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GNOSIS 4/2011
Da Piazza Tahir a Zuccotti Park


Globalizzazione delle proteste
o globalizzazione delle ideologie?


Valentina COLOMBO


New York - 'Indignados davanti alla sede di Wall Street
( Foto da http://statik.nanopress.it)
 
Molti analisti sono convinti che un lungo filo unisca la ‘primavera araba’, gli ‘indignados’ e i movimenti americani che hanno assediato Wall Street.
Altri sostengono che, se all’apparenza esistono delle somiglianze tra i fenomeni, in realtà si tratta soprattutto di aspetti che potremmo definire “esterni”: l’utilizzo degli stessi strumenti di comunicazione.
Altri aspetti non sarebbero direttamente comparabili. Ma un cemento ideologico esiste e va trovato nell’antiamericanismo, nell’anticapitalismo connesso a condizioni sociali e politiche degradate.
Una saldatura pericolosa e capace di coagulare pulsioni diverse verso obiettivi che potrebbero diventare comuni. Una presa di coscienza che impone analisi corrette e scelte conseguenti.

Esiste un legame tra la cosiddetta ‘primavera araba’, le manifestazioni di piazza che da un anno animano la sponda sud del Mediterraneo, gli “indignados” e le manifestazioni sempre più frequenti nelle piazze europee e statunitensi, in modo particolare il movimento ‘Occupy Wall Street’?
Il Premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz ne è convinto.
In un recente articolo parla di "globalizzazione della protesta" e afferma che " il movimento di protesta che è iniziato in Tunisia in gennaio 2011, e si è diffuso in Egitto, poi in Spagna, è ormai diventato globale, con le proteste che circondano Wall Street e altre città in America.
La globalizzazione e la tecnologia moderna fanno sì che i movimenti sociali oltrepassino i confini, rapidamente quanto le idee. La protesta sociale ha trovato terreno fertile ovunque: la sensazione che il 'sistema' abbia fallito e la convinzione che anche in una democrazia il processo elettorale non "metterà le cose a posto - per lo meno non lo farà senza una forte pressione dal basso" (1) .
In un altro articolo, nel quale evidenzia che le rivoluzioni in Medio Oriente e le manifestazioni in Occidente sono conseguenza dell'insoddisfazione del 99% della popolazione contro l’1% che detiene potere politico ed economico, Stiglitz ribadisce che le proteste di milioni di persone contro i regimi totalitari egiziano e tunisino sono il frutto amaro di "società dove una minuscola frazione della popolazione – meno dell'1% – fa la parte del leone nel controllo della ricchezza; dove la ricchezza è il principale fattore che determina il potere; dove una radicata corruzione è uno stile di vita e dove il più ricco spesso ostacola le politiche che migliorerebbero la vita della maggior parte delle persone" (2) . La disparità sociale, la ricchezza e il potere in mano di pochi sarebbero, quindi, lo stato di fatto comune alla base dei movimenti di protesta che vanno dal Nord Africa agli Stati Uniti.
Di diverso parere è, invece, Ehab Zahriyeh, giornalista indipendente che si è occupato della ‘rivoluzione del Loto’. Sebbene esistano delle somiglianze, non si possono fare paragoni diretti perché, così facendo, "si discrediterebbero le tremende lotte e i sacrifici arabi e si limiterebbe il movimento ‘Occupy Wall Street’ in una cornice che non calza" (3) . Sebbene Zuccotti Park – così come Piazza Tahrir – sia stato circondato da barricate e dalla polizia, sebbene i manifestanti di New York, come quelli del Cairo, vogliano conseguire il loro obiettivo soprattutto attraverso il ricorso ai social media, la situazione è diversa.
Questa opinione è perfettamente in linea con le parole di Asmaa Mahfouz, la giovane egiziana del Movimento dei giovani del 6 aprile, nel video-appello alla ribellione contro Hosni Mubarak, messo su Youtube il 18 gennaio scorso: "Quattro egiziani si sono dati fuoco per protestare contro la povertà, le umiliazioni, la loro vita miserabile, dopo i 30 anni di potere. Lo hanno fatto per innescare in Egitto una rivoluzione come quella tunisina […]. Vi voglio dare un semplice messaggio: vogliamo scendere in Piazza Tahrir il 25 gennaio. […] scenderemo per chiedere i nostri diritti, i nostri fondamentali diritti umani… non voglio nemmeno parlare di diritti politici. Vogliamo solo i nostri diritti umani e nient'altro. Questo governo è corrotto - un Presidente corrotto e un apparato di sicurezza corrotto. Queste persone che si sono autoimmolate non avevano paura della morte, ma avevano paura delle forze di sicurezza" (4) . Con queste parole Asmaa Mahfouz esordiva. È l'appello, visualizzato infinite volte, che insieme a quelli messi in rete da altri giovani rivoluzionari egiziani – come Wael Ghonim, Ahmed Maher, Wael Abbas – ha contribuito in maniera decisiva a dare vita alla sollevazione del 25 gennaio, scintilla della rivolta popolare che avrebbe portato l'11 febbraio alla caduta del rais. "Quel giorno, quando registrai con la videocamera il mio appello alla mobilitazione, non immaginavo che Mubarak sarebbe caduto così in fretta ma sapevo che tutti gli egiziani erano pronti a morire pur di trasformare il paese, proprio come stavano facendo i tunisini", racconta la giovane attivista, 26 anni appena compiuti.
