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GNOSIS 1/2012
Alla ricerca di una interpretazione equilibrata e sicura
L’uso legittimo delle armi
nella dottrina e nella pratica


Giuseppe AMATO


Si vuole fornire qualche indicazione operativa per la ricostruzione della causa di giustificazione dell’uso legittimo delle armi (articolo 53 c.p.) la cui applicazione, a volte incerta, non consente di dare la doverosa tranquillità agli operatori di polizia necessitati, per adempiere la propria attività, a far uso dell’arma d’ordinanza o di altri, meno invasivi, mezzi di coazione fisica
(Foto ansa)



Premessa

Non è facile dare un’immediata lettura operativa, tranquilla e sicura, alla disciplina della scriminante dell’ “uso legittimo delle armi” (articolo 53 c.p.). La norma di riferimento merita, infatti, di essere letta con attenzione, inquadrandola nel sistema dei principi generali in materia di cause di giustificazione. Anche la giurisprudenza intervenuta in materia, fornisce, talvolta, indicazioni non chiarissime, se non contraddittorie e perplesse (1) .


La norma di riferimento

Per un discorso organico bisogna ovviamente partire dal dato normativo di riferimento. Secondo la lettera del comma 1 dell’articolo 53 c.p., “ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti” [articoli 51 e 52 c.p.], non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, “fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”, quando vi è costretto dalla “necessità” di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.La stessa disposizione, secondo il comma 2, si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta, dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza.
Il comma 3 dell’articolo 53, fa comunque salvi “gli altri casi” indicati dalla legge nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica.


La funzione “residuale” della norma

Il fatto che la norma codicistica esordisca facendo salva l’applicazione delle scriminanti comuni dell’adempimento del dovere (articolo 51 c.p.) e della legittima difesa (articolo 52 c.p.) attesta del carattere sussidiario e residuale dell’articolo 53 c.p..
Anche prescindendo dal richiamo della scriminante della legittima difesa (ovviamente applicabile non solo al privato, ma anche all’operatore di polizia) (2) , non è, infatti, facile trovare un autonomo spazio applicativo dell’articolo 53 c.p., a fronte della scriminante dell’adempimento del dovere, che, per la polizia giudiziaria, si correla agli obblighi generali di cui all’articolo 55 c.p.p. [obbligo di attivarsi per impedire che i reati siano portati a conseguenze ulteriori, obbligo di ricercare l’autore del reato, obbligo di ricercare le prove del reato…] ed a quelli specifici connessi all’esercizio dei poteri tipici di polizia giudiziaria [si pensi alla disciplina dell’arresto in flagranza e del fermo di indiziato di delitto: articoli 380, 381 e 384 c.p.p.; alla disciplina della perquisizione: articoli 352 c.p.p., 41 del tulps, 103 del dpr 9 ottobre 1990 n 309, ecc.].
Risulta evidente che “già” l’articolo 51 c.p., per l’ adempimento dei doveri istituzionali propri degli organi di polizia, legittima l’uso di una certa dose di “violenza fisica”, necessitata e proporzionata, rispetto all’esecuzione dell’arresto, della perquisizione, ecc. ovvero rispetto all’interruzione dell’attività criminosa in corso. A ben vedere, l’uso della forza fisica per eseguire un arresto o una perquisizione sarebbe scriminato già dall’articolo 51 c.p. Così come, analogamente, l’uso dell’arma a scopo intimidatorio (spari in aria o ai lati della persona) o a scopo interdittivo (spari alle gomme del veicolo utilizzato per la fuga) sarebbe parimenti scriminato dall’articolo 51 c.p., senza necessariamente evocare la scriminante dell’uso legittimo delle armi.
Ciò appunto, dimostra il carattere sussidiario ed integrativo dell’articolo 53 c.p., rilevante [solo] per i casi in cui non è applicabile l’articolo 51 c.p.: trattasi di disposizione che serve per togliere ogni dubbio sull’utilizzo possibile e legittimo dell’”arma” per attingere direttamente la persona, in un contesto in cui tale utilizzo è condizione necessitata per l’adempimento degli obblighi istituzionali dell’operatore di polizia.
La natura sussidiaria ed integrativa della norma è attestata anche dalla limitata indicazione dei soggetti che possono avvalersi della scriminante. Si tratta dei soli pubblici ufficiali per i quali istituzionalmente è prevista la possibilità dell’uso della forza per la realizzazione dei propri doveri istituzionali: ergo, gli ufficiali o gli agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria; i militari in servizio di pubblica sicurezza, le guardie giurate nei limiti delle proprie competenze (3) .
Tanto è vero che, giusta l’indicazione contenuta nel comma 2 dell’articolo 53 c.p., la causa di giustificazione si può applicare anche ai privati, ma solo se ed in quanto “richiesti” dal pubblico ufficiale di prestargli assistenza (volontariamente o obbligatoriamente: cfr. articolo 652 c.p.). Non si applica, invece, al privato che “spontaneamente” esegue l’arresto ex articolo 383 c.p.p. (per questi potrebbe semmai discutersi della possibile applicabilità delle scriminanti della legittima difesa o dello stato di necessità: articoli 52 e 54 c.p.).
La natura integrativa e sussidiaria dell’articolo 53 c.p. è attestata anche dalla previsione, richiamata nel comma 3, di “ulteriore ipotesi” tipiche in cui è consentito l’uso delle armi (4) . Sono ipotesi che, come si vedrà, vanno “rilette” e interpretate alla luce dei principi della Costituzione e della CEDU.


