GNOSIS 1/2012
ATTUALITA' INCONTRI SU TEMI CONTEMPORANEI Quattro chiacchere con..... Carlo De Stefano |
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La prima domanda è personale: lei è noto per essere un esperto di terrorismo a livello nazionale ed internazionale, di profonda esperienza e di vaste competenze, quali nuovi spunti Le sta offrendo l’incarico di Sottosegretario? Non mi limiterei a descrivere un solo elemento di novità. Parliamo di attività, quella da direttore della Polizia centrale di prevenzione e quella da Sottosegretario all’Interno con delega al coordinamento delle Forze di polizia, per quanto affini, sono profondamente diverse. Oggi, rispetto alle precedenti esperienze, ho il dovere di abbinare ad una lettura tecnica dei fatti, una necessaria riflessione politica. Tavoli di lavoro ai quali sto dedicando particolare attenzione, come la riforma della Polizia locale, non possono vedere una chiusura strettamente tecnico-formalistica bensì comportano un costante raccordo con le forze politiche, con gli operatori. E comprendo sempre più come la mia attività possa fungere da stimolo anche per una più intensa attività territoriale. Sto organizzando con una certa intensità in diverse zone d’Italia riunioni tecniche di coordinamento e questo mi consente da un lato di restare profondamente ancorato alla realtà, fatta innanzitutto di investigazioni repressive a fronte di fatti criminali, ma anche di comprendere come a livello centrale sia possibile dare impulso all’attività in periferia. Se posso usare pertanto una metafora l’attività di governo, oltre a fotografare il presente, ti stimola a sceneggiare il film del futuro che molto dipende dall’azione che quotidianamente si decide di sviluppare. E da ultimo non posso dimenticare che una consistente fetta del mio tempo è dedicata alla Commissione centrale sui programmi di protezione, che richiede grande impegno ed equilibrio nel valutare le diverse vicende umane e giudiziarie di testimoni e collaboratori di giustizia. È indubbio che la situazione economica europea, ed ancor di più quella italiana, influiscano sulle prospettive sociali del futuro del Paese: che Italia vede oggi? E tra 10 anni? Per rispondere alla domanda credo sia opportuno che Lei mi chieda che Italia vedevo 6 mesi orsono. Era un Paese sfilacciato e sfiduciato. Al riguardo mi viene in mente quella esauriente descrizione che fece della società italiana, in occasione della presentazione del Rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2010, il presidente del Censis Giuseppe De Rita. La definì una “poltiglia”, una “società mucillagine” composta da tanti coriandoli posti l’uno accanto all’altro, ma che non stavano insieme senza quella fiducia che aveva dato vita al boom economico del dopoguerra, all’industrializzazione di massa degli anni ‘70, alla lotta al terrorismo; con realtà come la scuola o le istituzioni - pensiamo alla Chiesa stessa - sempre meno viste come riferimenti valoriali, considerate scatole vuote. A fronte di questo, oggi vedo un’Italia che si ribella al declino, che accetta con serietà riforme anche impopolari ma che sente necessarie alla rinascita del popolo e ad un nuova crescita del Paese. La maggioranza della popolazione responsabilmente si è ribellata ai corporativismi e alle lobby. Quello che sarà l’Italia tra 10 anni, aldilà dei meri ma banali auspici, dipenderà dunque dall’intensità con cui gli italiani di oggi sapranno ricostruire una coscienza collettiva, appunto di popolo. Si è parlato di “obnubilamento della coscienza di classe” a favore di un benessere fittizio e “diffuso”, se è vero che la classe operaia non è mai andata in Paradiso, adesso dove è? Credo che oggi il concetto stesso di classe operaia sia profondamente mutato: non vi è più differenza sul piano sociale tra manodopera salariata, impiegati e liberi professionisti; si parla in generale di ceto medio. Parlare di “obnubilamento della coscienza di classe” può essere riduttivo perché il benessere diffuso è stato anche frutto di un innalzamento culturale e di un’emancipazione sociale dell’intero Paese. Ricordiamo che in Italia abbiamo una percentuale altissima di lavoratori qualificati e specializzati; penso ad esempio ad una realtà che conosco bene quella del personale delle Forze dell’ordine: ci sono migliaia di operatori che superano un concorso pubblico ed, entrati in servizio, ogni giorno affrontano problematiche diverse, nuove prove d’esame che richiedono competenze sempre più elevate. A questo innalzamento qualitativo, purtroppo, negli ultimi anni non è corrisposto un miglioramento stipendiale, anzi le problematiche economiche che hanno colpito l’Occidente già dal 2001 hanno portato ad uno schiacciamento verso il basso proprio del