Il video della Mahfouz ricorda, quindi, che una delle cause profonde della rivoluzione egiziana è da identificarsi nella sensazione di totale insicurezza del popolo e della gioventù egiziana. In un'altra intervista televisiva, rilasciata al canale egiziano al-Mihwar TV il 31 gennaio 2011, la Mahfouz ricorda ancora che l'idea della prima grande manifestazione in Egitto nasce dopo la strage di copti ad Alessandria avvenuta a Capodanno. Non a caso la scelta del 25 gennaio, giorno della festa della Polizia. La giovane attivista afferma che "all'inizio c'erano solo due richieste: la prima riguardava le dimissioni del Ministro dell'Interno e l'accertamento della responsabilità del fallimento delle Forze di sicurezza, la seconda era la dissoluzione del Parlamento" (5) .
Solo in seguito, soprattutto dopo che il 14 gennaio dello scorso anno il Presidente tunisino Ben Ali lasciava il Paese, è subentrata la terza richiesta: una vita di libertà e dignità. Si può, quindi, dedurre che nelle proteste di Piazza Tahrir, per lo meno inizialmente, l'aspetto economico era solo secondario ma, anche qualora si ammettesse il contrario, ci si troverebbe di fronte ad una situazione completamente diversa da quella occidentale. In Egitto quasi il 40% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, oltre il 20% vive al di sotto della soglia di povertà (6) , quindi il numero delle persone che non hanno nulla da perdere è decisamente più elevato rispetto a quello statunitense.
A questo punto occorre domandarsi se più che di una globalizzazione delle proteste, di una "primavera" globale, non si possa parlare di una globalizzazione delle ideologie. È vero, giovani egiziani come Mos'ab Elshamy, uno studente di medicina e attivista di Twitter, hanno cercato di trasferire la propria esperienza maturata in Egitto ai manifestanti di New York. Elshamy, di recente, ha fornito una sorta di manuale ai manifestanti del movimento ‘Occupy Wall Street’ (7) . I suoi consigli evidenziano le similitudini, ma anche le differenze sostanziali tra le due realtà. In prima istanza si sottolinea che in entrambi i casi non esiste un leader, ma in Egitto il programma era fortemente caratterizzato, chiaro e manifesto: rovesciare il governo Mubarak. Inoltre, un elenco delle richieste campeggiava in Piazza Tahrir, cosa che non è mai accaduta a Zuccotti Park. Pur esistendo diversi manifesti e una dichiarazione in cui si enunciano i problemi, è difficile, secondo Elshamy, comprendere "quale risultato rappresenterebbe la vittoria per i manifestanti". In Egitto, gli obiettivi erano condivisi da elementi della popolazione che in altri momenti non si sarebbero mai trovati in accordo, come ad esempio la sinistra e i Fratelli Musulmani; negli Stati Uniti tutto questo sarebbe più difficile da realizzare.
Tuttavia, entrambi i movimenti condividono l'esigenza di dimostrare che la loro lotta non si limita e non è ancorata al ceto medio. Sempre secondo Elshamy una ulteriore differenza di fondo risiede anche nel rapporto con le Forze di polizia. Nonostante, come si è già avuto modo di affermare, le proteste egiziane siano iniziate da una ribellione nei confronti delle forze preposte alla sicurezza, nonostante sia fisiologica la tensione tra manifestanti e polizia, lo studente egiziano consiglia di evitare uno scontro diretto che avrebbe inevitabili conseguenze mediatiche negative che andrebbero ad aggravare la già scarsa copertura mediatica del movimento. "Anche in Egitto – afferma Elshamy – i mezzi di comunicazione inizialmente sminuivano le azioni dei manifestanti, definendoli facinorosi o agenti stranieri pagati per ottenere altri scopi" tanto che c'è stato un periodo in cui i manifestanti "hanno iniziato a essere autoprotettivi e a cacciare i giornalisti dalla piazza, soprattutto i canali televisivi non graditi". L'ultimo consiglio dall'attivista di Piazza Tahrir è quello di calibrare le energie sia fisiche che psicologiche. "Dovete festeggiare ogni risultato che raggiungete, piccolo o grande che sia".