I presupposti: la necessità dell’uso e la proporzione

Per cogliere la portata e i limiti dell’uso legittimo delle armi, occorre apprezzarne, in modo, come si vedrà, necessariamente coordinato, i presupposti.
Il primo presupposto, esplicito, è rappresentato, giusta appunto la formulazione letterale della norma, dalla “necessità” di respingere una violenza o di vincere una resistenza ovvero di impedire la consumazione di uno dei reati “tipici” [omicidio volontario, rapina a mano armata, ecc.].
Il secondo, implicito, è rappresentato dalla proporzione e dall’adeguatezza dell’uso della forza, nell’ottica dell’inevitabilità (extrema ratio) dell’uso dell’arma, in alternativa agli altri, meno invasivi, mezzi di coazione fisica. Il principio di proporzione, in vero, pur non essendo espressamente richiamato nella norma è di pacifica rilevanza dovendolo desumere da una serie di convergenti considerazioni.
In primo luogo, è principio proprio di tutte le scriminanti comuni ed è quindi applicabile anche all’uso legittimo delle armi.
In secondo luogo, la proporzione e l’adeguatezza, che confinano l’uso dell’arma ad una scelta necessitata e residuale, è imposto da una lettura costituzionalmente orientata della scriminante, che non può non vedere come eccezionale il sacrificio della vita e dell’incolumità di quanti pure si oppongano allo svolgimento dell’attività istituzionale degli operatori di polizia. Ulteriore argomento è desumibile, poi, dall’articolo 2 della CEDU (5) , laddove, dopo essersi affermato il “diritto alla vita”, si consente l’uso della forza con le armi, [ma] solo quando è “assolutamente necessario” per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale, per eseguire un arresto o impedire un’evasione, per reprimere una sommossa o una insurrezione. Infine, a ben vedere, pur mancando un’indicazione letterale esplicita, lo stesso articolo 53 c.p. evoca, implicitamente, il tema della proporzione” quando legittima non solo l’uso dell’arma, ma anche l’utilizzo di altri, più gradati e meno invasivi, “mezzi di coazione fisica”.


La “necessità” come “attualità”