ceto medio, quel ceto medio che oggi ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese e che non solo non conosce il benessere fittizio ma ha dovuto adeguarsi alla dura regola del “far quadrare i conti”. Credo che anche solo per questi sacrifici e per le difficoltà familiari e sociali che ne derivano, non solo la classe operaia, ma l’intera borghesia oggi meriti un posto in Paradiso. L’anarchia è per eccellenza il contrario della organizzazione “rigida” anche nelle forme di protesta, può - tuttavia - parlarsi, in senso lato, di “organizzazioni anarchiche” e che peso hanno nella gestione della protesta? L’aspetto “anarchico” delle organizzazioni è venuto progressivamente crescendo con la diffusione di nuovi modelli culturali globali, primo tra tutti Internet. Le vecchie impostazioni gerarchiche e piramidali tipiche della cultura leninista, con un centro decisore (la vecchia Direzione Strategica delle B. R.) e una serie di strutture periferiche assolutamente dipendenti, sono progressivamente scomparse e sostituite da organizzazioni di tipo reticolare, formate da gruppi sostanzialmente autonomi e legati da una serie di relazioni più o meno forti, all’interno delle quali il comune progetto, spesso interpretato anche con sfumature ideologiche non identiche, fa da collante. Una sorta di modello in franchising, per intenderci. Tocca poi al Web realizzare l’aggregazione per specifici obiettivi di lotta; in quel momento tutte le diverse azioni vengono poi riferite ad una medesima istanza. In sintesi, la struttura reticolare e i suoi interscambi comunicativi sulla Rete emulano un’organizzazione compatta che, nella realtà, non esiste. Questa notazione vale, evidentemente, in generale. Non mancano, però, realtà organizzative più coese e simili ai modelli penalmente puniti come associazioni sovversive. Tuttavia, il dato che riguarda il basso livello di denuncia negli ultimi anni per le fattispecie previste e punite dagli articoli 270 e 270bis (e le plurime sentenze di proscioglimento) rende chiara la difficoltà di definire una mappatura delle attuali realtà associative operanti sul territorio nazionale come, invece, avvenuto negli anni ’70. Eppure i gruppuscoli anarchici si trincerano dietro la conclamata autonomia e il carattere individualista e di affinità per sviare l’attività investigativa degli inquirenti e nascondere le intese e le comuni pianificazioni che ci sono e denotano l’esistenza di finalità associative. La stessa Al Qaeda, del resto, oggi è unanimemente descritta come una ‘organizzazione liquida’ che lancia programmi e fatwe, affidandosi poi agli sforzi autonomi di chi intende riconoscersi nel proclama generale jihadista. Negli ultimi tempi stiamo assistendo, ad un’ulteriore evoluzione dell’organizzazione in franchising con iniziative terroristiche sempre più spesso affidate ai cosiddetti “lupi solitari”, circostanza questa che rende più difficile l’individuazione della minaccia. Il carattere di asimmetricità dello scontro pone, dunque, nuovi problemi all’intelligence ed all’investigazione e, soprattutto, richiede un’eccellente conoscenza e un costante monitoraggio di tutti i mezzi di informazione che, se da un lato rappresentano il più veloce e immediato strumento di propaganda, dall’altro consentono spesso alle Forze dell’ordine di impedire atti criminali. Ha senso in tempi di globalizzazione strutturale e ideologica esprimersi in termini di “destra” e “sinistra” o la classica divisione attiene a parametri datati anni 70? Ha senso, a patto che le due categorie vengano contestualizzate. Anche perché rispondere negativamente a questa domanda significherebbe riconoscere che le ragioni della politica abbiano definitivamente ceduto al dominio della “gestione dell’ordinario”, dell’assenza di progettualità. Tengo ancor più a sottolinearlo da “tecnico” chiamato a responsabilità di governo, giacché sono convinto che un esecutivo non politico debba guidare un Paese per un periodo di tempo limitato, terminato il quale, partiti e coalizioni, debbano riaffermare la loro ragion d’essere. In parole povere: la politica è la “norma”, la risposta “tecnica” al momento di emergenza deve rappresentare l’episodica “eccezione”. Al netto di questioni nominalistiche, destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, liberismo e socialismo, costituiscono dicotomie che danno senso e valore al principio stesso di democrazia. Senza di esse la democrazia non cambia pelle, semplicemente non è più tale. In termini di idee, cosa è rimasto di alcune formazioni storiche come Lotta Continua, il Movimento Studentesco, Terza Posizione o il FUAN? E che cosa è rimasto della “didattica” dei “cattivi maestri” del veterobrigatismo? Sicuramente dei vecchi maestri è rimasta una potente