Se giovani come Elshamy hanno cercato di trasmettere "la tecnica della protesta", diversa è la condivisione mostrata dai cosiddetti "Comrades from Cairo" in un messaggio inviato il 25 ottobre ai manifestanti di ‘Occupy Wall Street’ e dalla giovane Mahfouz che, nello stesso giorno, ha tenuto un discorso a Zuccotti Park. È una condivisione ideologica, anti-americana e anti-capitalista. La lettera pubblicata dal quotidiano britannico The Guardian e firmata dai "Comrades from Cairo" evidenzia la vicinanza ideologica: "A tutti coloro che nel mondo stanno occupando parchi, piazze e altri spazi, i vostri compagni de Il Cairo vi stanno guardando con spirito solidale […]. Siamo in una certa qual misura coinvolti nella stessa battaglia. Quella che molti studiosi chiamano la "primavera araba" affonda le proprie radici nelle manifestazioni, nelle rivolte, negli scioperi e nelle occupazioni che hanno luogo nel mondo intero. Le sue fondamenta sono da ritrovarsi in lotte durate anni da parte di singoli e dei movimenti popolari. Il momento che stiamo vivendo non è nuovo, poiché noi in Egitto, ed altri altrove, abbiamo combattuto i sistemi di repressione, di mancata liberazione e i danni incontrollati del capitalismo globale (sì, l'abbiamo detto, capitalismo): un sistema che ha reso il mondo pericoloso e crudele per i suoi abitanti […]. Un'intera generazione in tutto il globo terrestre è cresciuta rendendosi conto, razionalmente e emotivamente, che non abbiamo futuro nell'attuale ordine delle cose. Viviamo in preda alle politiche di aggiustamento strutturale e la supposta esperienza di organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Mondiale […]. I profitti e i benefici di quei mercati liberalizzati sono finiti altrove, mentre l'Egitto e altre Nazioni del sud si sono sempre più impoverite e sono state, come se ciò non bastasse, sempre più represse e torturate dalla polizia. L'attuale crisi in America e nell'Europa occidentale ha iniziato a portare questa realtà anche a casa vostra […]. Così siamo con voi non solo nel tentativo di abbattere il vecchio, ma di sperimentare il nuovo […]. Le occupazioni devono continuare, perché non c'è più nessuno a cui chiedere la riforma. […] siate pronti a difendere quel che avete occupato, quel che state costruendo perché, dopo tutto quello che ci è stato sottratto, questi spazi sono molto preziosi (8) ".
Se in questo messaggio viene evidenziato l'anti-capitalismo, l'opposizione alle organizzazioni monetarie mondiali, le parole di Asmaa Mahfouz pronunciate lo stesso giorno toccano l'altro argomento chiave, l'altro collante ideologico, ovvero l'anti-americanismo: "Hanno dato soldi e sostegno al regime di Mubarak, ma il nostro popolo, il popolo egiziano, ha avuto la meglio su tutto ciò, sulla potenza degli Stati Uniti. Così, il potere è andato al popolo, non per le pallottole statunitensi non per le loro bombe né per i loro soldi. Il potere al popolo. Quindi sono in spirito di solidarietà e sostegno dei manifestanti di ‘Occupy Wall Street’ per dire che 'il potere (va) al popolo', che devono tenere duro e alla fine ce la faranno." Non manca nemmeno un attacco ironico al presidente americano Barack Obama: "Avete promesso al vostro popolo di essere il cambiamento e il motto 'Yes, we can'. Così siamo qui con gli ‘Occupy Wall Street’ e diciamo le stesse parole: 'Yes, we can'. Possiamo costruire la nostra libertà, possiamo ottenere la nostra libertà anche da voi (9) ".