Partendo dalla lettura interpretativa da dare al primo presupposto, non è dubitabile che “necessità” non può che significare “attualità” della condizione legittimante l’uso dell’arma o di altro mezzo di coazione fisica: per intenderci, occorre una violenza o una resistenza “in atto” che va contrastata ovvero occorre la consumazione “in atto” di uno dei reati tipici.
L’effettiva esistenza della situazione legittimante condiziona la concreta applicabilità della scriminante. In difetto, potrebbe semmai invocarsi la disciplina della causa di giustificazione putativa (articolo 59, comma 4, c.p.), in forza della quale la scriminante è comunque applicabile se l’agente “per errore” ritiene che ne esistano i presupposti; peraltro, se l’errore è determinato da “colpa”, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come colposo. In altri termini, la scriminante potrebbe applicarsi all’operatore di polizia giudiziaria che spari attingendo il fuggitivo pensando “erroneamente” di dover vincere una resistenza “armata”; mentre se l’errore di percezione risultasse colposo, l’operante sarebbe chiamato a rispondere del reato colposo di lesioni personali o di omicidio.
Deve però essere chiaro che l’”errore” che consentirebbe di avvalersi della scriminante “putativa” può cadere solo sui presupposti di “fatto” dell’esimente [per rimanere all’esempio fatto: l’agente pensava erroneamente di dover vincere una resistenza armata], non sui presupposti giuridici, ostandovi il disposto dell’articolo 5 c.p., sull’irrilevanza dell’ignoranza della legge penale [non si potrebbe invocare la scriminante se l’agente avesse utilizzato l’arma ritenendo che gli fosse consentito tout court sparare nei confronti di un fuggitivo] (6) .
L’apprezzamento del requisito della “necessità” non presenta particolari problemi quando l’uso delle armi riguardi il contrasto della consumazione “in atto” di uno dei delitti tipici. Va solo precisato che, ovviamente, perché possa ricorrersi all’utilizzo dell’ arma, onde evitare indebite estensioni, deve essersi in presenza quantomeno degli estremi del “tentativo” (articolo 56 c.p.) di uno dei reati tipici, non essendo consentito l’uso dell’arma per contrastare una semplice intenzione penalmente irrilevante.


La resistenza passiva e la fuga

Più problematico è l’apprezzamento del requisito della “necessità” per contrastare una violenza o una resistenza.
Vi è da chiedersi, cioè, se la violenza e la resistenza prese in considerazione dalla norma devono essere intese o no nel senso che deve trattarsi della violenza (fisica o morale) o della resistenza idonee ad integrare., rispettivamente, i reati di cui agli articoli 336 e 337 c.p..
È quesito di non poco conto perché dalla risposta dipende la soluzione che deve darsi nelle ipotesi della cosiddetta resistenza passiva e della fuga, situazioni che, pacificamente, non integrano il reato di cui all’articolo 337 c.p. (7) Troppo semplicistica e penalizzante per l’operatore sarebbe la risposta che volesse escludere sempre la rilevanza della resistenza passiva e della fuga dall’ambito di operatività dell’articolo 53 c.p..
La risposta va data invece considerando il principio di proporzione, che, come si è visto, costituisce ulteriore presupposto di applicabilità della scriminante.
Ne deriva allora, tanto per esemplificare, che la resistenza passiva, pur non legittimando l’uso dell’arma per attingere la persona, ben consente mezzi di coazione diversi e meno invasivi (ad esempio, l’uso della forza fisica per lo spostamento coattivo dei manifestamente o degli autori di un blocco stradale o ferroviario).
Parimenti, sempre volendo esemplificare, la “fuga” ben consente l’uso dell’arma, non per attingere la persona, ma a scopo intimidatorio. Se si vuole si tratta di situazioni dove l’uso della coazione fisica troverebbe copertura già nel richiamato articolo 51 c.p..
Per converso, non è dubbio che la fuga integra il reato di resistenza ex articolo 337 c.p. e consente anche l’uso dell’arma per attingere il fuggitivo allorquando si svolga con modalità pericolose: si pensi all’ipotesi della fuga “armata” (8) ovvero a quella della fuga realizzata a bordo di un veicolo con manovre pericolose per l’incolumità degli operanti o di altri utenti della strada (9) .
Tolta questa ipotesi della fuga “pericolosa”, in ossequio al principio di proporzione, deve farsi applicazione della regola in forza della quale la fuga all’alt o all’arresto non integrando resistenza “attiva” non consente l’uso diretto delle armi per attingere il fuggitivo (10) .