aura suggestiva che si alimenta, innanzitutto, sulla base del fatto che le vecchie contrapposizioni del secolo scorso non sono state sufficientemente metabolizzate da una critica puntuale e condivisa. Se a questo vi aggiungiamo troppe incertezze giudiziarie, su fatti anche gravissimi come le stragi, alcune rimaste sostanzialmente non interpretate quanto ad esecutori e mandanti, è più facile comprendere il perché di un mancato approdo ad una memoria condivisa. Aggiungo che, probabilmente, anche in molti “cattivi maestri”, pur protagonisti di una conversione personale, è apparso emergere rispetto a quel periodo un elevato grado di giustificazionismo delle antiche scelte (vedasi il fortissimo network culturale e mediatico degli ex di Lotta Continua). L’influsso delle antiche prospettive sembra, comunque, costituire un forte ricordo sia nei circuiti eversivi di sinistra che di destra, ma sia l’anarco-insurrezionalismo a sinistra che le pratiche nazional-comunitarie a destra si muovono su temi e iniziative molto diverse da vecchie prassi e comportamenti e necessitano, dunque, di un’accurata interpretazione di Intelligence. Anche in queste realtà si assiste all’utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici (es. Facebook), da parte di taluni esponenti del passato, per una sorta di rivisitazione giustificatoria del proprio percorso personale: e pur apparendo significativo il seguito notevole di queste iniziative, possiamo considerare la minaccia rappresentata dai vecchi esponenti, peraltro molto élitari, poco sensibile, a fronte invece del rischio connesso con nuove istanze di matrice terroristica. Quanto può essere effettivamente utile fare richiamo alla cultura della sicurezza? Gli italiani in questi mesi stanno dimostrando un alto livello di maturità. Stanno affrontando la crisi economica con la stessa dignità con cui hanno affrontato momenti anche più difficili della nostra storia sociale e politica. Certamente la realtà attuale in cui nasce e si alimenta il disagio sociale rende il quadro molto più complesso: le persone che si trovano in stato di bisogno o di paura o di difficoltà, possono essere più fragili. Per questo è molto importante come si comunica con loro, come si veicolano i messaggi e come si spiega loro ciò che sta accadendo. Richiamare la cultura della sicurezza non è mai vano purché non sia fine a se stesso. È necessario, oggi più che mai, diffondere i valori della legalità, del rispetto delle regole e, più in generale, della sicurezza come diritto e dovere di ciascuno per riavviare il nostro Paese verso la crescita e costruire una società più giusta per i nostri figli. Qual è il ruolo dei Servizi segreti in epoca di cyberwar e cyberthreat? La sicurezza informatica, soprattutto quella che riguarda le infrastrutture critiche, sta assumendo una valenza strategica, perché in caso di un “cyber attack” si potrebbe determinare una catastrofica interruzione di servizi essenziali. Essendovi, inoltre, interconnessione fra più sistemi e, quindi, reciproca interdipendenza, esiste il concreto rischio di un effetto domino. Certamente, per realizzare un attacco informatico ad una Rete protetta, è necessario avere competenze specifiche e conoscere dall’interno i sistemi di protezione informatica dell’infrastruttura. Ciò non è impossibile, come hanno dimostrato i clamorosi casi di Wikileaks e dell’impiegato di una banca svizzera, Falciani, che ha venduto al Governo francese un intero database con i nomi di migliaia di clienti sospetti evasori fiscali. Per non parlare degli attacchi posti in essere da “Anonymous” in molti Paesi, per ultimo anche in Italia, che predilige azioni verso settori che abbiano un forte impatto mediatico, come quello dei trasporti, dell’energia e delle Agenzie di sicurezza, come avvenuto in USA un anno fa. Non minore preoccupazione deve suscitare, al giorno d’oggi, la crescente, diffusa abitudine di “cinguettare” su Twitter o su Facebook. Esplorando la Rete, infatti, è facile imbattersi su personaggi noti, influenti on line, scoprendo i loro legami, le loro aree di interesse ed imbastendo fantasiosi e pericolosi quanto malevoli intrecci e falsità. In Italia la Polizia Postale del Dipartimento della P.S. ha dato prova di grande capacità di contrasto in materia. Molti Paesi ce la invidiano; gli stessi USA hanno recentemente dato mandato all’FBI di creare un sistema di monitoraggio delle reti sociali a fini antiterrorismo, ma anche a fini più generali di prevenzione. I Servizi devono affinare e potenziare le analisi di vulnerabilità dei sistemi informatici attraverso test controllati di penetrazione per individuare e neutralizzare la grande varietà di intrusioni ostili che minaccino le Reti. Come è destinata a cambiare, in Italia, la