Forse Asmaa ha dimenticato le parole di Obama pronunciate a Il Cairo il 4 giugno 2009 quando, affrontando la tematica della democratizzazione del mondo islamico, ha affermato: "Il quarto argomento di cui voglio parlarvi è la democrazia. So che negli ultimi anni ci sono state molte polemiche su come debba essere incentivata la democrazia e molte di esse sono da rapportare alla guerra in Iraq. Sarò chiaro: nessun sistema di governo può o deve mai essere imposto da una nazione a un'altra. Questo non vuol dire, chiaramente, che il mio impegno nei confronti dei governi che riflettono il volere dei loro popoli è minore. Ciascuna nazione dà vita a questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni del suo popolo, l'America non pretende di sapere che cosa sia meglio per ogni nazione, così come non condizionerebbe mai il risultato di elezioni regolari e pacifiche. Sono, però, convinto che tutti i popoli aspirino alle medesime cose: la possibilità di parlare ed esprimersi liberamente, di decidere come vogliono essere governati; la fiducia nella legge e nell'equa amministrazione della giustizia; un governo trasparente che non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come vuole. Questi non sono ideali americani esclusivi, ma diritti umani ed è per questo che noi li appoggeremo ovunque (10) ".
Forse Asmaa ha dimenticato che il 27 gennaio 2009, a soli otto giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, Obama ha rilasciato una lunga intervista alla rete satellitare araba al Arabiya durante la quale ha esordito con un mea culpa: "Troppo spesso gli Stati Uniti hanno dettato le condizioni: è ora di ascoltare (11) ".
Non è, quindi, stato un caso che il discorso de Il Cairo sia stato preceduto, il 22 maggio, da una lettera aperta a Obama di Radwan Masmoudi, Direttore del Center for the Study of Islam and Democracy con sede a Washington, un testo sottoscritto da più di 1.300 rappresentanti del mondo arabo-islamico (12) .
Non è un caso nemmeno il fatto che la lettera sia stata indirizzata a Barack "Hussein" Obama, a sottolineare il legame naturale del presidente degli Stati Uniti con l'Islam. Il testo, un appello per la promozione della democrazia in Medio Oriente, appare più che condivisibile, tanto da essere stato sottoscritto sia da studiosi occidentali, sia da intellettuali musulmani di ogni corrente di pensiero. Il primo paragrafo fa un esplicito riferimento all'intervista su al Arabiya: "La vostra presidenza rappresenta un'opportunità storica per avviare una nuova fase" nel "rapporto tormentato tra Stati Uniti e mondo musulmano. Siamo sollevati dalla vostra promessa di ascoltare e comprendere le speranze e le aspirazioni degli arabi e dei musulmani". Si elogia anche l'intento di volere raggiungere la gente, ma si pone al contempo una sorta di ultimatum: "Questo è un passo che deve essere seguìto da concreti cambiamenti politici (…). È cruciale che gli Stati Uniti si schierino storicamente dalla parte dei diritti umani, civili e politici delle popolazioni del Medio Oriente. Non c'è dubbio che queste ultime desiderino maggiore libertà e democrazia". Si critica poi l'atteggiamento titubante dagli Stati Uniti: "Per troppo tempo la politica americana in Medio Oriente è stata paralizzata dalla paura di un'eventuale ascesa al potere dei partiti islamici. Alcuni di questi timori sono giustificati e comprensibili; molti islamisti promuovono politiche tutt'altro che liberali (…). Tuttavia la maggior parte dei principali gruppi islamisti nella regione non sono violenti e rispettano il processo democratico".
Ed è questo il punto che giovani come Asmaa Mahfouz non tengono presente: se gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno appoggiato Mubarak, ora appoggiano ingenuamente la "democrazia" islamica dei Fratelli Musulmani che non porteranno alcun bene all'Egitto e, soprattutto, non porteranno certo la tanto agognata libertà.
Forse gli attivisti di Piazza Tahrir non hanno ancora realizzato tutto questo perché condividono con la Fratellanza l'aspetto ideologico. Di recente il ricercatore americano Eric Trager ha scritto che tutti gli appartenenti al movimento fondato da Hasan al-Banna si trovano in totale accordo con le parole della ex Guida Suprema Mahdi Akef: "Crediamo che il sionismo, gli Stati Uniti e l'Inghilterra siano bande che uccidono i bambini e distruggono case e campi (13) ".
Non c'è dubbio che queste idee siano condivise appieno dalla maggior parte delle piazze arabe.
Non è un caso che l'associazione islamica più vicina ai Fratelli Musulmani abbia indetto il 21 ottobre scorso una preghiera del venerdì proprio a Zuccotti Park, in sostegno a ‘Occupy Wall Street’ (14) . Nella predica tenuta dall'imam Aiyub Abdul Baki dell'Islamic Leadership Council, si fà riferimento alla giustizia sociale riguardo all'ultimo discorso tenuto da Maometto. In un sottile riferimento a Wall Street l'imam ha ricordato il divieto islamico dell'usura. È inevitabile ricordare che, in seguito alla crisi del sistema finanziario internazionale, si sta registrando una crescita del ricorso alla finanza islamica anche da parte di non musulmani (15) .