La rilevanza del criterio di proporzione

È proprio il principio di proporzione, tra l’altro desumibile dall’articolo 2 della CEDU (11) , che consente di dare una lettura equilibrata dell’articolo 53 c.p., che eviti ingiustificati rigorismi applicativi nei confronti degli operanti e, nel contempo, ingiustificate dilatazioni nell’uso dell’arma anche in contesti in cui questo non si palesa necessario e inevitabile.
Il richiamo al principio di proporzione impone anche di “rileggere” in modo equilibrato le ipotesi “tipiche” [richiamate, come si è visto dal comma 3 dell’articolo 53 c.p.] in cui è consentito l’uso delle armi. Tutte queste ipotesi (12) vanno quindi reinterpretate, nel rispetto di tale principio, dovendosi escludere che possano semplicisticamente “legittimare” l’uso diretto delle armi per attingere il soggetto pur in assenza di condizioni tali da renderlo “necessitato”, perché l’unico possibile per la soddisfazione dei doveri istituzionali del pubblico ufficiale. Per intenderci, anche in caso di evasione dal carcere, non può ritenersi consentito l’uso indiscriminato delle armi nei confronti dei fuggitivi, ma ciò è ammesso solo come extrema ratio, allorquando l’uso solo intimidatorio non abbia sortito effetto e quando le modalità della fuga si presentino come pericolose per l’incolumità di terzi o degli stessi operanti.


L’apprezzamento della proporzione e l’eccesso colposo

L’apprezzamento del rispetto del presupposto della proporzione, da intendersi come “proporzione” nella scelta dei mezzi coercitivi [arma o altri mezzi di coazione fisica], come “adeguatezza” nell’uso dei mezzi prescelti e come “inevitabilità” (estrema ratio) dell’uso dell’arma per attingere il soggetto, va fatto ex ante, riportandosi ovviamente al momento dell’attività. Se il giudizio è positivo, si applica la scriminante, non potendosi fare carico all’operante neppure dell’evento diverso e più grave verificatosi (la morte o la lesione). La presenza non controversa della scriminante escludendo che il fatto (appunto, in ipotesi, la morte o le lesioni) costituisca reato imporrebbe correttamente che la posizione dell’operante venga definita a modello 45, senza cioè formale iscrizione a modello 21 sul registro delle “notizie di reato”. Ciò evita di dover sottoporre a procedimento penale l’operatore di polizia, la cui posizione può essere definita con archiviazione diretta da parte dello stesso pubblico ministero. Una iscrizione nel registro delle notizie di reato, magari prodromica ad una formale archiviazione richiesta al giudice per le indagini preliminari, potrà e dovrà farsi solo nei casi dubbi, in cui, cioè, i presupposti di applicabilità della scriminante non emergano con palmare evidenza, imponendosi qualche approfondimento investigativo.
Diversamente, se il giudizio sulla sussistenza della scriminante è negativo, e, soprattutto, se si apprezzano profili di colpa a carico dell’operante o nella scelta dell’arma o nell’uso concreto dell’arma, si porrà un problema di responsabilità dell’operante a titolo di eccesso colposo ex articolo 55 c.p.. Ciò che può verificarsi, esemplificando, quando l’uso dell’arma è legittimo, ma le modalità di tale uso [numero dei colpi, modalità di esplosione, ecc.] si palesano come colpose, derivandone la responsabilità dell’operante per i reati omicidio colposo o di lesioni personali colpose (13) .


Conclusioni

Quanto esposto, e soprattutto la considerazione che i presupposti della necessità dell’uso e della proporzione nella scelta dei mezzi e nelle modalità dell’uso vanno letti congiuntamente, riteniamo che consenta di pervenire ad individuare una regola di condotta sufficientemente chiara, in grado di coniugare la certezza e la tranquillità dell’operatore di polizia con le esigenze sottese all’incolumità fisica del contraddittore”. E ciò rispettando i principi costituzionali e quelli desumibili dal più volte richiamato articolo 2 della CEDU.
Solo per completezza, va soggiunto che il ragionamento sopra sviluppato vale anche, nella ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi tratteggiati dall'articolo 53 c.p., per il personale dei Servizi di informazione per la sicurezza.
Sotto questo profilo, nulla è innovato, in modo ampliativo, dall'articolo 17, comma 1, della legge 3 agosto 2007 n. 124, che, come è noto, introduce una speciale causa di giustificazione riservata al personale dei Servizi di informazione per la sicurezza che, nell'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, ponga in essere condotte astrattamente integranti reato (14) .
Basti considerare, con valutazione assorbente, il disposto del comma 2 dell'articolo 17 della legge n. 124 del 2007, dove vengono individuati una serie di fatti non giustificati, né giustificabili invocando la disciplina speciale di garanzia: si tratta dei delitti "diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l'integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute e l'incolumità di una o più persone". Da ciò derivando, in tutta evidenza, che i fatti potenzialmente e/o concretamente lesivi della vita e dell'incolumità altrui - che sono i beni giuridici tipicamente pregiudicati dall'uso delle armi o degli altri mezzi di coazione fisica- non trovano copertura diretta nella disciplina speciale prevista per gli operatori dei Servizi, ma, semmai, possono essere giustificati secondo i limiti delle scriminanti comuni, in particolare proprio quella dell'articolo 53 c.p..


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Editore: Utet, Torino, 1999, vol.XV, p.124


(1) Basti pensare alla “nota” sentenza della Cassazione, Sezione IV, 6 febbraio 2003, Fusi che, come si vedrà, ha completamente frainteso le indicazioni ricavabili dall’articolo 2 della CEDU, fornendo una inaccettabile e pericolosa lettura della scriminante.
(2) Non interessa in questa sede approfondire i presupposti della legittima difesa. È sufficiente ricordare che i presupposti essenziali della scriminante della legittima difesa, ammessa nei confronti di tutti i diritti, personali e patrimoniali, sono costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima: la prima è costituita dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto (proprio od altrui); la seconda inerisce alla necessità di difendersi, rispetto ad un pericolo altrimenti inevitabile, ed alla proporzione tra la difesa e l’offesa provocata all’aggressore (cfr., ex pluribus, Cassazione, Sezione I, 27 febbraio 2001, Mignemi; Sezione IV, 12 febbraio 2004, Lopez). Con la doverosa precisazione, peraltro, che, ai fini del riconoscimento della scriminante, la necessità di difendersi e la proporzione tra la difesa e l’offesa vanno intese nel senso che la reazione deve essere, nelle circostanze della vicenda (apprezzate ex ante), l’unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa egualmente idonea alla tutela del diritto: cosicché, per intendersi, è da escludere la scriminante nella condotta di chi spari, uccidendolo, al ladro, in precedenza introdottosi nella sua abitazione, allorquando questi si stia dando alla fuga (Cassazione, Sezione IV, 4 luglio 2006, De Rosa).
(3) L’articolo 41 c.p.m.p. estende la scriminante dell’uso legittimo delle armi anche ai militari in servizio.
(4) Cfr., in particolare, la legge 4 marzo 1958 n. 100, relativa all’uso delle armi da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio alla frontiera o in zona di vigilanza; l’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario, l’articolo 169 del r.d. 30 dicembre 1937 n. 2584 e l’articolo unico della legge 28 giugno 1977 n. 374, con riguardo alle carceri; l’articolo 158 del tulps, con riguardo ai passaggi abusivi attraverso le frontiere.
(5) “Diritto alla vita. 1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non è considerata inflitta in violazione di questo articolo quando derivasse da un ricorso alla forza reso assolutamente necessario: a) per assicurare la difesa di qualsiasi persona da una violenza illegittima; b) per eseguire un arresto legale o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta; c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione”.
(6) Cfr. Cassazione, Sezione I, 30 settembre 1982, Curreri, secondo cui l’esimente putativa dell’uso legittimo delle armi può ravvisarsi quando l’agente abbia ritenuto per errore di trovarsi in una “situazione di fatto” tale che ove fosse stata realmente esistente egli sarebbe stato nella necessità di fare uso delle armi; tale esimente non può ravvisarsi, invece, quando l’errore sia caduto sulla efficacia della norma perché in tal caso l’errore si risolve nella ignoranza della legge penale che non scusa (nella specie un poliziotto aveva sparato colpi d’arma da fuoco contro una persona in fuga ritenendo che la norma lo autorizzasse a fare uso dell’arma anche in una tale situazione di fatto).