dinamica del mercato del lavoro? Aumenterà il pianeta “precari”? Spero che la riforma del mercato del lavoro che in queste settimane sta vedendo impegnato in modo prioritario il Governo e, assieme al Governo, le parti sociali e il Parlamento, sappia dare una risposta definita alla Sua domanda. L’Italia ha bisogno di un’intesa solida sulle regole che stabiliranno come entrare ed uscire dal mondo del lavoro. Credo che al netto dei distinguo, che inevitabilmente caratterizzano una “rivoluzione” come quella che si sta tentando di fare a proposito del mercato del lavoro, ci sia la volontà di trovare la quadratura del cerchio, per conciliare le varie esigenze. Oggi abbiamo una situazione di forte sottoccupazione, e la sottoccupazione è pericolosa non solo per l’economia, ma anche per la tenuta della società stessa. Troppo spesso parlando di lavoro si fà riferimento ai disoccupati e si considerano poco gli inoccupati, i “sospesi” come i cassintegrati e i sottoccupati, che pagano l’abuso del precariato, senza alcuna prospettiva per il futuro e stentano a pagare un affitto o le tasse scolastiche per i figli. Quale è la “tentazione sociale” maggiore per un ragazzo che non abbia alcun credo politico? E la maggiore tentazione politica per un giovane privo di collocazione sociale (senza essere né lavoratore, né studente)? Da recenti acquisizioni investigative è emerso che il rifiuto della socializzazione e il rinchiudersi in nuclei ristretti, se non solitari, non sembra costituire un fattore che metta al riparo i giovani dall’essere poi inglobati o trascinati in atteggiamenti violenti. Infatti, la scarsa consapevolezza politica e l’assenza di qualsivoglia ideologizzazione, sostenuta dalla rabbia tipica di chi è “contro”, moltiplica la suggestione specie allorquando il contesto di scontro viene vissuto in una dimensione essenzialmente ludica. Pensiamo a “er Pelliccia”, un ragazzo di poco più di vent’anni, in sé tipicamente apolitico, divenuto famoso per la foto che lo ritrae nell’atto di lanciare un estintore contro le Forze di polizia negli incidenti dell’ottobre scorso a Roma; rappresenta perfettamente l’antico proverbio medievale secondo cui “lo stupido è il miglior cavallo del diavolo”. Questo fenomeno mi preoccupa molto: su alcuni mezzi di informazione (soprattutto su pagine web e blog aperti) si è fatto passare un atto criminale per un gesto di protesta se non addirittura goliardico, rendendo un personaggio come “er Pelliccia” oggetto di ammirazione ed emulazione da parte di giovani che non riconoscono il disvalore dell’azione commessa. Per altro verso, la crisi che stiamo vivendo espone gran parte della popolazione giovanile a seri timori per il proprio futuro - innanzitutto economico ma non solo - e ci offre un quadro difficile della società odierna che non consente di essere fiduciosi, specie se in una prospettiva prossima i meccanismi di difesa familiare non riusciranno più a contenere e in qualche modo a soddisfare le ambizioni di vita delle nuove generazioni. Quindi, in assenza di un retroterra ideologico, trovo facile immaginare il consolidamento di un “proletariato della precarietà” che sia particolarmente sensibile ad istanze antagoniste e al cui interno potrebbero annidarsi elementi violenti che i network internazionali eversivi potrebbero selezionare, contattare e utilizzare. Sotto questo aspetto, ora come non mai, le politiche economiche e sociali devono essere fortemente collegate a quelle della sicurezza, per ristabilire un clima di maggiore equilibrio e impedire la nascita di pericolosi focolai di criminalità. Cosa si può augurare allora ad uno studente italiano? Di realizzare i propri sogni facendo leva sulle proprie forze, sulla responsabilità personale e sul buon senso. Università sovraffollate, nepotismo fra i docenti, valorizzazione della meritocrazia a corrente alternata, sono problemi reali che affliggono i nostri atenei; ma non devono rappresentare formidabili alibi che portino al disimpegno.
A differenza di quanto fatto da qualcuno in passato, non invito i nostri studenti a “scappare” all’estero, per due ragioni: 1) l’università italiana, complessivamente intesa, esprime un’offerta di qualità, con punte di assoluta eccellenza; 2) se si radicasse questo messaggio desertificheremmo il centro nevralgico della formazione della classe dirigente che verrà. Purtroppo non di rado alla formazione “domestica” segue l’inserimento (e la valorizzazione) professionale all’estero, e questo ci priva di “cervelli” di prim’ordine la cui fuga talvolta è senza alternativa, ahimè; ma esortare i nostri ragazzi a oltrepassare il confine fin dai 18 anni significherebbe rinunciare perfino alla speranza che dirigenti di valore possano assumere le redini del Paese. |