Quindi, un eventuale crollo di Wall Street potrebbe rivelarsi un vantaggio per la finanza islamica che viene sostenuta da movimenti come i Fratelli Musulmani. A prescindere, comunque, dal discorso prettamente economico che deve essere trattato in separata sede, in quanto richiede maggiori approfondimenti, è evidente che il filo che unisce Piazza Tahrir, gli ‘’indignados’’ e Zuccotti Park è quello ideologico, anti-americano e anti-capitalista, al quale si aggiungono le condizioni sociali e politiche.
E, forse, Obama a Il Cairo è stato profetico quando ha affermato: "Si tratta di certo di una responsabilità difficoltosa di cui farsi carico: la storia umana è spesso stata tutto un susseguirsi di guerre tra nazioni e tribù che si dominavano per il loro tornaconto. Ma in questa nuova era, un atteggiamento simile si rivelerebbe autodistruttivo. Considerando quanto dipendiamo gli uni dagli altri, un eventuale ordine mondiale che dovesse sollevare una nazione o un gruppo di persone al di sopra di tutti gli altri sarebbe fatalmente destinato all'insuccesso. A prescindere da ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri: i nostri problemi dobbiamo affrontarli collaborando, diventando soci, condividendo tutti insieme uno stesso progresso. Questo non vuol dire che dovremmo ignorare le cause e le tensioni ma, anzi, esattamente il contrario: dobbiamo affrontare le tensioni senza attendere oltre. È con questo spirito che vorrei, quindi, passare a parlarvi quanto più chiaramente possibile di alcune questioni particolari che credo che dovremmo affrontare tutti insieme".
E, forse, sia i suoi nemici dichiarati di sempre sia suoi "falsi" amici di adesso lo hanno ascoltato all'epoca e ora stanno mettendo in pratica i suoi consigli.


(1) J. Stiglitz, "The Globalization of Protest" in http://www.project-syndicate.org/commentary/stiglitz144/English
(2) J. Stiglitz, "Of the 1%, by the 1%, for the 1%", in Vanity Fair, maggio 2011, http://www.vanityfair.com/society/features/2011/05/top-one-percent-201105
(3) E. Zahriyeh, "Occupy Wall Street is no Tahrir Square", 2 novembre 2011, http://edition.cnn.com/2011 /11/02/opinion/zahriyeh-occupy-tahrir-square/index.html
(4) Per il video si veda http://www.youtube.com/watch?v=SgjIgMdsEuk.
(5) Per l'intervista si veda http://www.thememriblog.org/blog_personal/en/34047.htm
(6) Per i dati aggiornati relativi all'economia egiziana si veda https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/eg.html.
(7) J. E. Keating, "From Tahrir Square to Wall Street. What can "Occupy Wall Street" learn from the ctivists who took down Hosni Mubarak?", in Foreign Policy, 5 ottobre 2011, http://www.foreignpolicy.com/articles/2011/10/05/from_tahrir_square_to_wall_street ; si veda anche l'articolo di Moira Forbes che consiglia agli occupanti di Wall Street di prendere esempio dalle donne saudite. Moira Forbes, "How the Occupy Wall Street Protesters Can Learn from Saudi Women", Forbes, 11 ottobre 2011, http://www.frbes.com/stes/moiraforbes/2011/10/11/how-the-occupy-wall-street-protesters-can-learn-from-saudi-women/
(8) "To the Occupy movement - the occupiers of Tahrir Square are with you", in The Guardian, 25 ottobre 2011, si veda http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/oct/25/occupy-movement-tahrir-square-cairo.
(9) A. Goodman, "From Tahrir Square to Occupy Wall Street", The Guardian, 26 ottobre 2011, http://www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2011/oct/26/tahrir-square-occupy-wall-street.
(10) Per il testo del discorso di Obama a Il Cairo si veda http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2009/06/obama-islam-discorso_5.shtml
(11) Per il testo dell'intervista ad al Arabiya si veda http://www.huffingtonpost.com/2009/01/26/obama-al-arabiya-intervie_n_161127.html
(12) Per il testo della lettera di Radwan Masmoudi si veda https://www.csidonline.org/documents/pdf/Letter_to_Pres_Obama_about_Democracy_-_3-5-09.pdf
(13) Eric Trager, "The Unbreakable Muslim Brotherhood", In Foreign Affairs, settembre/ottobre 2011, 114-126.
(14) Si veda http://loganswarning.com/2011/10/18/this-friday-cair-invites-you-to-islamic-prayer-day-occupy-wall-st/
(15) Si veda ad esempio http://www.reuters.com/article/2011/11/30/us-finance-islamic-idUSTRE7AT1DS20111130

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