(7) Solo per esemplificare, tra le altre, cfr. Cassazione, Sezione VI, 5 giugno 2008, Parisi, secondo cui perché ricorrano gli estremi del reato di resistenza a un pubblico ufficiale è necessario il verificarsi di atti positivi di aggressione o di minaccia che impediscano al pubblico ufficiale di compiere l’atto del proprio ufficio: ciò che non si verifica, realizzandosi semmai una mera disobbedienza o resistenza passiva, nella condotta di chi, non aderendo all’invito rivoltogli dagli operanti di seguirli presso i loro uffici, senza porre in essere alcuna violenza o minaccia, ma limitandosi a rimanere “aggrappato” al braccio di uno degli operanti, finisca con l’essere introdotto di peso nell’autovettura di servizio; nonché, Cassazione, Sezione VI, 26 gennaio 2011, S., dove si è affermato che solo i comportamenti inerti di mera disobbedienza o resistenza passiva non integrano gli estremi del reato di resistenza a un pubblico ufficiale, onde tale reato è correttamente ravvisato nel comportamento di chi, per sottrarsi ad un controllo di polizia, sia fuggito a bordo del proprio mezzo di trasporto, affrontando una strada stretta ed affollata, compiendo manovre pericolose, zigzagando, così costringendo le forze dell’ordine a manovre azzardate e di fatto, quindi, realizzando una condotta idonea a porre in pericolo la pubblica incolumità e volta a creare una coartazione psicologica indiretta dei pubblici ufficiali operanti.
(8) Cfr. Cassazione, Sezione I, 16 maggio 1978, Ognibene, che ha riconosciuto legittimo l’uso delle armi da parte degli agenti della forza pubblica per superare la resistenza armata opposta da chi nell’atto di essere tratto in arresto abbia esploso un colpo di pistola contro gli stessi e si sia dato alla fuga ancora in possesso dell’arma.
(9) Cfr. Cassazione, Sezione IV, 7 giugno 2000, Brancatelli, secondo la quale la fuga del soggetto nei cui confronti il pubblico ufficiale è tenuto ad adempiere al dovere d’ufficio non può escludere in assoluto l’esistenza della scriminante dell’uso legittimo delle armi, essendo necessario procedere alla valutazione delle modalità con le quali la fuga stessa è realizzata e dovendosi ritenere che, quando tali modalità siano tali da porre a “repentaglio” l’incolumità di terze persone, l’uso delle armi, opportunamente graduato secondo le esigenze del caso e sempre nell’ambito della proporzione, è legittimo, sempre che non sia possibile un altro mezzo di coazione di pari efficacia ma meno rischioso.
(10) Cfr. Cassazione, Sezione IV, 17 febbraio 2011, Serafino, che ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna per omicidio colposo pronunciata nei confronti di un carabiniere che risultava avere sparato, con esito mortale, alcuni colpi nei confronti di un veicolo non arrestatosi all’alt, in assenza di condizioni di “pericolosità” della fuga, tali da giustificare l’utilizzo dell’arma per arrestare la condotta di fuga. Conformemente, Cassazione, Sezione I, 28 gennaio 1991, Caporaso ed altri; nonché, Cassazione, Sezione IV, 13 marzo 1986, Rigano.
(11) Solo per debito di informazione, va ricordata una sentenza della Cassazione, rimasta isolata e unanimemente criticata, che ha impropriamente letto l’articolo 2 della CEDU in un’ottica ampliativa della scriminante, in termini tali da giustificare l’uso dell’arma per attingere il fuggitivo anche solo in presenza di una semplice fuga non “pericolosa”: cfr. Cassazione, Sezione IV, 6 febbraio 2003, Fusi.
(12) V. nella nota - 4 -.
(13) Cfr., per esempio, Cassazione, Sezione IV, 15 novembre 2007, Saliniti, dove si è ritenuto che correttamente fosse stata affermata la responsabilità, a titolo di eccesso colposo, nei confronti di un agente di polizia il quale, in ora notturna ed in zona poco frequentata, a fronte del gesto di un soggetto che aveva estratto e puntato contro la pattuglia di cui detto agente faceva parte una pistola, rimanendo quindi fermo in tale atteggiamento, con un ginocchio a terra, nel mezzo della strada, aveva esploso contro costui, dopo essersi portato a distanza di sicurezza, al riparo dell’autovettura di servizio, i cui fari abbagliavano l’antagonista, alcuni colpi di pistola che ne avevano cagionato la morte; nonché, Cassazione, Sezione IV; 31 gennaio 2008, Giacobbe, dove l’eccesso colposo è risultato motivato in ragione dei numerosi colpi sparati“.
(14) Ci permettiamo rinviare a G. AMATO, Le garanzie funzionali per gli operatori di intelligence, in Gnosis 3/2011, p. 73 e ss..

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