con un ricco. Volle che io continuassi ad abitare con lei e anche mio genero. Non fui contenta di abbandonare Montesacro: ci si abitua alle strade, all’edicola dei giornali, alla fermate dell’autobus, come fossero altrettanti pezzi della nostra vita e cambiare provoca sempre un trauma, quanto grande ciascuno giudichi secondo la propria sensibilità.
Presi buona nota che mi attendevano attico e superattico a via Nesazio, che non sapevo dove fosse: mi fu spiegato che Nesazio era un’antica città dell’Istria, sottomessa dai romani e anch’io mi sottomisi alle scelte di mia figlia e di suo marito. Non potevo immaginare. Quando vidi che attico e superattico erano a pochi passi dalle Fosse Ardeatine, era troppo tardi per tirarmi indietro, anche se da quelle parti non avrei preso dimora neppure per tutto l’oro del mondo. Non vorrei che si fraintendesse: ero estranea alla tragedia, ovviamente e tuttavia mi sembrava, per istinto più che per ragionamento, che la vicenda di almeno due dei trecentotrentacinque morti lambisse, sia pure in modo tanto ai baci di Villoresi o alla creaturina in collo a Maria Talamo, quanto a mio marito che nell’agonia rantolava: «Voleva... voleva... ». Aveva pattuito una contropartita, se si fosse piegato alla volontà di chi lo teneva in propria balia? La pelle in cambio di... mio Dio, quante libbre di carne mio marito aveva promesso al redivivo Shylock?
Mi feci coraggio e, una sera, mi recai al cimitero delle Ardeatine, nel tentativo un po’ folle di mitridatizzarmi al ricordo e al dolore. Cercai le tombe, mi raccolsi in preghiera. Percepii minuzie, particolari, sfumature che servirono a rendere la mia angoscia più soffocante: e rimpiansi che, tra tante lastre di granito, non ve ne fosse una anche per me.
Mentre mi aggiravo nel sotterraneo a ferro di cavallo nella cui curvatura era stata posta la camera della morte, credetti di sentir gridare, credetti, perché si era scatenata una tempesta di vento che, nelle gole della cava, ululava come un branco di lupi, sebbene fossi sicura di udire non so che imprecazioni... «Voleva! Voleva! » sghignazzava una voce infernale, trascinando polvere di pozzolana, foglie secche e preghiere per i defunti. In questo luogo non tornerò mai più, dissi a me stessa. Troppi dubbi, troppe ombre, troppi ricordi.
Mi confinai nell’attico e nel supera ttico di via Nesazio, e m’imposi di scacciare i brutti pensieri. La vita ha infinite risorse, per fortuna. Diventai nonna di una bella bambina. «La chiameremo Maria, come te, cara mamma» mi annunciò festante mia figlia, ma io le dissi di scegliere un nome più giovane, più moderno: Micaela, Deborah, Arabella...
Arabella all’improvviso esclama: «Nonna, voglio visitare il cimitero delle Ardeatine». Della farfalla non si interessa più. «Sei troppo piccola» insisto, «ed è uno spettacolo tristissimo. Resteresti sconvolta». Sto fingendo di volerla difendere: in realtà difendo me stessa. «Non ho paura della morte» obietta Arabella, «e poi sono già stata a Prima Porta con la mamma. Abbiamo portato i fiori sulla tomba del nonno... Tu non vai mai al camposanto a trovarlo. Lo so. Me lo ha detto la mamma e mi ha anche detto che non capisce perché. Forse sei tu ad avere paura, non è così?».
Dovrei raccontare e spiegare troppe cose alla nipotina, dovrei sollevare un dubbio sull’avo, mentre è giusto che gli antenati luccichino nei loro ritratti, dai quali guardano arcigni, paradigmatici, indistruttibili. Per quanto riguarda le Ardeatine, Arabella ha ragione ed è sbagliato che io le impedisca di conoscere, perché una mia angoscia, una mia nevrosi impedisce a me di ritornare tra quei poveri morti. «D’accordo, andremo a visitare il cimitero delle Ardeatine» prometto, «però non questa sera, oramai si è fatto tardi e dobbiamo ritornare a casa. Un altro giorno. Presto, prestissimo». «Parola d’onore?» Arabella vuole una conferma e gli occhi le brillano. «Giurato sulle tue cose più care?». «Giurato sulle mie cose più care» rispondo.
Terrò fede alla promessa. Nondimeno, il giorno dopo, decido di recarmi in avanscoperta e di riandare nel luogo proibito. Mi dico che a mettermi in fuga è stato il vento, soltanto il vento. Mi munisco di due grandi fasci di fiori e li stringo al petto, come fossero un salvacondotto che garantisce la mia buona fede.
Intorno a me non c’è che la morte, non c’è che l’immensa pace della morte. I fiori sono per Manfredi Talamo e per Renato Villoresi: depongo il mio effimero tributo e mi raccolgo in preghiera. Raccomando i due martiri a Dio. Con affetto. Renato con amore.
Mi assale il rimorso di avere speso la mia pietà solo per due delle trecentotrentacinque vittime e allora prego anche per gli altri, per tutti gli altri.
Che ricevano nell’al di là ciò che non hanno ricevuto su questa terra e che il Paradiso li accolga.
E capisco la ragione dell’ansia, del timore che sino ad oggi mi ha tenuta lontana dal sacrario: è una ragione inconscia ma inoppugnabile, estranea agli assassinati, alle loro tombe, ai loro fantasmi.
È una questione di famiglia, della mia famiglia.
Mi sono rifiutata di vedere, per serbare un po’ di rispetto a mio marito, alla sua memoria, ma adesso non è più possibile far finta di niente, ne va della salvezza dell’anima mia.
Sono vicina, vicinissima al sepolcro numero 8 e al sepolcro numero 30. Cado in ginocchio e: «Perdono... perdono...», sussurro.
E col dorso di una mano mi asciugo gli occhi.
© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA